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XXXII.
A Bellagio il marchese Alberti aveva la riputazione d’essere alquanto originale, e infatti menava tal vita da giustificare cotesta riputazione. Non si faceva vedere da nessuno per delle settimane intiere, e poi tutt’a un tratto correva a tutte le riunioni, prendeva parte a tutti i divertimenti; assetato di piaceri, montava spesso a cavallo, faceva delle corse da Numida, o dormiva per ventiquattr’ore, o lo s’incontrava a scorazzare per i sentieruoli più deserti ad ore da poeti, o passava le notti ad un giuoco d’inferno, perdendo delle grosse somme, che non pagava dentro le ventiquattr’ore, ma che pagava sempre. Le signore chiudevano un occhio sulle stranezze di lui perchè egli li avea molto belli tutt’e due, era giovane e ricco, e qualche volta anche grazioso ed amabile. Quel po’ di corteccia ruvida che gli rimaneva attaccata, e di cui s’ingegnavano a gara di mondarlo, davagli anch’essa una certa agreste attrattiva — dicevano. Egli aveva i migliori cavalli, gli amici più devoti, ed una volta pregò due di costoro d’andare a sfidare un tale, il quale aveagli detto che aveva anche la più bella amante. I due amici cominciarono dal ridere, ma per rabbonirlo dovettero finire col dirgli che non era proprio il caso di prendere in mala parte un complimento di cui molti altri sarebbero stati lusingatissimi. Alberto erasi incaponito che quel complimento fosse ingiurioso per la riputazione della dama. Il più intimo dei due, quegli che desinava più spesso con lui e che gli doveva di più, lo tirò alquanto in disparte e gli disse:
— Caro mio, sei ben sicuro d’essere stato il primo amante di quella dama?... Be’... Non c’è di che arrossire... Lasciamola lì piuttosto. Un duello la comprometterebbe infinitamente dippiù. Andiamo a cena e dormiamoci sopra.
La contessa riceveva Alberti frequentemente di giorno, anche quando non c’era per tutti gli altri, e di sera, allorchè faceva della musica: il marchese era distinto pianista, e l’Armandi amava la musica appassionatamente — ognuno lo sapeva. Alberti la vedeva in tutte le riunioni, in tutte le partite di campagna, in tutte le traversate sul lago, l’accompagnava sovente a cavallo o in carrozza, da solo o in numerosa compagnia, stava con disinvoltura nel salotto di lei, l’accompagnava al piano, e faceva il galante colle amiche di lei; sapeva condursi con garbo, rispettava le esigenze sociali, e piegava il capo con grazia alle piccole ipocrisie. Ella invece stava in mezzo a quegli scogli colla testa alta, con aristocratica disinvoltura, dominando tutto quello che non poteva elevare sino a lei; ingentiliva Alberto, lo perfezionava, stava a discorrere con lui accanto al piano, presso il tavolino da lavoro, o si faceva accompagnare in giardino, dandogli l’ombrellino da recarle, e si lasciava baciare il guanto — sicchè tutte le volte che gli permetteva di strapparle quel guanto, o lo precedeva sotto i folti alberi del boschetto, sorridente, esitante, guardandosi intorno nel raccogliere le pieghe del vestito, e camminando in punta di piedi, a lui sembrava che il cielo si spalancasse a due battenti. — Giammai non aveva voluto più andare una sola volta sul lago con lui.
Si approssimava il ritorno del conte Armandi; Alberti lo sapeva vagamente, ma non aveva mai osato domandarne alla contessa, ed ella non gliene avea mai parlato. Un venerdì ch’era andato da lei per combinare una gita sul lago, e gli avevano detto che sarebbe ritornata a momenti, s’era messo al piano per ingannare il tempo, e scorreva della musica che la sera innanzi le avea mandato egli stesso. Infatti udì aprir l’uscio del salotto, e si alzò credendo fosse lei. Invece era la bambina, che giungeva correndo prima della madre, e vedendo Alberto s’era fermata sull’uscio.
— Le faccio paura, madamigella? disse Alberto.
In questo momento entrò anche la contessa; gli stese la mano, buttando l’ombrellino sul tavolo, e togliendo alla figlia il largo cappello di paglia.
— Come sei rossa! le disse baciandola. Vai dalla Tilde.
La bimba gli rese il bacio, e prima d’andarsene offrì anche ad Alberto la guancia vermiglia. Egli l’accarezzò sui capelli.
La madre tirò a sè bruscamente la figliuola, la baciò di nuovo, con singolare vivacità, e la accompagnò sino all’uscio.
— Perchè non avete baciato la mia bambina? gli domandò tornando indietro.
Alberti tardò un istante a rispondere; ma ella, senza dargliene il tempo, andò al piano, e prese il fascicolo ch’era sul leggio.
— Vi ringrazio della musica, aggiunse senza voltarsi e sfogliandola. Ci ho dato un’occhiata ieri stesso. È proprio bella.
E tornò lentamente verso il canapè, senza levare gli occhi dalla carta, sedette, e spiegò il quaderno sui ginocchi.
— Avete fatto una lunga passeggiata? domandò Alberti.
— V’ho fatto aspettare? Scusatemi. Ero andata ad incontrare Armandi. Invece ricevo una lettera che rimanda la sua venuta a domani.
— Ah!
— Volete essere dei nostri a pranzo domani?
— Grazie.
— Rifiutate? diss’ella facendosi un po’ rossa.
— Sì.
— Non se ne parli altro.
Suonò il campanello e si fece recare il cestellino da ricamo.
— Si fermerà molto tempo il conte? domandò Alberto giocherellando col gomitolo.
— Un mese circa, sin che andremo a Belmonte; poscia sarà a Torino per la riapertura della Camera.
Alberto chinò la fronte sulla palma, e dopo una breve pausa disse piano:
— Sicchè... non ci vedremo sino a giugno?
— Come volete che vi riveda senza presentarvi a mio marito?
— È vero.
Il silenzio che seguì avea alcunchè d’imbarazzante. La contessa, tutta intenta al suo ricamo, riprese alfine:
— Ier sera so che avete fatto una grossa perdita al giuoco. Ho il diritto di parlarvene, perchè sono la vostra migliore amica. Ciò è irragionevole, mio caro.
— Avrei anche potuto vincere. Sono sfortunato, ecco tutto; rispose Alberto seccamente.
— Ebbene, abbiate giudizio anche per la fortuna che vi manca: non giocate.
— Lo volete?
— Ve ne prego.
— Non giocherò.
Ella chinò il capo.
— Che bel lavoro! disse Alberto poco dopo.
— Vi piace?
— Moltissimo. È un lavoro per uomo?
— Sì.
— E... senza essere indiscreto?...
— Nessuna indiscrezione, mio caro; rispose l’Armandi sorridendo; anzi quel che c’è di più legittimo: è per mio marito.
— Oh!... proprio un regalo da nozze! diss’egli adenti stretti.
La contessa sorrise senza alzare gli occhi dal ricamo, e arrossì lievemente. Ei cavò l’orologio e si alzò.
— Addio, gli disse la contessa Armandi stendendogli una mano, mentre coll’altra contava i punti del disegno.
Alberto le strappò il ricamo, e lo stracciò.
— Marchese Alberti! esclamò l’Armandi rizzando il capo, altera, corrucciata e imponente.
Il marchese fece barcollando due o tre passi verso l’uscio, si arrestò sulla soglia, ed esclamò torcendosi le mani:
— Ah! come son vile!
— Siete un pazzo!
Gli volse le spalle, andando verso la finestra; e poscia, volgendosi vivamente verso di lui:
— Siete geloso di mio marito?
Alberto impallidì.
— Tanto meglio! esclamò la contessa con un sorriso irritato.
— Perchè?... perchè volete ad ogni costo che io stringa la mano di quell’uomo? disse Alberti con accento minaccioso.
Ella lo fissò un istante con occhi di sfida e di collera:
— Perchè vi ho dato il mio onore, e voglio che voi mi diate il vostro!