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Cap. XLVII
XLVI XLVIII

XLVII.


Qual notte terribile per la povera Adele! Non solo avea ricevuto una acerba ferita al cuore ed all’amor proprio, ma tutto l’edificio della sua felicità crollava; quell’uomo ch’era tutto per lei le sfuggiva, travolto nel turbine di quelle passioni ch’erano state così formidabili per lui, e che lo rendevano formidabile agli altri.

Ella non aveva pianto, non s’era lamentata; all’indomani s’era levata com’era andata a letto la sera senza chiuder occhio, pallida, febbricitante, e avea fatto con calma i preparativi di partenza.

Lungo il viaggio scambiarono una dozzina di parole, parole indifferenti, dette con accento pacato, evitando di guardarsi, parole di ghiaccio che mettevano del ghiaccio fra di loro — ella sentiva stringersi il cuore, e procurava di metterci almeno una certa dolcezza; quella dignitosa rassegnazione sembrava che andasse a colpire in faccia Alberto, il quale sentiva l’abisso sprofondarsi gradatamente fra di loro; lo sentiva alla sua propria freddezza, a quel non so che d’impacciato, di timido ed altero che c’era, a sua insaputa, nelle sue stesse parole.

Cento volte, in quella notte dolorosa anche per lui, era stato sul punto di correre a buttarsi ai piedi di Adele, e chiederle perdono; ma gliene era mancato il coraggio per una fatale delicatezza, per un falso pudore, per una singolare rettitudine della colpa. Domandarle perdono di che? di averla tradita vilmente per una donna che non stimava punto? di aver dimenticato in un istante l’amore di lei, la fiducia ch’ella avea in lui, il loro passato, i giorni, i mesi interi d’intimità, di casto abbandono, d’espansione, d’identificazione completa d’idee, di sentimenti? — di essersi posto sotto i piedi tutto ciò per dei capelli biondi e delle bianche spalle che gli si erano gettate alla faccia? di averla insultata volgarmente all’uscio istesso delle sue stanze? Ma il domandarle cotesto perdono non sarebbe stato un altro insulto? non sarebbe stato come il domandarle una sanzione disonorevole per entrambi? un confessarsi più basso della colpa? D’ora innanzi avrebbe potuto più dirle che l’amava tuttora, che non aveva mai cessato di amarla — ed era vero! — senza sentirsi montare i rossori al viso? e avrebbe potuto credere ch’ella avesse obbliato, e l’amasse ancora, senza dubitare che mentisse anche lei? Quando si cade bisogna almeno aver la forza di non dare del viso nel fango.

Giunti a Firenze, mise in campo degli affari, e partì per la campagna; così toglievasi pel momento al supplizio di comparirle dinanzi in quelle ore che solevano passare insieme. Ella sentiva un gran dolore, una gran paura del carattere di quell’uomo, un gran timore di contrariarlo, e non fece la menoma osservazione.


Alberti aveva detto che sarebbe mancato una settimana o due, e mancò tre mesi. In questo tempo Adele s’era ammalata, assai più gravemente di quel che sospettasse ella medesima, e gliene aveva scritto come di una passeggiera indisposizione. Egli informavasi di lei tutti i giorni per telegrafo, ma non ritornava. Del resto le notizie che riceveva erano sempre più rassicuranti; la marchesa sembrava intieramente guarita.

D’allora in poi il marchese scriveva spesso alla moglie, e spesso riceveva sue lettere. Per lo più erano lettere insignificanti — o significanti troppo — non contenenti altro che le fredde formule della cortesia coniugale, rispettose e asciutte da parte di lui, timide e riservate da parte di lei. Di tanto in tanto un pensiero serpeggiava (è questa la parola adatta, poichè era un serpe) per la mente di Alberto: che cosa sarebbe divenuto di quel tesoro di affetto che c’era nella sua Adele, adesso che per sua colpa era stato distolto violentemente da lui? dove sarebbesi rivolto? su che cosa... o su chi e in qual modo? Allora arrischiavasi ad insinuare nelle sue lettere qualche frase che prestavasi ad un’interpretazione affettuosa, e cercava nelle risposte di Adele il riflesso del sentimento che provava.

Gemmati, avendo saputo che la marchesa Alberti era ritornata da Livorno, sebben non si fosse fatta viva, era andato a farle visita, ed era rimasto colpito dall’alterazione profonda che scorgevasi nell’aspetto di lei. Dopo alcuni giorni Adele s’era ammalata davvero; Gemmati l’avea assistita come una sorella o come una figlia, e, pur dissimulandole la gravità del male, avea insistito perchè ne fosse informato Alberto. I pretesti dapprima, e poi le ripulse ostinate della marchesa l’aveano sorpreso, e non avea tardato ad accorgersi che qualcosa di grosso dovea esserci stato; conoscendo Alberto intimamente, ei ne fu sgomentato più di quanto lo fosse Adele istessa.

Prima di cedere al gran bisogno che sentiva di sfogarsi, di esser confortata, di appoggiarsi ad una mano amica, Adele avea molto combattuto, per delicatezza, per un sentimento di dignità, di rispetto e di amore verso il marito; ma a poco a poco qualcosa erale sfuggita finalmente; Gemmati avea capito il resto, e d’allora in poi erasi mostrato più riservato, e più discretamente affettuoso. Andava a trovarla di sovente, poichè sentiva che il darle occasione di parlar di lui le faceva bene, e che quel povero cuore tremante e malato aveva bisogno di esser rinfrancato da una voce amica; le diceva poche parole, di quelle che sapeva giovarle, o stava zitto, ascoltando pazientemente i suoi discorsi scuciti e febbrili, o il suo silenzio eloquente. Ella avea finito per fargli leggere le lettere di Alberto, così fredde, così compassate, e gli dimandava dei consigli o delle lusinghe. Mostravasi così contenta allorchè Gemmati dicevale che Alberto sarebbe ritornato ad amarla, ch’egli dicevaglielo spesso. L’amico le faceva più bene del medico. Ella guarì infatti, o sembrò esser guarita.


Finalmente una sera piovosa, verso gli ultimi di ottobre, Alberti ritornò a Firenze, e arrivò a casa sua quasi all’improvviso.

Al suo annunzio Adele s’era rizzata di botto in piedi, tutto il sangue le era corso al viso, e vedendolo entrare era ricaduta tremante sulla poltrona, mentre il rossore e il pallore si alternavano rapidamente sulle sue guancie. Gemmati osservava con occhio inquieto cotesti sintomi, e rimaneva preoccupato. Alberti fu sorpreso dell’accoglienza che gli si faceva, e parve arrestarsi un istante sull’uscio, e saettare uno sguardo rapido e profondo sulla moglie e su Gemmati. Poi era andato a stringerle la mano, l’aveva stretta anche al suo amico, e s’era messo a sedere e a discorrere di quel che avea fatto, e di cose indifferenti con aria distratta. Anche Gemmati erasi mostrato un po’ freddo verso il marchese, di cui il suo leale carattere non poteva scusare la condotta. L’arrivo di Alberto evidentemente avea gettato del ghiaccio nel discorso che andava freddamente e alla meglio. Dopo circa un quarto d’ora Alberto protestò una grande stanchezza e si ritirò.

L’indomani andò a trovare la moglie, e s’informò più minutamente della salute di lei.

— E Gemmati... lo vedi spesso?

— Sì.

— Ah! — e parlò d’altro.

Le disse della ubertosa vendemmia, e della Sassosa, la famosa Sassosa, e dei miglioramenti fatti, delle disposizioni date, delle occupazioni piacevoli che avea trovato in campagna.

— E tu? le domandò. Come hai passato il tuo tempo?

— Ma... bene.

— Sei molto pallida, sai! Devi esser stata più male di quel che m’hai scritto.

— Adesso sto meglio.

— E Gemmati è il tuo medico?...

— Sì.

— Dicono che sia un bravo medico. È stato sempre un uomo d’ingegno.

— È verissimo, in pochi mesi qui a Firenze s’è fatta una bellissima riputazione.

— E dei clienti?

— Molti.

— Devi essergli doppiamente grata in tal caso della sua assiduità... — ella levò timidamente gli occhi sul viso marmoreo di lui — però trovo strano... davvero!... ch’egli non m’abbia avvisato della gravità della tua malattia... molto strano! disse Alberto andandosene.

Adele era rimasta confusa, sgomenta, trepidante; in mezzo a tutto questo vago turbamento insinuavasi come un raggio di sole fra le tristi nebbie della sua anima la speranza che in quel cuore di sasso fosseci ancora qualcosa di vivo che agitavasi per lei. D’allora in poi ella s’arrischiò timidamente a far scorgere anche a lui qualcosa di quel suo nuovo sentimento, di quella deliziosa speranza. Alberto volgeva uno sguardo sorpreso, penetrante, pensieroso su di lei, a quelle commoventi esitazioni, a quegli abbandoni pudibondi e timidi, a quegli slanci repressi, che tremolavano nello sguardo, o vibravano nella voce, o avvampavano nei rossori subitanei di lei. Avea anch’egli di quelle esitazioni, di quelle distrazioni, il ghiaccio si liquefaceva, e il dubbio si dileguava. Anch’egli sorprendevasi a stare più lungamente del solito accanto a lei dopo il desinare, e a non cercare più con tanta fatica i soggetti più comuni per la grama conversazione officiale di quelle ore, o a non essere più tanto impacciato se il silenzio li sorprendeva tutt’e due, cogli occhi fissi sulla fiamma del camino; in certi momenti il cuore davagli come uno sbalzo in petto, la parola soffocavaglisi in gola, e volgea su di lei gli occhi distratti e profondi. Una sera dopo aver preso il caffè, erano rimasti più a lungo del consueto accanto al fuoco, ella come assorta in quel silenzio e deliziosamente turbata, egli astratto, stuzzicando i tizzi colle molle. Da qualche tempo le rare parole erano finite anch’esse; marito e moglie non avevano più bisogno di parlarsi, non rimaneva loro che stringersi quelle mani le quali più di una volta si erano stese disavvedutamente, allorchè fu suonata una visita ed il domestico annunziò Gemmati.

Alberto si scosse, si alzò bruscamente, e fece due o tre passi scostandosi dalla moglie con vivacità. Poi tornò indietro; il suo volto avea ripreso la solita maschera di marmo. Ella a quel movimento del marito si era fatta di brace.

— Fate entrare; disse il marchese, poichè sua moglie non dava nessun ordine.

— Ti faccio fuggire? gli domandò Gemmati stendendogli la mano.

Al contrario, rispose Alberti, senza avvedersi del gesto e tornando a sedere sulla poltroncina. — Ecco!

Il discorso si avviò su cose indifferenti. Malgrado la gran forza di dissimulazione che possedeva Alberto, balenava di tratto in tratto nelle sue parole un’ironia dispettosa di se stesso e d’altrui. Adele, sbalordita dalla luce che si era fatta improvvisamente nelle sue idee, taceva spesso, era spesso pensierosa, e sembrava imbarazzata. Gemmati sentiva l’effetto che aveva prodotto la sua visita, ed era impacciato anche lui, senza saperne troppo egli stesso il perchè. Fra tutti loro Alberto solo mostravasi il più amaramente disinvolto. Come accade qualche volta, a furia di cercar di stordire la preoccupazione comune col divagare sugli argomenti più disparati, il discorso era sdrucciolato appunto sul terreno scottante della cronaca galante, e parlavasi di un duello famoso nel quale un marito avea avuto torto, duello che allora faceva le spese della conversazione in tutti i ritrovi della città. Adele era sulle spine; lo stesso Gemmati capiva d’aver fatto una corbelleria; ma Alberto non davasene per inteso.

— E tu? domandò poco dopo a Gemmati; non pensi di prender moglie anche tu?

— Almeno sino adesso....

— Temi d’aver torto in duello?

— No, perchè non ho fede in coteste riparazioni, e non mi batterei.

— Hai ragione, disse Alberto serio serio, dopo un istante di riflessione. Alla fin fine, se l’onore, non ha un fondamento naturale, è una convenzione sociale anch’esso... una cosa falsa... perchè battersi?

— Ne sei convinto? gli domandò Gemmati, ironico a sua volta.

— Perfettamente, rispose Alberti con calma.

Dopo che Gemmati se ne fu andato, Alberti rimase ancora soprappensieri; poi si accommiatò dalla moglie.

Vedendolo uscire, Adele fu due o tre volte per buttargli piangendo le braccia al collo e dirgli: — Oh, Alberto!... — Ma le parole, lo sguardo, il sorriso, la fisonomia del marito le agghiacciarono il sangue nelle vene.


All’indomani la colezione di marito e moglie fu silenziosa. Si scambiarono appena le parole indispensabili di cortesia, e tosto alzato da tavola Alberti disse alla moglie:

— Non vai stasera al ballo di casa Rossi?

— No, rispose Adele pensierosa.

— Non vai più in nessun luogo!... è singolare!

— Se lo desideri...

— Non desidero nulla. Sembrami sconveniente cotesto stare rintanata in casa, appena appena compatibile ad un’innamorata... Tu cominci a render ridicola la nostra luna di miele, mia cara!... e sai bene che non ci ho colpa.

Ed uscì.

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