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VI.
La prima impressione provata da Ermanno Raeli quando egli uscì dalla villa del conte di Verdara, fu di stupore. Abituati gli occhi alla luce delle lampade, aveva creduto che fosse già notte; invece l’ultimo crepuscolo illuminava ancora il cielo. Sulle masse del verde che a quell’ora pareva quasi nero, un chiaror d’oro faceva intravedere dei vaghi contorni; i lumi erano già accesi e brillavano con fiamme larghe e gialle: le stelle cominciavano a luccicare e una quiete grandiosa regnava nel viale deserto. Camminando con gli sguardi all’alto, Ermanno aveva appena cansata una carrozza chiusa che si muoveva al passo dinanzi alla villa. In quel momento, egli sentiva nascere dentro di sè una specie di lirico slancio, come se nell’aria dolce, nel cielo purissimo, nelle masse quiete del verde qualche cosa cantasse. La muta armonia del tramonto, dell’adorabile mistica ora in cui, come a lenti giri, la luce sembra ascendere le cerule scale degli spazii infiniti, si riecheggiava in lui; tutto l’essere suo vibrava come in un’ebbrezza. Il ricordo dell’inquietudine, dell’angoscia per le quali era passato, si dileguava, s’inabissava in quel muto incanto. Era della figura, era della voce, era dello sguardo della signorina di Charmory che egli si sentiva deliziosamente pieno; era come una emanazione di lei che raddoppiava a quell’ora ogni sua facoltà vitale. Lo spettacolo del tramonto si svolgeva nel cielo, ma nulla rassomigliava al primo romper dell’alba quanto l’ultimo anelito del giorno, ed il chiarore d’un’alba spirituale si accendeva adesso in lui. Procedendo verso la città, egli fissava lo sguardo al cielo orientale, che si tingeva ancora d’un fioco riverbero, come per la promessa del nuovo giorno; e in quell’esteriore vicenda della luce e dell’ombra egli vedeva un simbolo dell’intima vicenda della gioia e della tristezza. Dopo l’agonia d’un tramonto e la nerezza fredda di una lunga notte polare, tornava il sole ad investirlo dei suoi raggi. Cercar di negarlo era adesso possibile?...
La confessione che noi spesso ci facciamo dell’incapacità a spiegare quel che succede dentro di noi, non è quasi mai sincera; essa esprime tutt’al più la volontà di riconoscere ciò che nel nostro intimo sappiamo con la precisione più grande. In presenza di qualche cosa che sul principio può non avere una spiegazione, l’imaginazione percorre rapidamente tutta la serie dei possibili e sa ben presto a che cosa tenersene. L’irresolutezza di Ermanno nei primi giorni, l’esitazione ad attribuire alla contessa di Verdara od a Massimiliana il suo nuovo turbamento, erano state volute; fin dal primo istante, fin da quando la giovane straniera aveva mostrato di dividere il suo pensiero, pronunziando il profondo verso di Menandro, egli s’era sentito scuotere fino all’intime fibre, aveva sentito iniziarsi la misteriosa operazione di cui adesso vedeva gli effetti, nell’esaltamento a cui era in preda. Ed una domanda tornava con invasante frequenza al suo spirito: come poteva ciò essere accaduto? Non era egli divenuto tetragono alle seduzioni fallaci? non sapeva quel che esse costavano? non aveva giurato a sè stesso di non ricadere mai più nell’abisso antico?.. Ah! egli era che malgrado gli amari disinganni, malgrado la mortale repressione, lo slancio dell’anima non era vinto; e come prima, più di prima, dalla solitudine in cui l’aveva costretta, nella rinunzia che le aveva imposta, essa anelava alla comunione... Dunque, amava già egli la signorina di Charmory? Il sì veemente che stava per salirgli alle labbra si spense prima d’esser formulato. In quello stesso momento, una carrozza sopravvenente lo avanzava, e voltandosi a guardarvi dentro egli aveva scorto, alla luce crepuscolare, il vago profilo della giovanetta. Come una mera apparizione, essa si dileguava verso la rumoreggiante città, dandogli la sensazione d’un distacco fatale... E la città, il mondo, la folla aborrita afferrava anche lui, gli rumoreggiava dintorno, pareva ricordargli che egli era sua preda...
Quando egli fu arrivato a casa sua, l’esaltazione era caduta in un grande sconforto. Ciò ch’egli sentiva, era di trovarsi in una disposizione di spirito dalla quale sarebbe stato in suo potere il passare alla passione, solo ch’egli avesse voluto; ma era appunto tale volontà che egli si risolveva in quell’ora a non avere. In una rapida intuizione, aveva misurata tutta la distanza che separava lui, vecchio di spirito, sfiduciato, ammalato, da quella creatura gentile, all’alba della vita, ignara degli abissi di miseria nei quali egli era caduto. Egli sentiva di non poter dire: io l’amo; ma di poter dire piuttosto: io l’amerei... In questa differenza grammaticale stava il secreto di tutta la sua vita. Una condizione era posta alla sua felicità: non avere avuta quella triste esperienza del mondo e di sè. E come questo non ora possibile, egli non aveva il dritto di domandare ciò di cui non era degno. Sedurre quella fanciulla, ottenerne l’amore con la promessa del suo, sarebbe stata una profanazione, un crimine inescusabile... Il cielo, nella sera saliente, si era fatto d’un azzurro tenero, d’una sfumatura infinitamente delicata, e lo scintillio degli astri era vivido e profondo. I fiori del suo piccolo giardino profumavano la mite aura autunnale. Squisito come la tinta di quel cielo, come il profumo di quei fiori, era il sogno che egli aveva visto balenare un istante; ciò che la ragione comandava era che restasse eternamente un sogno...
La risoluzione che Ermanno Raeli aveva presa quella sera domandava, come principale condizione, che egli non vedesse la signorina di Charmory. Invece, le promesse fatte alla contessa di Verdara, delle quali questa aveva chiesto l’adempimento, lo misero di nuovo, fin da qualche giorno dopo, in presenza di Massimiliana. Erano delle visite alle chiese ed ai monumenti, escursioni a Monreale, a Solanto, per tutti i dintorni più pittoreschi; delle lunghe trottate alle falde di Monte Pellegrino, durante le quali l’intimità fra i varii componenti della comitiva si stringeva naturalmente sempre di più. Le rare volte che la viscontessa d’Archenval si sentiva un poco meglio, ella prendeva parte a quelle gite, non abbandonando però quasi mai la sua carrozza. Di poco maggiore della nipote, aveva un aspetto più fanciullesco, a causa principalmente della malattia che l’aveva avvizzita, accasciata e quasi rimpiccolita. Era di una magrezza straordinaria; dei vuoti le si scavavano sotto gli occhi stanchi, le mani erano ridotte d’una bianchezza e di una fragilità come di cera, ed un brivido di freddo le serpeggiava sempre pel corpo, malgrado le pelliccie ed i plaids sotto ai quali si seppelliva, ed i soavi tepori del sole siciliano. Il visconte, attirato dalla sua passione per il giuoco, lasciava quasi sempre sole la moglie e la nipote, e Giulio di Verdara accompagnava anche raramente la contessa. Egli dichiarava di non comprendere nulla alle così dette bellezze dell’arte, quantunque poi gli artisti nell’imbarazzo conoscessero per prova la sua generosità. In tutto egli era così; sotto un sorriso inalterabile, sotto le teorie graziosamente scettiche, nascondeva una grande bontà, e se qualcuno credeva di prenderlo in contradizione, scoprendo qualcuna delle sue buone azioni, egli rispondeva che anche quelle erano delle blagues e delle corvèes.
Accanto alla signorina di Charmory i propositi di Ermanno si erano, per via di continue transazioni, fiaccati. Fermo nel proposito di non far nulla che potesse dimostrare alla giovanetta il sentimento destato in lui, egli rimaneva estatico dinanzi alla sua grazia, alla sua delicatezza, alla sua seduzione tutta spirituale, come di creatura estranea al mondo sensibile. Col suo corpo esile, appena accennato sotto le vesti severe, con la sua andatura un poco incerta, come di sonnambula ignara del proprio cammino, ella pareva non aver presa sulla terra. Nella conversazione, non si interessava agli avvenimenti comuni della vita, a quei soggetti futili che formano il repertorio quotidiano dei salotti; la sua parola era scelta e rara. E l’occhio si perdeva continuamente dietro qualche cosa che ella soltanto poteva vedere. Cosa strana, della quale non era possibile accorgersi sulle prime: la signorina di Charmory non fissava mai i proprii sguardi su quelli dei suoi interlocutori. Nel più vivo d’una conversazione, od anche dinanzi ai più pittoreschi paesaggi, come quelli che le si svolgevano dinanzi nelle sue corse per la Conca d’Oro, il suo sguardo assumeva talvolta una fissità più grande; e argomenti di discussione o accidenti di natura, tutto pareva sparisse per lei.
Ermanno si saturava del suo fascino sottile e misterioso; ora, la sua risoluzione, sempre più indebolita, si era modificata: egli voleva amare Massimiliana, d’un amore inconfessato, che doveva essere tormento, ma anche delizia indicibile. Nel silenzio della campagna, quando la piccola comitiva degli escursionisti sostava un poco, egli porgeva l’orecchio ai deboli ed incerti rumori prodotti dall’aliare del vento, dalla caduta delle ultime foglie, dal sommesso ronzìo degl’insetti. Nella solitudine, come tutto taceva dentro di lui, egli si chinava ad ascoltare il flebile concerto del germinante amore. Erano delle voci fioche, sussurri indistinti, bisbigli carezzanti; era un nome, sempre lo stesso, ripetuto pianissimo, ma incessantemente, con una eguale intonazione di preghiera, di devozione, di umiltà, di speranza... Allora, dinanzi alla visione d’un avvenire più lieto, tutta la sua antica tristezza si ridestava, e il sentimento era così forte, che egli sentiva come un’amarezza salirgli alla gola. Aveva avuta la tentazione di scrivere dei versi su di ciò, e ideato già un componimento che avrebbe dovuto intitolarsi Il Calice; ma non gli era mai accaduto di apprezzare come allora la verità del giudizio che fa dell’arte un esercizio di giuoco, un’attività fittizia incompatibile con con l’impeto delle impressioni reali. Così, quando la contessa di Verdara gli ebbe chiesto di scrivere qualche verso nel suo album, egli era stato nel più grande degl’imbarazzi. Farsi pregare gli sembrava un’ostentazione; e da un’altra parte quel componimento che gli frullava per il capo era troppo chiaro: una specie di confessione che tutti avrebbero compresa. Poi, a tutto questo s’aggiungeva, più secreto e più profondo, il sentimento del ridicolo che quello strano poeta trovava nella poesia... Se gli uomini hanno un bisogno di elevazione, se tutto ciò che esce dalla miseria di ogni giorno ha un prezzo ai loro occhi, volentieri essi dileggiano coloro che conseguono le cose rare e che si costituiscono una superiorità di eccezione. Il nome di poeta, suprema ambizione dei cuori sensibili, finisce così per essere sinonimo di stravagante, e l’ammirazione per chi ci procura dei momenti di puro gaudio spirituale si complica d’un certo compatimento beffardo. È una delle infinite contradizioni umane di cui pochi s’accorgono, ma che uno spirito critico come quello di Ermanno doveva avvertire fino alla sofferenza. Poeta, egli aveva quasi vergogna di sentirsi chiamare con questo nome, si sentiva a disagio allo stesso modo che se si fosse trovato un giorno per le vie vestito della bianca tunica dei secoli antichi, con una cetra fra le mani e il capo incoronato d’alloro... Alle cortesi insistenze della contessa, egli aveva finalmente risposto adoperando un piccolo artifizio: finse d’aver voltato dal tedesco di Steiblig — un nome di sua invenzione — quel sonetto del Calice che trascrisse nell’album della signora di Verdara firmandolo: Ermanno Raeli, traduttore:
Versato avea nel calice del cuore
La vita ogni amarezza: il corrosivo
Pianto, il Rimorso sordo accusatore,
La Nostalgia d’un cielo fuggitivo.
Ma come in uno strato inferiore
A fiocco a fiocco sempre l’adustivo
Fecciume scende, e il torbido liquore
Riede col tempo al suo nitor nativo,
Così del cuore il fiel pesantemente
Si raccolse nel fondo inesplorato
E ristagnò la calma vitrescente.
Or d’uno sguardo la potenza sola
I recessi del cuore ha penetrato
E il gusto amaro mi ritorna in gola...
Malgrado il suo stratagemma, egli temeva sempre che l’allusione fosse afferrata; ma finì col rassicurarsi completamente. Giulio di Verdara gli aveva risparmiate le sue osservazioni, e la contessa pareva tanto caduta nell’inganno, che lo aveva cortesemente rimproverato di non avergli dato dei versi originali. Anche la signorina di Charmory li aveva letti; ma nulla faceva sospettare ch’ella avesse afferrato il vero senso di quelle parole. Il suo spirito sembrava sempre assente dalla circostante realtà; e, quanto ai suoi rapporti con Ermanno Raeli, Massimiliana non cercava nè sfuggiva la sua conversazione; quando s’impegnava, questa non era nè brillante nè varia; non verteva su fatti, ma sopra idee. Nella eleganza mondana d’un salotto alla moda, la giovane straniera metteva ancora un contrasto; la sua grazia pareva austera nella futilità dell’ambiente, ed ella era come un poco isolata da tutti. In questa specie di impenetrabilità, Ermanno aveva finito per fondare un pericoloso sofisma. Se egli era per la signorina di Charmory un indifferente, una conoscenza come tutte le altre, che ragione di temere avrebbe egli avuta?.. Egli non si diceva che quell’indifferenza ora considerata compiacentemente, avrebbe potuto presto o tardi formare nel suo intimo un soggetto di disperazione; che tutti i suoi voti sarebbero stati perchè si dissipasse; egli non voleva pensare all’avvenire; non domandava altro che l’estasi di quei giorni durasse. La voce profonda diceva di troncare sul nascere ogni speranza, di sottrarsi ad ogni lusinga; e talvolta egli si chiudeva per qualche giorno nella sua solitudine, cercava di riprendere le occupazioni di un tempo; ma tutto gli pareva ora inutile e vuoto. Con uno di quei rapidi voltafaccia così naturali in lui, non gli sembrava più possibile di vivere se non nell’intimità di altri esseri; ed era un affetto fraterno che lo aveva legato ai Verdara, come se fra essi gustasse per la prima volta, dopo la morte dei suoi, le gioie serene della famiglia.
Ma passare accanto a Massimiliana di Charmory in mezzo alla folla, e non accorgersi di nessuno, non sospettare neanche le altre esistenze; essere tutto all’incanto di una comunione spirituale, col vivo sentimento che essa avrebbe formato il più puro profumo della ricordanza: era una di quelle cose che lo riconciliavano con la vita. Questo, anche meno, gli bastava. Solo, lontano da lei, il ricordarla, il ricostruire tutte le frasi che ella aveva pronunziate, il raffigurarsela in tutti gli atteggiamenti che aveva presi, il chiudere gli occhi e pensare soltanto: «Ella esiste,» lo manteneva in uno stato di beatitudine, di fiducia così salda, che egli si sentiva diventato veramente un altr’uomo.