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XXXII.
Infine i visitatori se ne andarono a poco a poco. Alberti e l’Armandi rimasero soli, seduti l’uno accanto all’altra, e, per alcuni istanti silenziosi.
La contessa s’alzò all’improvviso, si allontanò bruscamente da lui, diede un’occhiata incerta all’intorno, poi gli venne incontro risolutamente facendo frusciare i lembi del vestito con un sibilo di serpente irritato, e gli si piantò in faccia.
— Cosa avete? dite infine! parlate! esclamò corrucciata.
— Nulla, cosa volete che abbia? rispose egli con durezza.
Le labbra della donna tremarono convulsamente, e s’agitarono due o tre volte come per parlare. Ma ad un tratto scoppiò in un accento indescrivibile, coprendosi il viso colle mani:
— Ah! come mi punite!
Ei s’alzò, le prese le mani che gli sfuggirono, e rimase alcun tempo senza trovar parola. — Che vi ho fatto? balbettò alfine.
— Nulla m’avete fatto! esclamò l’Armandi sdegnosamente.
Alberto le prese nuovamente la mano; stavolta ella gliel’abbandonò senza accorgersene; teneva gli occhi fitti sul tappeto, torva, accigliata. Tutt’a un tratto gli disse con voce breve e concitata, piantandogli in faccia uno sguardo lucido e freddo come l’acciaio:
— Perchè mi son data a voi! Cinque minuti prima di divenir vostra amante mi sarei piuttosto buttata nel lago se avessi potuto immaginarlo! Ora avete il diritto di dubitarne!
— Alberto si fece rosso e pallido. — Non m’amate? le disse allentando la mano.
— Che cosa pensereste adesso di me se non vi amassi? gli rispose sorridendo di un riso che le faceva rilevare il labbro superiore con un’espressione d’amarezza intraducibile. — Ma non avrei voluto essere vostra amante... Ve lo giuro per mia figlia... per mia figlia! replicò con forza, guardandolo alteramente negli occhi, e scuotendogli la mano, nell’osservare un impercettibile movimento di lui. — Voi m’avevate preferito un’altra donna, ed io era orgogliosa... — e chinando il capo con sarcastica e fiera rassegnazione: — Adesso vedete che non lo sono più!
Si abbandonò sulla poltrona e nascose il viso nel fazzoletto, senza muoversi più, senza dire una parola, così altera e sdegnosa che Alberto non osò scostare una punta di quel fazzoletto.
— Cosa v’ho fatto? replicò alfine giungendo le mani. Non vedete come soffro, come vi amo, come ho sofferto per non avervi potuto vedere?.... Avete letto il mio biglietto?
— Sì.... e la mia cameriera prima di me.
— Ho scritto per questo in inglese.....
— Avreste dovuto scrivere in camaldolese: sarebbe stato meno sospetto, e meno compromettente.
Ella parlava piano, con calma, con accento di rassegnazione ironica, col viso dimesso, e le mani incrociate sulle ginocchia.
— Ho avuto torto! rispose Alberto alquanto indispettito; perdonatemi. Vi amavo, avevo perduto la testa. Non pensavo alle convenienze, al mondo, ai domestici... Avevo bisogno di pensare a voi.... di fare qualche cosa per voi.... Non avevo altro da dirvi....
— Nemmeno che avreste fatto della musica colla signora Rigalli, onde non compromettervi col vostro scritto. Non è così? interruppe la donna.
— Oh!
— Perchè arrossite d’avermelo rimproverato mezz’ora fa? Avevate ragione! riprese ella colla medesima calma nella parola, nell’accento, nella fisonomia e nell’atteggiamento. Il vostro amore è schietto, franco, e sincero — io ho parlato dinanzi a voi di mio marito, e non ho arrossito in presenza di coloro che mi ascoltavano. Ho mentito l’indifferenza e la disinvoltura, ho mentito verso di voi, verso i miei doveri, e verso il mondo — avete il diritto di pensare che abbia mentito anche quando vi ho detto che vi amo! Mezz’ora fa mi avete guardato in faccia stupefatto due o tre volte, e avete arrossito per me — vi ho visto. — Voi non ci avete colpa. Son moglie, son madre, ho dei doveri sociali, e son la vostra amante: è impossibile conciliare tutto quello che ci è di contradittorio nel mio stato, senza mentire. Io mi sono umiliata ai vostri occhi facendo il sacrificio del mio orgoglio e della mia delicatezza dinanzi a voi — per voi. — Non vi faccio un rimprovero. È colpa vostra se tutto è della vostra parte? la franchezza, la lealtà, la delicatezza, l’onore, e, a salvaguardia di tutto ciò, la vostra spada? Voi avete tutto quello che io mi son messo sotto i piedi... per voi.
A queste ultime parole il sarcasmo scoppiò nell’accento vibrato, sibilante, nel sorriso amaro e nelle calde lagrime che ella asciugava dispettosamente prima ancora che spuntassero sull’orbita. Ciascuna di quelle parole, ciascuno di quegli accenti andavano a colpire sul viso Alberti che stava zitto, immobile, arrossendo e impallidendo a vicenda, come se si sentisse schiaffeggiare dalla propria coscienza.
— Perchè m’avete amato? domandò alfine con voce fremente e soffocata.
L’Armandi alzò su di lui gli occhi ardenti di lagrime e di collera, come smemorata, e non rispose.
— Perchè non mi scacciate? replicò Alberti.
Un’espressione indefinibile, un non so che di attonito, d’ansioso, d’irato, di vendicativo, d’innamorato e di pauroso, lampeggiò nello sguardo della contessa. Ella stette alcun tempo senza dir nulla; poi arrovesciò il capo all’indietro sulla spalliera della poltrona, con un movimento felino, e colle mani intrecciate dietro la nuca, colle larghe maniche cadenti per le candide braccia, rispose mollemente, guardando il soffitto.
— Avete ragione. Il meglio sarà non vederci più.
Alberto rimase immobile, guardandola. Ad un tratto si precipitò su di lei come un leone innamorato, l’afferrò per la vita, senza dire una parola, e la sollevò sulle braccia. Ella piantò gli occhi scintillanti come armi omicide in quel viso pallido e stravolto, tenendosi discosta da lui con tutta la forza delle sue braccia irrigidite, e all’improvviso gli si avventò al collo, e lo baciò rabbiosamente.