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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti dal 1828 al 1847
ER BON ESEMPIO.
Cuanno se disce poi nun ce se crede!
Come vòi crede1 a sti parabbolani
de preti, che li cani che ssò2 ccani
viengheno3 più ssinceri, hanno ppiù ffede?
Senti er curato mio che mme succede.4
Com’oggi m’approvò5 cche li cristiani
è ppeccato de fotte;6 e llui domani
ballava su la panza de Pressede.
Ma ggià dar capo viè ttutta la tiggna;7
chè ssi8 un po’ ne mannassino9 a l’incastro,10
je se potrìa intorzà11 cquarche ffufiggna.12
«Come va», jje diss’io, «Padre Filisce?».
E llui rispose: «Lei facci,13 sor mastro,
nò cquer ch’er prete fa ma cquer che ddisce».
Roma, 10 maggio 1833
- ↑ Credere.
- ↑ Sono.
- ↑ Vengono.
- ↑ Cioè: Senti cosa mi succede col curato mio.
- ↑ Provò.
- ↑ Cioè: che, per i cristiani, è peccato fottere.
- ↑ Proverbio.
- ↑ Se.
- ↑ Mandassero.
- ↑ Ergastolo.
- ↑ Dicesi anche rimporre, cioè «rimanere in gola».
- ↑ Contrabando.
- ↑ Faccia.
Note
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