< Eraclidi
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Euripide - Eraclidi (430 a.C. / 427 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Secondo episodio
Primo stasimo Secondo stasimo

Si presenta Demofonte, cogitabondo.

iolao

Da quale cura attratto il ciglio, giungi?
Dei nemici notizie, o figlio, rechi?
S’arrestano a venire, o son già qui?
O che cosa sai tu? Vane minacce
non furon quelle dell’araldo. Il duce
che sino ad oggi ebbe ventura, certo
moverà contro Atene, e non è piccola
la tracotanza sua. Ma l’arrogante
Giove punisce, e chi troppo presume.

demofonte

Le schiere argive ed Euristèo sovrano
sono qui giunti, l’ho veduto io stesso.
Ché non da esploratori apprender deve
chi sé proclama egregio duce, quanto
fanno i nemici. Ancor nelle pianure
del nostro suolo ei non lanciò le schiere:
sul ciglio sta d’una collina, e guarda
con quale arte di guerra egli potrà

la nostra terra invadere, e le schiere
sicuramente stabilirvi. Tutto
anche da parte mia bene è disposto.
È in armi la città, pronte le vittime
sono pei Numi a cui bisogna offrirle,
per tutta la città girano i vati,
arra di fuga pei nemici nostri,
e per noi di vittoria, e insieme accolti
volli tutti gl’interpreti d’oracoli,
e tutte esaminai, palesi o arcane,
le antiche profezie, per la salute
di questa terra. E sovra gli altri punti
la discordanza dei responsi è grande;
ma sovra un punto son tutti concordi:
e comandano ch’io sgozzi una vergine
che nata sia di nobil padre, a Dèmetra.
Tu vedi quanto ben disposto io sono
verso di voi; ma non ucciderò
la figlia mia, né forzerò veruno
dei miei concittadini a mal suo grado.
E di buon grado chi sarà sí tristo,
che di sua mano i figli dilettissimi
consegni a morte? Ed or veder potresti
frequenti assembramenti; e questi dicono
che giusto fu porgere aiuto ai supplici,
gli altri m’accusan di follia. Se mai
un tal atto compiessi, un’improvvisa
guerra civile scoppierebbe. Or tu
rifletti a tutto questo, e il modo trova
di salvare voi stessi e questa terra,
e ch’io dei cittadini schivi il biasimo;
ché despota io non son, come fra i barbari,
ma bene avrò solo se bene adopero.


coro

E un Dio non lascerà che aiuto agli ospiti
porga questa città, che lo desidera?

iolao

Noi dunque, o figlio, a quei nocchieri simili
siam, che sfuggiti alla selvaggia furia
della burrasca, già la terra toccano,
e i venti poi di nuovo li respingono
dal continente in alto mare. Noi
parimenti cosí da questa terra
siamo respinti, quando salvi già
eravamo alla spiaggia. Ahimè! Speranza
perché cosí m’hai lusingato, quando
non dovevi i favori a fine addurre?
E scusare bisogna il suo diniego,
anche se i figli uccidere rifiuta
dei cittadini; e biasimo agli oracoli
infliggere non so, se i Numi vogliono
questa mia sorte: e in cuor la gratitudine
non è spenta però. Ma per voi, figli,
non so che cosa io debba fare. Dove
ci volgeremo? A quale ara di Numi
non cingemmo ghirlande? A quale cerchia
non venimmo di mura? Ora, perduti,
o figli, in mano dei nemici or siamo.
E nulla a me se morir debbo, importa,
tranne se qualche gioia ai miei nemici
darò morendo; ma per voi mi lagno,
per voi piango, figliuoli, e per la vecchia
del vostro padre genitrice Alcmena.

Troppo fu lunga la tua vita, o misera,
e anch’io, povero me, troppi soffersi
dolori invan. Destino era, destino
che, presi dal nemico, infin dovessimo
miseramente abbandonar la vita,
vituperosamente. Or sai che aiuto
dar tu mi puoi? Ché di salvare i pargoli
non ho perduta ogni speranza. Invece
di questi, o re, consegnami agli Argivi.
Cosí tu schivi il rischio, ed i fanciulli
salvi saranno: a me la vita mia
premer non deve. E me prima d’ogni altro
desidera Euristèo, che fui compagno
d’Ercole: me vuole oltraggiar: ché rozzo
è quell’uomo. Ed il saggio affrontar deve
l’inimicizia di chi sa, non quella
dell’anime ignoranti. Allor clemenza
alla giustizia egli trovar potrà.

coro

Non accusar la nostra Atene, o vecchio;
sebbene a torto, alcuno il tristo biasimo
darci potrebbe che tradiamo gli ospiti.

demofonte

Son generose, ma non possono esito
le tue parole aver: non già per fare
preda di te mosse le schiere il principe.
Che guadagno sarà per Euristèo
d’un vegliardo la morte? Ei vuole uccidere
questi fanciulli: poiché son minaccia

fiera al nemico i giovani rampolli
d’un nobil sangue, e degli oltraggi memori
inferti al padre; ed ei deve schermirsene.
Or, se qualche altro piano hai tu piú pratico,
dillo: ché io, da poi che udii gli oracoli,
sono smarrito, ed il terror m’invade.
Dal tempio esce

macaria
La taccia di sfrontata a me non date,
ospiti: ciò per prima cosa io chiedo:
ché tacere, e far senno, e rimanere
tranquilla in casa, son per una donna
le primissime doti. Eppure, udendo
Iolao, le tue querele, io sono qui:
non perché la tutela a me commessa
sia dei congiunti; ma poiché capace
ne sono, e sono i miei fratelli cari
piú d’ogni cosa a me, per me, per essi
chiedere io vo’ se ai mali antichi un nuovo
cruccio or s’aggiunge, che ti morde il cuore.

iolao

A buon diritto, e non da ieri, o figlia,
debbo di te, piú che degli altri figli
d’Ercole, elogio far. Quando sembrava
che prospero volgesse il nostro corso,
spinto è di nuovo tra i perigli. Dice
costui che gl’indovini hanno prescritto
che non si sgozzi toro, e non vitella
di Demètra alla figlia, anzi una vergine,

di nobil sangue, se vogliamo salvi
restar noi stessi, e salva la città.
Eccoci dunque in tal distretta: i figli
proprî, né quelli d’alcun altro intende
costui sacrificare: ed a me dice,
non chiaramente, ma lo dice, che,
se via d’uscita non troviamo, forza
sarà per noi cercare un’altra terra,
e ch’egli salva la sua patria brama.

macaria

A questo patto salvi esser possiamo?

iolao

A questo: in tutto il resto abbiam fortuna.

macaria

Piú dunque non temer l’argiva lancia:
ch’io stessa, o vecchio, e senza averne l’ordine,
a morire son pronta, a offrirmi al ferro.
E che dire, se noi, mentre disposta
ad affrontare un cosí gran pericolo
è la città per noi, le pene agli altri
lasciate, allor che di salvezza infine
s’apre una via, schivassimo la morte?
No, no, sarebbe ciò degno di scherno,
all’are degli Dei seduti supplici
gemere, e, figli di chi siamo essendo,
far la figura dei codardi. Dove
lode avrà fra gli onesti un tal contegno?
Bel vantaggio, affé mia, quando, caduta

deh, non avvenga mai, questa città,
cadessi in mano dei nemici, e, fatta
segno agli oltraggi, io, figlia di tal padre,
dovessi tuttavia scendere all’Ade!
Oppur fuggiasca io vagherò, bandita
da questa terra, e non arrossirò,
se questo o quello mi dirà: «Perché
venite qui coi ramuscelli supplici,
se tanto a cuor vi sta la vita? Uscite
da questo suol: non diamo aiuto a vili».
E neppure potrei, quando i fratelli
fossero morti, ed io salva, speranza
nutrir di sorte avventurosa — molti
per essa già gli amici abbandonarono.
Una fanciulla abbandonata, chi
sposa vorrebbe avere, aver figliuoli
chi vorrebbe da me? Meglio morire
dunque non è, che questi mali, senza
colpa soffrire? Ad altra, insigne meno
ch’io non mi sia, ciò converrebbe forse.
Conducetemi dunque ove morire
deve questo mio corpo, inghirlandatemi,
date man, se vi piace, al sacrificio,
e trionfate dei nemici: è pronta
l’anima mia, non reluttante; e annuncio
che, pei fratelli e per me stessa io muoio,
ché, spregiando la vita, io questa idea
bellissima trovai: lasciarla in gloria.

coro

Che, che dirò, della fanciulla udendo
le nobili parole? Essa morire

pel suo fratello vuole. Oh, qual degli uomini
mai pronunciar piú nobili parole,
compier piú generosi atti potrebbe?

iolao

Oh, non d’altronde generata, o figlia
tu fosti: nata dalla stessa d’Ercole
divina anima sei. Ben vado altero
delle parole tue; ma mi rammarico
della tua sorte; e quale a me parrebbe
miglior giustizia ora ti dico: tutte
le tue sorelle qui venir si facciano;
e quella cui designerà la sorte
muoia pei suoi; ma senza trarre sorte
giusto non è che andar tu debba a morte.

macaria

Mai non sarà che dalla sorte eletta
a morte io vada: e qual merito avrei?
Vecchio, non dire! Se gradite me,
volonterosa, io di buon grado l’anima
offro per essi; ma costretta, no.

iolao

Ahimè!
Di quelle dette or ora, anche piú nobili
queste parole sono; e tu l’ardire
superi con l’ardire, e coi propositi
i propositi egregi. E non t’esorto,
figlia a morir, né te ne fo’ divieto:
che tu, morendo, i tuoi fratelli salvi.


macaria

Bene t’avvisi, e dal contagio immune.
sarai della mia morte: io muoio libera.
Seguimi, o vecchio: ché la morte io voglio
dalla tua mano: assistimi, e col peplo
ricopri il corpo mio. Senza sgomento
del sacrificio affronterò l’orrore,
se figlia io son del padre ond’io mi vanto.

iolao

Alla tua morte assister non potrei.

macaria

Chiedi almeno a costui che fra le mani
delle donne io soccomba, e non degli uomini.

demofonte

Sarà cosí, miserrima fanciulla.
Turpe sarebbe, se l’esequie a te
non adornassi: per piú cause, e massime
per l’eccelso tuo cuor, per la giustizia.
Nessuna donna mai questi occhi videro
piú di te sventurata. Orsú, favella,
se tu lo brami, ai tuoi fratelli, e a questo
vecchio, e rivolgi un ultimo saluto.

macaria

Salve, salve, o vegliardo. Educa tu
questi fanciulli in modo tal, che saggi

crescano in tutto al par di te, non meno:
ciò basterà per essi; e di salvarli
cerca, sia pur della tua vita a prezzo.
Siamo tuoi figli, fra le mani tue
siamo cresciuti; ed offro anch’io, lo vedi,
delle mie nozze la stagione, e muoio
per salvare i fratelli. E voi, fratelli,
siate felici, e tutti i beni in sorte
aver possiate ond’io cadrò sgozzata.
Ed onorate questo vecchio, e Alcmèna
del padre vostro genitrice antica,
ch’ora è nel tempio, e questi ospiti miei.
E se le pene cessino, e per voi
del ritorno la via trovino i Numi,
la salvatrice ricordate, e datele
sepoltura: sarà somma giustizia:
ch’essa non vi mancò, ma, per salvare
i suoi, la morte elesse. E questa sia
la ricompensa mia, dei figli invece,
delle virginee cure; ove sotterra
qualche cosa pur sia; ma forse, meglio
che non vi fosse. Ché se avere gli uomini
dovessero cordogli anche laggiú,
dove rifugio piú trovar? Lo ignoro;
ché la morte è pei mali un sommo farmaco.

iolao

O tu che tutte per altezza d’animo
le donne avanzi, e viva e morta, sappilo,
sommi onori da noi riscuoterai.
E salve. Ch’io dire parole infauste
per la Dea temo a cui sacra tu sei,

per la figliuola di Demètra. Andiamo,
figli, ch’io manco pel dolor. Bendatemi,
appoggiatemi a questa ara, copritemi
coi pepli il capo. Ch’io non godo, o figli,
a veder questi eventi; eppur, la vita
salvar non si potea, quando restasse
incompiuto il responso: anche piú grande
rovina; e pur questa sciagura è grave.
Macaria si allontana.

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