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VII.
All’occhio d’un osservatore superficiale, nulla trapelava della inclinazione che Ermanno Raeli sentiva ogni giorno più grande per la signorina di Charmory; le persone che il cambiamento operatosi nella sua vita impressionava, avrebbero potuto egualmente sospettare che le sue assiduità fossero rivolte alla contessa di Verdara. E poichè il supremo disinteresse e l’interesse supremo tolgono egualmente l’opportunità della percezione, la contessa si era del tutto illusa sul conto dei sentimenti di Ermanno. Egli è che, malgrado la sua resistenza, ella aveva finito per amarlo...
Col suo spirito vivace, critico e polemista — se questa parola vale a definire la speciale qualità che consiste nel non arrendersi mai, nel trovar sempre qualche argomento o qualche partito per rispondere o per ripiegarsi — pronta a cogliere i contrarii aspetti delle cose e dal loro contrasto a farsene un equo concetto, Rosalia di Verdara era naturalmente difesa contro i colpi di testa, gli esaltamenti, le prime impressioni e le esagerazioni di ogni sorta. Se a questo si aggiunga un sentimento vivissimo dei proprii doveri e una sincera gratitudine per la costante fiducia dimostratale dal marito, si comprenderà facilmente come ella non potesse esser tentata dalle seduzioni che si erano un tempo spiegate contro di lei. Poi a tutto questo si era aggiunta una reputazione di scetticismo, di indifferenza, di impermeabilità, che aveva ancor essa contribuito a difenderla. In questa situazione di spirito, la prima impressione destatale da Ermanno era stata una specie di curiosità dinanzi a quella singolare figura di asceta giovane e distinto, di filosofo elegante, di siciliano mezzo tedesco, senza accento nella pronunzia e senza risoluzione nella vita. Quel tipo offriva molti lati alla critica mordace della contessa, ne offriva perfino troppi; ora, quando si trovano nello stesso tempo troppe cose capaci di fare impressione, vi è una grande probabilità perchè nessuna di esse ne faccia. Era quello che accadeva a Rosalia di Verdara. Ermanno Raeli era troppo curioso, usciva troppo dall’ordinario, perchè ella gli applicasse il suo ordinario sistema d’esame e si potrebbe dire di decomposizione. Rimaneva stupita. La serietà di Ermanno spegneva il suo riso; la tristezza che leggeva in lui disturbava la sua serenità. Tutto ciò finiva per contrariarla. Sul principio, aveva potuto sospettare un momento che Ermanno rappresentasse; ma presto aveva riconosciuta tutta l’assurdità di un simile sospetto. Da ogni suo atto, da ogni sua parola, non traspariva forse in lui una grande, un’assoluta sincerità; una sincerità che volentieri si sarebbe chiamata ingenua? Dalla stupefazione alla contrarietà, il sentimento della contessa aveva già fatto un passo, tanto più pericoloso quanto meno apparente. L’avrebbe egli dunque vinta su di lei? Non si sarebbe mai detto! E si era data ad attaccarlo. Aveva già perduta la padronanza di sè. I suoi piccoli attacchi si spuntavano contro la superiorità di Ermanno. Di questa superiorità, Rosalia si accorgeva ogni giorno di più; ella si accorgeva della bontà del cuore, della elevatezza della mente, della nobiltà dei sentimenti di colui che ella considerava come un naturale avversario. Un avversario molto strano, intanto; che la ricercava, che pareva dimenticare in presenza di lei la sua malinconia, che trascurava le sue ordinarie abitudini, che si riconciliava, dal momento che l’aveva conosciuta, con quel mondo dal quale pareva avesse fatto divorzio. Che quella trasformazione fosse opera propria? Ed i versi del Calice erano venuti in buon punto a confermarla nella propria lusinga:
Or d’uno sguardo la potenza sola
I recessi del cuore ha penetrato
E il gusto amaro mi ritorna in gola...
La lusinga della contessa era tanto più verosimile, in quanto che, se Ermanno non faceva nulla per dimostrare alla signorina di Charmory ciò ch’egli sentiva, questa si rivelava, nella intimità da cui era legata a Rosalia, sempre più estranea ad ogni interesse mondano. La sua malinconia, la sua riservatezza si erano fatte, a misura che il suo soggiorno in Sicilia si prolungava, più grandi; tanto grandi che i primi allarmi si erano destati nella contessa, col timore che quella crescente freddezza potesse dipendere da un principio di gelosia. Ma portata così ad osservare da vicino l’amica e la famiglia di lei, ella era ben presto arrivata a domandarsi piuttosto se qualche cosa di intimo, di secreto non si nascondesse fra quelle persone, sotto la disinvoltura ammanierata del visconte, la lenta agonia della moglie e la precoce e crescente tristezza di Massimiliana. Durante il suo soggiorno di Parigi, ella non aveva osservato nulla di simile. Certo, Massimiliana non era mai stata molto vivace; rimasta orfana e povera abbastanza tardi per misurare la profondità della propria disgrazia, raccolta da quello zio che credeva d’aver fatto tutto per lei quando l’aveva assicurata contro le difficoltà materiali dell’esistenza in cambio della libertà che la reciproca compagnia delle due donne gli consentiva; diventata in un certo modo infermiera della viscontessa, la cui salute cagionevole era fin da quel tempo alterata dai dispiaceri che il marito col giuoco, il padre con la galanteria, le procuravano, Massimiliana non aveva molti argomenti di gaiezza nel proprio animo e nell’ambiente in cui viveva. Ma dalla serietà di quel tempo, alla tetraggine che ora di tratto in tratto sorprendeva nei suoi lineamenti quasi disfatti, la distanza era molta. Più la contessa studiava quella famiglia, più le sue vaghe apprensioni crescevano. Talvolta, ella avrebbe voluto parlare a suo marito degli stranieri dell’Hôtel des Palmes, dirle i suoi sospetti, sentire ciò che egli stesso ne pensava; ma dacchè l’imagine di Ermanno Raeli le stava sempre dinanzi, qualche cosa le faceva morire sul labbro le confidenze che era sul punto di fare al marito. Ella non aveva certamente nulla da rimproverarsi, nè un atto, nè una parola, e non pensava alla possibilità che fra lei ed Ermanno vi fosse altro che quella affinità inconfessata, ma infinitamente dolce nella sua purezza. Ella non aveva amato d’amore il conte Giulio; glie l’avevano dato, ella lo aveva trovato avvenente nella sua figura di giovane militare in ritiro, malgrado alcune ciocche di capelli grigi sulle tempie, che dimostravano però come egli avesse vissuto e gli davano un’altra attrattiva. I loro caratteri allegri sopra un fondo di bontà si erano convenuti; da persone di spirito, non avevano domandato di più. La vita era trascorsa per loro facile e lieta, in una mutua libertà consentita dalla profonda fiducia reciproca. Di quella fiducia, la contessa contava bene di esser sempre degna. La coscienza della sua propria forza, l’esperienza della nobiltà d’animo di Ermanno, per cui l’amicizia era sacra, non le facevano nutrire nessuna preoccupazione per l’avvenire. Ciò che ella domandava, era che il giovane le stesse vicino, che si chiamassero col soave nome di amici, che fossero l’uno per l’altro quella specie di giudice invisibile, di genio tutelare, sempre presente nella coscienza e la tacita approvazione del quale si sollecita in tutti gli atti della vita, nei più importanti come nei più minuti... Le donne sono maestre in questa specie di accomodamenti, che permettono loro di abbandonarsi alle dolcezze del sentimento senza credere di mancare al proprio dovere; ma la contessa Rosalia aveva uno spirito troppo acuto per non sentire, dentro di sè, la sostanziale incompatibilità fra quelle tendenze. Era per questo che ella, malgrado volesse persuadersi di non far nulla di male, aveva perduta l’antica serenità dinanzi al marito, con una soggezione crescente che metteva una freddezza nei suoi rapporti con lui.
Da parte di Giulio di Verdara, nulla v’era di mutato nelle sue relazioni con la moglie; ed egli pareva tanto meno essersi accorto dei nuovi sentimenti nati nell’animo di lei, che spesso egli era il primo a parlarle di Ermanno Raeli con quel tono di leggiero persiflage sotto al quale soleva nascondere tutti i suoi affetti e tutte le sue opinioni. Fu dunque senza nessuna istigazione da parte della contessa, e quando il pensiero di lei si era già distolto dagli stranieri dell’Hôtel des Palmes, che Giulio di Verdara, tornando una sera dal circolo, rivelò a sua moglie una circostanza per cui si risvegliarono in lei gli antichi sospetti. «Che giuoco disperato!» aveva cominciato per esclamare il conte, ancora sotto la impressione di ciò che aveva visto. Nel giro di poche ore, d’Archenval aveva perduta e vinta una fortuna, e si era finalmente alzato dal suo posto con una perdita netta di quaranta mila lire... «Il suo sangue freddo,» soggiungeva Giulio di Verdara, «finisce per far male, specialmente quando si pensa...» Ma si era ad un tratto arrestato, con uno scrupolo di propagare una notizia riguardante l’onore d’un uomo al quale stringeva ogni giorno la mano. La curiosità della contessa si era intanto svegliata, ed allo sguardo interrogativo che aveva rivolto al marito, questi aveva ripreso: «A te, infine, posso dir tutto: il visconte non s’è ancora messo in regola con gli ultimi suoi debiti. Stasera ho sentito qualcuno che già comincia a mormorare...» Rosalia di Verdara ascoltava con attenzione quella confidenza che le dava la conferma delle irregolarità sospettate. Se quelle estremità a cui il visconte si riduceva spiegavano il dolore della signora d’Archenval, in che modo potevano determinare la cupa tristezza di Massimiliana? E perchè il padre della viscontessa non veniva a mettere con l’autorità sua un riparo alla rovina del genero?.. Ella teneva per sè tutte quelle domande: «E non pagherà?..» chiese soltanto al marito, perchè egli continuasse a manifestarle ciò che pensava. «Ma....» riprese il conte, con delle nuove reticenze, «io non so se debbo dirti... Ecco: l’altro ieri mi ha chiesto in prestito, per qualche giorno, una somma... Non ho saputo dir di no. Voleva firmarmi delle cambiali; dice che ha telegrafato a suo suocero. Pare che questo suo suocero invisibile rappresenti una specie di divina provvidenza...» Dopo qualche momento di silenzio, la contessa esclamò: «È una famiglia un poco strana,» riassumendo con quella parola il proprio pensiero. Il conte, che passeggiava per la stanza, soggiunse: «Lo credo anch’io... E forse non arriveremo a spiegarla. D’Archenval ha espresso l’intenzione di lasciar la Sicilia.» Dopo una piccola pausa, si fermò, e guardando sua moglie quasi per studiare l’effetto che le sue parole avrebbero prodotto in lei, continuò: «La partenza di Massimiliana lascerà, come si dice, un vuoto!...» La contessa, che quell’annunzio non lasciava indifferente, rispose: «Oh, certo; io le voglio molto bene, povera Maxette...» Ma il conte non le aveva dato il tempo di finire: «Non parlo di te!..» A quelle parole, che suo marito aveva pronunziate con una intonazione scherzosa, la contessa aveva alzato gli occhi su di lui. Repentinamente, un’inquietudine era sorta in lei; una inquietudine nel primo momento assai vaga, ma crescente con tale rapidità, che finiva per darle la sensazione d’una stretta al cuore. Ciò che ella ora temeva, era d’indovinare l’allusione di Giulio; ma l’ipotesi le era parsa così assurda, così repugnante, che con voce calma, quasi indifferente, ella gli domandò: «Di chi parli dunque?..» — «Ma di Raeli, per bacco!..»
Indifferente in apparenza, il conte si era accorto da un pezzo della simpatia di sua moglie per l’amico; ma se da una parte la stima che aveva per Rosalia e dall’altra la fatta scoperta dell’amore di Ermanno per Massimiliana, lo assicuravano contro ogni pericolo, egli metteva ora una specie di piacere un poco cattivo nel togliere alla donna ogni più lontana illusione. Era la prima volta che sua moglie gli aveva dato ragione di sospettare, e l’idea del pericolo lo aveva sul principio turbato un istante. Non aveva mostrato il suo turbamento come non mostrava nessun altro moto dell’animo; ma per una reazione frequente, la sicurezza riacquistata non lo faceva indulgente verso l’oggetto della passata preoccupazione. «Non hai tu visto come guarda Massimiliana?» diceva; «ci vuol poco a capire che si è messo in testa di esserne innamorato! E i tipi di quel genere non si smontano facilmente...» Con una mano afferrata al bracciuolo della poltrona, con l’altra strettamente increspata fino a conficcarsi le unghie nella palma, la contessa faceva degli sforzi su di sè stessa per non gridare al marito: «Taci!.. Tu non sai quel che dici!... È un’assurdità...» ma il conte proseguiva, scherzosamente impassibile: «Quando la vede, gli ridono gli occhi. O perchè avrebbe mutato gusti, genere di vita? Non ti sei accorta di nulla? Ma l’ha perfino scritto sul tuo album... Tutti dicono che finirà per domandarla in moglie...» — «Taci!... Non vedi che mi fai male?...» avrebbe ora voluto gridargli la contessa Rosalia, subitamente ridotta a riconoscere la verosimiglianza di ciò che quello asseriva; ella doveva invece frenarsi, nascondere il tumulto che le si scatenava nell’anima e che le preparava una notte d’angoscia... Era dunque vero? Ella non si era accorta che Ermanno Raeli amava la signorina di Charmory? Fino a che punto si era dunque lasciata prendere, se si era così grossolanamente ingannata? Era vero, sì... ella ricordava ora mille piccoli particolari, mille indizii minuti, il tono con cui Ermanno aveva detto una parola, la vivacità con la quale aveva difesa un’opinione di Massimiliana, l’irrequietezza manifestata quando non l’aveva trovata da lei — da lei che si era creduta l’oggetto di quelle attenzioni... Era vero; ma ella si ostinava a non crederlo, cercava di negare ogni valore a quei sintomi sui quali l’opinione di suo marito si era fondata, di persuadersi che Ermanno era troppo serio, troppo freddo, troppo superiore per innamorarsi così, di punto in bianco... Ed ella non si accorgeva neppure che quell’argomento si ritorceva contro di lei, che era egualmente inverosimile, per la stessa ragione, ch’egli amasse lei. A quella conclusione della fredda logica dinanzi alla quale bisognava che ella sacrificasse il suo sentimento egoistico, ella si acquetava più volentieri, per la specie di consolazione negativa che almeno le procurava: Ermanno non amava lei, ma non amava neppur l’altra; entrambe erano eguali... Allora, l’angoscia della contessa si faceva nuovamente più viva: no, non erano eguali! come avrebbe ella potuto lottare con Massimiliana? Ella era la moglie d’un altro; ella non poteva dargli ciò che non era più suo; amarlo era un delitto! Suo marito era un amico di lui; i più atroci rimorsi avrebbero funestato in entrambi ogni possibile gioia. Invece, Massimiliana... — ma, arrivata ad ammettere che niente avrebbe potuto opporsi alla felicità di quei due, un sordo dispetto le invadeva l’anima: ella non voleva che quella felicità si compisse!... Non era lei la stessa donna che, prima, quando la gelosia non le era entrata nell’anima, aveva rifiutato di pensare che i suoi rapporti con Ermanno avrebbero potuto modificarsi? Non si era ella proposto di combattere la tentazione, di non aver mai nulla da rimproverarsi? Bisognava dunque che la virtù e la colpa non avessero nulla di meritorio o di riprovevole, che fossero il risultato di circostanze felici o disgraziate, se ora, perduta la sicurezza che il cuore di Ermanno fosse suo, ella intravedeva la possibilità di passar sopra ad ogni ostacolo per acquistarlo?... Fuggire dunque con lui, abbandonar la sua casa, fargli tradire l’amico, tradire ella stessa: ecco ciò che avrebbe potuto... Non erano più forti, più allettatrici, più potenti le voluttà che ella poteva dargli, a petto delle ingenuità d’una passione da collegiali, come quella che Massimiliana poteva solo promettergli?... Poi ancora il corso dei suoi pensieri prendeva un’altra piega: ella si domandava che cosa aveva a temere da Massimiliana, così indifferente a tutto, così piena d’uno sconforto che si leggeva negli sguardi sdegnosi di fissarsi su qualcuno o su qualche cosa? Era probabile che ella rispondesse all’amore di Ermanno, il giorno che egli lo avrebbe manifestato? E quell’esistenza enimmatica della sua famiglia, la condotta del visconte, quella partenza improvvisa, non erano altrettante ragioni che dovevano rassicurarla?... Poi ancora ella dubitava di tutto, la sua fiducia svaniva, una specie di delirio s’impadroniva di lei durante quella notte insonne e agitata. Le sue idee si confondevano, le imagini perdevano la loro chiarezza; assopitasi un istante, un terror vago, come fra tenebre minacciose, la risvegliava di scatto... Col nuovo giorno, la sua decisione fu presa: ella stessa avrebbe fatto in modo da apprendere la verità, da strappare ad Ermanno una confessione. Come? Non lo sapeva ancora; sapeva soltanto che quell’incertezza era la morte.