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XVII.
Era una di quelle ultime notti d’autunno che preludiano l’inverno, scura e tempestosa. Gli alberi si contorcevano sotto un vento furioso che gemeva come voce umana; i cani uggiolavano spaventati; l’aria era talmente carica d’elettricità che sentivasi quel vago senso di terrore, fantastica attrattiva della notte.
Alberti saltò giù dalla finestra, quella medesima finestra che aveva scavalcato qualche tempo innanzi con tutt’altro amore nel cuore, e non volse gli occhi a quella della cugina se non che per spiare se potesse esser visto. In tutto il suo interno non c’era che una sola idea, indistinta, cieca, affascinante; passeggiò innanzi e indietro pel viale che correva dinanzi alla villa, coi capelli irti e il sudore sulla fronte, mentre il vento ululava, e le foglie degli alberi sembravano scrosciare per gragnuola; il buio che l’avvolgeva lo penetrava del tutto; sentiva dentro di sè certo mugolío tempestoso, somigliante al vento che gli faceva sbattere sul viso le foglie morte. Due ore scorsero in un lampo; ei avrebbe passeggiato tutta la notte senza accorgersene, sotto la pioggia, sotto la neve, sotto l’uragano.
Tutt’a un tratto sentì afferrarsi da una mano, come se le tenebre avessero preso corpo.
— Velleda! esclamò, prorompendo in quel nome che lo riempiva tutto.
— Ebbene, che volete?
— Velleda! ripetè.
Ella non lo vedeva, sebbene lo toccasse quasi, e quella voce, nel buio, le faceva paura.
— Sapete quel che m’avete fatto fare?
— Sì, lo so! rispose risolutamente.
— Voi! il fidanzato di un’altra!...
— Sì!
— Il fidanzato della mia amica!
— Sì!
— M’avete minacciato di fare una pazzia, per farmi commettere una pazzia!
— Sì!
— Cosa dovete dirmi?
— Che vi amo! diss’egli con voce sorda.
— Io venni qui per dirvi che sono la figliuola del conte Manfredini! rispose Velleda con la voce fremente di orgoglio.
— Io ci venni per dirvi che sono un vigliacco! ribattè Alberto.
Successero alcuni istanti di silenzio.
— Oh! se avessi potuto prevedere! diss’ella finalmente.
Alberti esclamò duramente:
— Voi lo sapete da molto tempo!
— Signore!
Egli non battè palpebra.
— Sì, riprese con febbrile esaltazione; avete sorpreso il mio pallore da Caino, avete indovinato il mio tremito e i miei sguardi da Giuda; vi siete vista nello specchio, e avete pensato: sono bella! quest’uomo deve amarmi come un pazzo! quest’uomo deve contorcersi e strisciare al pari di una vipera calpestata dal mio stivalino!
Velleda trasalì, come se il demone dell’orgoglio avesse accarezzato con lingua di fuoco tutte le vanità della donna.
— Sì, ho visto tutto ciò, diss’ella, e sono stata più forte di voi!
— Ne avete riso!....
— Io vi amavo, o signore! disse ella con nobiltà.
Alberti barcollò, e cercò inutilmente una parola che esprimesse l’irrompere della sua passione:
— Voglio vedervi! gridò. Lasciatemi vedervi. Ella scorse gli occhi di lui scintillare nel buio come quelli di una belva. Il forsennato la spinse per forza verso quella parte del viale dove gli alberi erano più radi e l’oscurità meno fitta, l’afferrò per le tempie, le rovesciò il capo all’indietro, e la baciò con uno sguardo di fiamma. Velleda mise un grido, che il vento soffocò.
— Marchese Alberti; disse pallida come uno spettro, io non vi avevo fatto l’insulto di diffidare di voi.
Ei si arretrò di due o tre passi.
— Ascoltatemi bene, signore! Son l’amica di Adele, e mi sento ancora degna di lei, e di me. Questa è l’ultima volta che ci vediamo; vi parlo come attraverso un abisso insormontabile, come stessi per morire per voi, ecco perchè non vi ho nascosto e non vi nascondo nulla. Non vi ricambierò d’amore giammai! Io farò il mio dovere, e prego Dio che voi facciate il vostro.
— Qual è il mio dovere? domandò Alberti a guisa d’uomo colpito dal fulmine.
— Dimenticatemi, è il meglio che possiate fare. Alberto rispose con un fosco sorriso.
— Ebbene, io farò il mio! soggiunse Velleda dopo un istante di silenzio.
— Ho previsto tutto quello che potreste fare; diss’egli con tenacità disperata. Voi mi fuggirete: io vi seguirò; mi disprezzerete: vivrò per vedervi; non mi amerete: vi amerò io!...
Così dicendo sembrò che gli mancassero le forze, cadde lentamente sui ginocchi e stette colla testa fra la polvere. Velleda gettò un lungo sguardo su quell’uomo che singhiozzava ai suoi piedi.
— Alberto! disse dolcemente, — ei balzò in piedi — Alberto, lasciamoci degni l’uno dell’altro; dimentichiamo un istante di debolezza e di follia; siamo forti!...
— Che bisogno avete di esser forte voi? domandò il giovane con terribile ingenuità. Quali debolezze sentite? Quali follie temete?
Ella chinò il capo senza rispondere.
Alberto attese due o tre secondi in ansia mortale.
— Ma parlate, in nome di Dio! gridò delirante, scuotendole le mani con asprezza. Mi fate impazzire!
— No! esclamò dessa. No!.... no! Mai!
E fuggì come un’ombra.