< Ermanno Raeli
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I III


II.


Io ebbi la chiave dell’enimma e gli ultimi veli che mi nascondevano l’anima di Ermanno si sollevarono a poco a poco, quando il mio giovane amico, sul finire dell’inverno del 188* intraprese un lungo viaggio attraverso l’Europa. Padrone assoluto di sè, bramoso di veder nuovi paesi e nuove genti, egli si era lungamente negato il conseguimento del suo desiderio, ponendovi come patto l’acquisto di una soda cultura. Spesso, dopo lunghe giornate di indefesso lavoro nel suo piccolo studio dalle pareti nascoste dietro gli scaffali, al grande tavolo su cui stavano accatastati, a portata di mano, ogni sorta di dizionarii, egli usciva in fretta e correva al porto, lasciando rinfrescar la sua fronte infiammata dalla cogitazione, bevendo a larghe boccate i balsamici effluvii del mare. Là, oltre quella distesa monotona, erano i paesi vagheggiati, le grandi capitali della civiltà, i centri donde parte e dove affluisce il pensiero dei popoli. Nessuno al mondo avrebbe potuto impedirgli di salire a bordo del primo vapore in partenza e di compiere la sua aspirazione; ma egli giudicava che non era ancor tempo; e tanto indugiò, e mise tanta coscienza nell’arricchire la mente di cognizioni prima di girare pel mondo, che l’ansia dei primi anni sbollì e le impressioni ripercosse in quel cervello troppo affaticato non ebbero nulla dell’aspettata vivacità. Il suo viaggio fu una serie di disillusioni; gli stilò dinanzi una processione di belle vedute: piazze, corsi, monumenti, giardini, che egli guardava come dietro a un vetro di cosmorama; le imagini si sovrapposero alle imagini, si confusero, finirono per stancarlo. Egli dovette mescolarsi alla folla che aborriva; la sua personalità si smarrì, si annullò quasi nella varia vastità degli ambienti, e il viaggiatore disingannato finì per rimpiangere le ore di silenziosa meditazione della sua vita di Palermo.

Da questo stato d’indifferenza un po’ stanca egli uscì una volta, a San Remo, dinanzi al sepolcro della madre; ma, compiuto quel pietoso pellegrinaggio, egli proseguì la sua via, senza desiderii, vagabondando, arrestandosi una settimana in un luogo ignorato, torcendo cammino secondo la disposizione dello spirito, la fisonomia dei luoghi o il colore del cielo. Verso i primi d’aprile era a Parigi. M’avvertì del suo arrivo mandandomi un giornale; poi nulla più, per quindici giorni. La prima lettera che ricevetti era datata in questo modo: Dalla Tebaide, 16 aprile.... «Che cosa supponi tu,» mi scriveva, «che io sia venuto a fare qui? Passo il mio tempo nei Musei, più spesso nelle Biblioteche. Sono stato dai principali librai ed ho la stanza ingombra di novità. Ieri fui al Collegio di Francia, al corso del Renan. Già lo avevo visto, ti ricordi, al tempo del Congresso degli Scienziati; egli non è apprezzabilmente mutato. Lo sentissi! Un buon piccolo parroco di villaggio che espone la dottrina ai villici; nessuna oratoria maestà, un’aria bonhomme, delle comuni e spesso familiari espressioni. Una inglese, grassa, bionda, cogli occhiali, certo una authoress, si guardava intorno, scandalizzata, malgrado la sua nordica flemma. Ma che disinvoltura! Sempre la stessa aria di un giocoliere che trasformi una palla in un fazzoletto, il fazzoletto in un soldo, il soldo in una chiave e che all’ultimo faccia tutto sparire. Leggi questo piccolo periodo colto a volo; si tratta della data del Levitico. «Ah! je fais bien mes compliments à ceux qui sont sûrs de ces choses-là! Le mieux est de rien affirmer, ou bien de changer d’avis de temps en temps. Comme ça, on a des chances d’avoir été ou moins une fois dans le vrai!...» Non è tutto l’uomo in questo giudizio?...»

Da quel tempo le lettere seguirono alle lettere, tutte datate ad un modo: Dalla Tebaide!... Dalla Tebaide! Ma lì, malgrado la sua indifferenza, egli aveva pur dovuto esser fatto segno di tentazioni d’ogni sorta! Come sarebbe uscito dalla lotta?... Inaspettatamente, la domanda che io mi rivolgevo ebbe una risposta. «Iersera,» diceva Ermanno in una sua lunga lettera, «il vago spirito di tentazione che qui serpeggia per ogni parte, ha preso una forma. La lotta non è stata lunga, nè la vittoria contrastata. Io ho evitata la Bestia; conosco quello che essa può darmi...» E da quel momento, ora a mezze frasi e ad allusioni, ora in lunghi passaggi di autobiografia, egli mi venne rivelando il secreto fino a quel momento così bene nascosto. «Hai tu notato,» mi scriveva, «la cura da me posta nell’evitare ogni occasione di rivelarti la mia concezione dell’amore? Egli è che le circostanze in cui io la costrussi non sono molto allegre. Da tutto il fondo del mio essere sale un tale disgusto al ricordarle, ed un ribrezzo così freddo mi passa per il corpo, che tu avresti rinunciato a sodisfare la tua curiosità per risparmiarmi una tanto penosa sensazione. Ma un giorno o l’altro non ti debbo io una confessione completa?

«...Dopo tutto, io ho forse torto di pensare che il mio caso sia estremamente raro e meritevole di storia. Io avrò conosciuto pochi uomini, ma una naturale attitudine all’osservare, a notare i minuti fatti, i fuggevoli segni, gl’indizii incerti a cui ordinariamente non si guarda su, ha slargato il campo della mia esperienza. M’inganno dunque se io dico che la gran parte di noi ha subita la mortale profanazione dei sogni più intimamente accarezzati? Sai tu dirmi in quali condizioni di raccapriciante cinismo ci è rivelato il mistero nascosto in fondo a quello che si è convenuto di chiamare l’amore?...»

«...Qui, i chroniqueurs, a proposito dell’ultimo romanzo di Zola, rimettono sul tappeto il vecchio tema del naturalismo. Alcuni gridano allo scandalo, hanno l’aria di chiedere al procuratore della Repubblica di sequestrare il volume e di processare l’autore. Io vorrei soltanto sapere se tutta questa gente è sincera; che cosa va a fare quando, dopo aver fulminato in nome della morale offesa, depone la penna ed esce sul boulevard?... Io non difendo il naturalismo; non mi occupo di sapere se dei limiti, e quali, debbano imporsi all’artistica rappresentazione del vero. Non mi preme tanto del fatto letterario, se non come segno dello stato psicologico di cui è una produzione. E quale è questo stato? Una violenta, e quando ancora si voglia brutale reazione contro le convenzionali menzogne, le raffinate ipocrisie di cui ogni giorno siamo testimoni. Coi piedi striscianti nel fango, con lo sguardo nell’infinito dei cieli, l’uomo s’aggira dentro una primordiale contradizione, e per una fatale vicenda, il magnificamento del basso provoca il magnificamento dell’alto, e viceversa. Gli esaltati, ebri, sognanti romantici hanno per mezzo secolo celebrata l’apoteosi dell’anima umana, gonfii di sublimi speranze, di indefinite aspettazioni. Essi hanno costrutto un ideale tipo di uomini nobili, magnanimi, eroici; hanno vista la vita dal lato più seducente. Ma la medaglia ha il suo rovescio, e troppo a lungo fu ripetuta la parte dell’angelo per non accorgersi che le ali erano di cera dorata. Più d’un Icaro, affidatosi ad esse per spiccare i suoi voli, sentì che si struggevano al sole e precipitò miseramente. Ancora contasi dalla caduta, non vuoi tu che rovesciassero la loro collera sugli autori dell’inganno e, perchè altri non ne fosse più vittima, che gridassero loro: Bugiardi?... Eccoli chinarsi nel fango, raccattare tutte le miserie, sfoggiare tutti i cenci, denudare tutte le piaghe, e con una brutalità di accento per entro alla quale echeggia una profonda amarezza, esclamare: «Questo è il Nume, adorate!...»

«Ciascuno di noi presume di conoscere sè stesso; ma non sorgono talvolta, dall’inesplorato fondo dell’io, delle tendenze, degl’impeti, dei desiderii, delle imagini, delle idee che ci stupiscono per la loro eterogeneità, come se non potessero appartenere alla coscienza che noi siamo avvezzi a scrutare? Tu mi dirai che io piglio le mosse un po’ da lontano per dirti che questo pomeriggio sono stato di una tristezza nera, soffocante, e che avrei voluto essere molte migliaia di miglia lontano da qui. La ragione? Nessuna, o molte. Non avevo detto una parola da parecchi giorni; io parlo un rotto francese e non amo di stringere nuove e temporanee conoscenze. L’atmosfera era dolce, il cielo radioso, il bosco straordinariamente popolato da una folla elegante, gioconda. Avevo soltanto letto poco prima i giornali, e tutte le cronache narravano la semplice e tragica storia del suicidio d’un giovane, quasi un ragazzo, ripescato nella Senna ed esposto alla Morgue. L’imagine del morto, che io non avevo visto, mi perseguitava, e dinanzi alla clemenza del cielo, alla pienezza della vita, io pensavo ostinatamente al dramma scoppiato in quel cuore, alla lotta ignorata, all’oscura sconfitta sull’alto del ponte, in fondo all’onda travolgente..... Poi, quando quell’ossessione cessò, in mezzo all’ultima animazione della folla che si disponeva a lasciar la passeggiata, mi sentii come travolgere anch’io sotto un’ ondata fredda ed opaca. In quel momento compresi che non mi sarebbe molto costato il fare come quel povero ragazzo.

«...Assolutamente, le mie lettere non sono punto gaie; ma egli è che questo viaggio è stato finora una completa disillusione. Io temo d’essere incapace a provare ancora un’emozione un po’ viva. Per fortuna tu mi conosci e non crederai che io inclini verso quella cosa detestabile che qui chiamano pose. Se c’è niente che abbia virtù di farmi sorridere, questo è il pathos romantico; e del resto, oggi, esso sarebbe anche un poco fuori di moda. Non è più il tempo in cui Alfredo de Musset, visitando un podere di Ulrico Guttinguer, esclamava, come segno d’una eccelsa ammirazione: «Ah! quel bon endroit pour se tuer!...» Oggi la vita, anche pei poeti, va presa in un altro senso; ed è forse appunto perchè io non ho uno scopo pratico e immediato da proseguire, un obbiettivo verso il quale concentrare tutte le mie attività, che sono in preda a questo malessere. Ma, senza posa e con l’accento della più grande sincerità, io vedo il mio avvenire infinitamente triste. Nella vita del pensiero, ho provate le prime vertigini della follia, in cospetto del nero senza fine del destino e della fondamentale impotenza umana; nella vita pratica nulla mi arresta, e la vita del sentimento mi è interdetta: troppo brutale, troppo violenta è stata la disillusione sofferta; troppo angosciosa è stata l’esperienza della vergogna, della nausea che precedono e seguono lo spasimo di un istante; troppo amaro mi è rimasto sulle labbra il sapore dei baci comprati, troppo spaventevole è stata la visione delle torture a cui sono condannate le tragiche vittime della nostra superba civiltà sociale, troppo acuto mi ha perseguitato il rimorso della contaminazione subita — e commessa — poichè la miseria è egualmente profonda da una parte e dall’altra nelle coppie accanite sopra i letti rischiosi...

«...Qui non si parla ora che del nuovo dramma di Alessandro Dumas. Io ti dirò una cosa che forse non crederai: non ho letta la sua Dame aux Camélias. Dirò meglio: non l’ho finita di leggere. Questa cosa rimonta — vediamo — ad otto anni fa. Già la prima malinconia del volgersi indietro e di misurare il tempo trascorso scende più spesso sopra di noi... Io ero nel periodo lirico della vita: breve quanto tu vuoi, l’ho attraversato ancor io. Fu una delle poche volte che andai a teatro, una sera che si rappresentava la Signora dalle Camelie. Non ricordo più come si chiamassero gli attori; certo non dovevano avere una grande reputazione, perchè non li ho più intesi nominare; ma fosse il loro ingegno mal conosciuto, od una speciale sovraeccitazione, o non so che cosa altro, tutto il pubblico fu trascinato all’entusiasmo da una rappresentazione così appassionata, così umanamente vera, da dare l’illusione della vita. Io uscii dal teatro ebro, alla lettera. I personaggi mi stavano ancora dinanzi: io li vedevo, io li udivo; Margherita meglio di ogni altro, immortalmente adorabile. Io non pensavo all’attrice, non davo un corpo alla spirituale Figura; ma io l’amavo, intensamente, sentivo di non poter amar altro che lei... Il giorno dopo comprai il romanzo, e andai a cominciarne la lettura, subito, al Giardino Inglese, sotto l’ombra che tu conosci, nel silenzio. La mia mano tremava nel voltare le pagine; ed a misura che avanzavo, il mio cuore batteva più forte, e la Figura mi sorrideva, più adorabile; e come un timore di profanare il mio sentimento, di togliere alla Figura la sua divina idealità cominciò a nascere in me; e il terrore del poi, della vaga angoscia all’approssimarsi della fine, e dello sbalordimento dopo voltata l’ultima pagina, sorse e si fece così gigante, che io chiusi il libro a un tratto, andai a riporlo a casa, e non l’ho più riaperto. A Palermo, io l’ho quasi a portata di mano; nelle mie ricerche in libreria, gli occhi mi corrono sempre a quel volume; ma non vi ho letto nè vi leggerò più...

«...La tentazione mi circonda, mi assedia da ogni parte, sotto tutte le forme. Talvolta temo di non poter durare a resisterle. Penso alla voluttà del rilassamento dei miei nervi troppo tesi, della frescura di una mano passante sulla mia fronte, della morbidezza che le mie braccia stringerebbero... A che cosa mi avrà servito questa mia virtù? Ed è virtù quello che cento persone su cento, a occhi chiusi, deriderebbero? Perchè ostinarmi a non fare ciò che fanno tutti gli altri, semplicemente?...

«... Più mi guardo attorno, più mi rendo padrone del meccanismo sociale, e più il problema dell’amore m’appare complesso e formidabile. Non passa giorno che qui non scoppii, come un tumore, uno scandalo; che delle piaghe non si mettano a nudo, che delle vittime non siano immolate. Passa la folla, elegante, allegra, felice: e il dramma o la tragedia covano nel profondo dei cuori. Ah! il problema è grave, e tutto, nella vita, dipende dalla soluzione che gli si dà: la pace, l’onore, la salute del corpo e dello spirito... Il grande commediografo ha ben ragione di studiarne, nelle sue geniali creazioni, tutti gli aspetti, ed io non vedo perchè sorridere di un’arte che prosegua degli alti e nobili fini. Ma, disgraziatamente, le sue soluzioni, come le nostre, come quelle di tutti, non sono esenti da lamentabili effetti. Il danno è ovunque!... Quelli che più mi rattristano, sono gli adolescenti dalle gentili e quasi muliebri figure. Io non conosco nulla di più angoscioso del contrasto fra la purissima idealità a cui si dedicano tutte le forze dell’anima, e la vergogna in cui si precipita e il brago in cui si affonda. A che cosa valgono dunque i propositi più nobili, le aspirazioni più alte, gli slanci più generosi, se un fiato pestilenziale ammorberà l’anima e ne soffocherà il verginale profumo?... Quando io discendo ad esplorare questi dolorosi secreti, quando io rimescolo il fondo disgustoso del ricordo, quando lo spettro orribile della profanazione mi si presenta dinanzi come il giorno che mi afferrò con le sue viscide mani; allora s’agguerrisce il mio spirito ed oppone più salde barriere alle traditrici lusinghe. Io proseguo intanto fra le rinunzie il mio vago pellegrinaggio perchè, se un premio pur anche l’avvenire mi riserva, lavato, purificato, io possa riesserne degno...»


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