< Eros (Verga)
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Cap. XXXI
XXX XXXII

XXXI.


Alberto s’incamminò lentamente andando alla ventura col sigaro in bocca, il viso pallido, l’occhio ardente e fisso dinanzi a sè, guardando macchinalmente il lago, i monti, la gente che incontrava. L’aria fresca del mattino facevagli dilatare i polmoni con forza, e sembrava infondergli un’esuberanza di vita. Il canto degli uccelli, i mille profumi dei campi, i primi raggi del sole, lo penetravano vagamente, sottilmente, con un’altra fisonomia, quasi gli appartenessero e fossero al mondo soltanto per lui, incarnandosi confusamente in una immagine fitta nel cervello, nel cuore, dinanzi agli occhi. Il suo pensiero era inerte o vertiginoso; tutti gli avvenimenti di quella notte si urtavano confusamente nella sua memoria fra di loro, e l’abbagliavano colla luminosa intermittenza della luce elettrica. Non avrebbe saputo esprimere quel che provava, se era felice oppur no; sentiva un gran sbalordimento, un desiderio febbrile, un’immensa gioia tumultuosa, inquieta — e lei, sempre là, dinanzi agli occhi, dentro di sè, dappertutto.

Le vie incominciavano a popolarsi, il lago formicolava di barchette, e Alberti gironzava sempre attorno a quella villa che esercitava un fascino su di lui. Ella doveva esser lì, dietro ogni persiana, ansiosa, bramosa come lui, a cercarlo anche lei cogli occhi, colle reminiscenze, colla fantasticheria. Contemplava quella terrazza ov’erano stati insieme, quella balaustrata alla quale ella si era appoggiata, quella scalinata per la quale era discesa, quel lago sul quale s’era cullata mollemente la loro barchetta, circondata di tenebre discrete, dolci, misteriose. Tutte quelle cose adesso erano inondate di sole, senza ombre, senza veli, petulanti. — Udiva dentro di sè quella parola «m’aspetti» — e quel piccolo grido soffocato.

Verso le undici non potè più resistere al desiderio di rivederla, come se l’avesse lasciata da un secolo, ed andò. La cameriera gli disse che dormiva. Ei se lo fece ripetere due volte, quasi non fosse ben sveglio egli pure, e volse le spalle. Poi tornò indietro, e lasciò per lei il suo biglietto di visita, sul quale scrisse in inglese col lapis:

«Invidio voi che potete dormire.»

Andò all’albergo, si buttò sul letto, e dormì due o tre ore un sonno da ubbriaco. Una lettera di lei venne a svegliarlo di soprassalto.

«Amico mio, diceva, verrete domani alle quattro? Avrò anche la signora Rigalli, e faremo della musica. Conto su di voi. Oggi sono a pranzo dai Corvetti.»

Il carattere era elegante, tracciato con mano sicura, la firma era per intero: «Emilia Armandi.»

Il povero giovane stette mezz’ora voltando e rivoltando fra le mani quel fogliolino profumato, e rileggendo quelle due righe così semplici, così chiare, che non riesciva a comprendere.

Ei passò tutto il giorno in una specie di sonnolenza e di sbalordimento, pensando a lei, a che cosa stesse facendo, a che cosa fosse accaduto, al perchè gli ordinasse di non vederla sino all’indomani, al come ella potesse aspettare sino a questo domani senza soffrire al par di lui. Trasaliva al ricordarsi con miracolosa precisione le parole di lei, il tono della sua voce, il profumo de’ suoi capelli; stava guardando il lago, quel medesimo lago, che cominciava a farsi bruno, e su cui le stelle cominciavano a scintillare. Fra il disordine delle sue idee ce n’era una più insistente delle altre: perchè ella gli avesse fatto promettere di buttarsi nel lago, e perchè poi non glielo avesse ordinato. Sapeva che non l’avrebbe obbedita, e che quel tale amore lo rendeva vile?


Il giorno dopo, avviandosi verso le quattro alla villa Armandi, incontrò la signora Rigalli che andava ad imbarcarsi insieme ad un’allegra brigata.

— Non va dalla contessa Armandi? le domandò con un po’ di sorpresa.

— No. L’Emilia doveva anzi venire con noi, ma stamane m’ha scritto che ha cambiato idea. Vuol essere dei nostri?

— Grazie, non posso; e si allontanò almanaccando perchè l’Armandi in un biglietto di tre righe ci avesse cacciato anche la musica e la signora Rigalli.


Trovò la contessa nel suo salotto, sul suo canapè, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche; fu accolto col miglior sorriso, e fu presentato agli altri senza il menomo imbarazzo. Ella era perfettamente padrona di sè, piena di brio e disinvoltura — scherzò anzi coll’aria un po’ stralunata di lui — parlò di corse sul lago, di partite di piacere, delle avventure dei bagni. Un tale domandò del conte Armandi, ch’era ancora a Torino sebbene la sessione fosse chiusa da un pezzo.

— Verrà quanto prima, rispose la contessa, appena terminati non so quali lavori di non so qual commissione parlamentare — e rivolgendosi alla signora che aveva al fianco aggiunse sorridendo: — Quella benedetta politica è una rivale pericolosa.

Alberto ascoltava la sua voce, e guardava le sue belle mani, ornate da larghi manichini di trina, che ella tirava in su allorchè le cadevano lungo il braccio. Alle ultime parole di lei la fissò in viso; poscia arrossì, senza saper perchè, distolse gli occhi, e prese parte alla conversazione con vivacità nervosa, a sbalzi, con lunghe interruzioni che avrebbero grandemente sorpreso tutti coloro che erano presenti se non fossero stati tutti perfettamente bene educati.

— Non va colla signora Rigalli? domandò ad un tratto.

La contessa gli rivolse un’occhiata tranquilla e rispose:

— No.

— Mi disse però che contava su di lei....

Souvent femme varie! — rispose l’Armandi colla massima disinvoltura, e sorridendo un po’.

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