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XLIV.
Alberti sarebbe volentieri rimasto a Belmonte tutto l’inverno, ed anche tutto l’anno. Quella vita calma e serena, circoscritta in un orizzonte limitato, confacevasi alla stanchezza dell’animo suo e al bisogno che provava di rinascere in quell’amore così nuovo, senza che altre immagini del passato potessero venire a turbare il suo pensiero, ed a mettere in pericolo quell’intimità che gli faceva tanto bene. Ma Adele temeva di stancare l’ombrosa e mobilissima fantasia del marito mostrandoglisi sempre dentro la stessa cornice, e sotto il medesimo aspetto. Nel più puro amor di donna, e forse anche in quello dell’uomo, c’è sempre un po’ di civetteria; la moglie volea legare a se più strettamente, indissolubilmente il marito, giovandosi di tutti i vantaggi che il gran mondo dà ad una bella donna, facendoglisi vedere più splendida, se non più bella; alla donna sorrideva forse il pensiero di mettere ai piedi dell’uomo amato la sua eleganza di gran signora, ed anche, perchè no? i suoi trionfi di mondana. Alberti, temendo di mostrarsi egoista non fece alcuna osservazione, e ad inverno già inoltrato tornarono a Firenze.
La marchesa Alberti era leggiadra, la sua felicità irradiava come un’aureola seduttrice su di lei, ella prese con perfetta disinvoltura il primo posto nei saloni fiorentini. Alberti era stato un uomo elegante, adesso era un marito perfetto: accompagnava qualche volta la moglie nelle prime visite, tanto da non dar nell’occhio, e dal canto suo ricominciò a fare press’a poco la vita che facevano tutti i suoi amici; si faceva vedere un momento nei saloni che frequentava la moglie, o andava a trovarla nel suo palco per presentarle qualche amico. Sua moglie era sempre assediata da una folla di cortigiani, ei avrebbe trovato assai strano che fosse stato altrimenti, così facevano tutti, così aveva fatto egli stesso, ma intanto ne soffriva segretamente, e doveva fare sforzi penosi per dissimulare le unghie d’acciaio che gli laceravano il cuore e gli facevano balenare in viso la collera, o sulle labbra il sarcasmo. Piuttosto che tradirsi si sarebbe ucciso; ma senza essere precisamente geloso, senza aver perduto una bricciola della illimitata fiducia che riponeva nella moglie, provava un gran dispetto vedendola corteggiata: sapeva che corteggiare vuol dire insidiare: eppure sarebbe stato quasi un affronto che sua moglie non la fosse stata, ed egli era costretto a stringer la mano a quei suoi buoni amici che gli facevano l’onore d’insidiargli il suo tesoro, e soffriva tutte le punizioni di quella logica mondana in nome della quale avea fatto soffrire egli pure; ne soffriva più degli altri perchè era più orgoglioso e più corrotto, più diffidente, più dissimulatore, e più innamorato.
Marito e moglie non erano più sempre insieme come a Belmonte. Avevano adesso cento occupazioni diverse che li allontanavano inesorabilmente per delle ore parecchie, e subivano senza avvedersene la tirannia della società in cui vivevano. Adele, che amava sempre a cuore aperto, era felicissima di deporre ai piedi di quel sarcastico ed altero signor marito le corone che riportavano tutte le sue vanità di donna, e vedendolo sorridere non sospettava nemmeno quel che soffrisse quell’uomo senza che un sol muscolo della sua fisonomia si contraesse; lo vedeva sempre gentile ed amoroso, lo vedeva pieno di spirito e di buon umore fra i suoi amici, lo vedeva elegante, corteggiato ed invidiato, non scorgeva una nube sulla sua fronte, e lo credeva felice.
Essi s’incontravano sovente all’ora della colazione, e quasi sempre a pranzo. Dinanzi ai domestici si trattavano con calma ed affettuosa dimestichezza; l’etichetta coniugale non costava loro il menomo sacrifizio, perchè entrambi erano perfettamente ben educati. A volte stavano a discorrere prendendo il caffè sino all’ora che la moglie andava ad abbigliarsi per la sera ed il marito andava a fumare il suo sigaro al Circolo; ei l’accompagnava sino alla soglia delle sue stanze, e si lasciavano con una stretta di mano. Spesso la sera accadeva ad Alberto di aspettare Adele seduto accanto al fuoco colla fronte fra le mani. Lo specchio del camino non diceva a lei quali nubi fossero passate su quella fronte. Udendo il fruscío della sua veste, vedendola entrare bella e radiosa, egli levava il capo, sorridente egli pure, si alzava e andava a toccare le mani o le labbra che ella gli porgeva. Allora sedevano accanto al fuoco, narrandosi i casi insignificanti del dì, e le storielle piccanti ridicole della sera. Alcune volte il marito gettava uno sguardo distratto o imbarazzato sulle sue belle spalle nude che arrossivano, ed ella chinava gli occhi, e non avvedevasi che anche lui li teneva fitti sul tappeto — e non sereni come i suoi.
— Come sei bella! le diceva alfine Alberto con una certa risolutezza.
Ella sorrideva.
— Quanti te l’avranno detto stasera! Ella faceva una graziosa spallata.
— Vorrei esser giovane e bello come te! soggiungeva Alberto con un sorriso di cui stentava a dissimulare la tristezza.
— Perchè? domandava Adele un po’ inquieta. Ei tardava a rispondere.
— Vuoi che ritorniamo a Belmonte?
— Sei felice almeno, Adele mia?
— Tanto! e lo abbracciava per dirgli che lo era per lui. — E tu?
— Io... sì! sì!
Alcune volte Alberti era più triste del solito, però senza motivo. Saettava alla sfuggita sulla moglie, quasi inavvedutamente, uno sguardo scrutatore, impallidiva o arrossiva senza volerlo se per caso Adele sembrava più melanconica, o più allegra, o più pensosa del consueto. Non osava rivolgerle la più lontana domanda, indispettivasi contro se stesso, e le chiedeva tacitamente perdono di non so quali sospetti baciandola con effusione. Pensava spesso a Belmonte con melanconica dolcezza, e si rimproverava il suo egoismo. Il suo triste passato gli si rizzava dinanzi come il fantasma della pena del taglione.