< Eros (Verga)
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Cap. XXXIV
XXXIII XXXV

XXXIV.


Alberto partì la sera stessa per Milano, e andò a cadere come una bomba in casa della Selene.

— Non è in casa, gli dissero.

Era il tocco dopo la mezzanotte; egli andò al Circolo, e vi passò il resto della notte.

Il giorno dopo s’era levato da poco, allorquando Selene entrò come una spiritata, sbattendo gli usci, e cantarellando.

— To! eri tu, biondino? Sei venuto a cercarmi iersera? sei tornato? scusami se non mi hai trovata in casa; ero andata al Carcano.

— Al tocco?

— Sì, dopo s’era andati a cena colla Irma, sai, l’Irma la bruna, la conosci? ci pagava una cena scicche perchè ora il giorno della sua festa. Come stai?

— Sto benissimo, grazie.

— Vieni dal lago? Cosa m’hai portato dal lago?

— T’ho portato un braccialetto.

— Bello? Fammelo vedere. Dov’è?

— Da Bigatti. Se hai furia puoi andare a prenderlo.

Scrisse su di un biglietto di visita due righe pel gioielliere che la conosceva benissimo, e glie lo diede. Ella volle gettargli le braccia al collo.

— Te l’ho regalato, non te l’ho venduto, diss’egli scostandola. Lasciami stare.

La povera Selene se n’andò mogia mogia. Alberti ordinò al cameriere di dir sempre che non era in casa tutte le volte che ella venisse a cercarlo.

Andò al Corso, alla sala d’armi, al Circolo; giocò, rivide i suoi amici, e prese parte alle loro cene e a tutti i loro passatempi. Giunti, il nestore emerito della brigata, l’avea preso sotto la sua protezione. — È di buona razza e di buona tempra, diceva. Il nestore avea quarantasette anni, due gran dame che se lo disputavano, ed una amante per la quale gettava il danaro a due mani. Gli amici di Alberto erano tutti bravi giovanotti, — borsa aperta, cuore a prova di spada, e scilinguagnolo un po’ sciolto. Nella loro allegria, nella loro conversazione, nei loro bagordi, c’era un profumo di gaiezza, di spirito, e di cordialità giovanile che inebbriava i più sobri.

Una delle più belle sere di luglio Alberti era uscito dal Circolo, insieme a due amici coi quali avea desinato; avea la pupilla alquanto dilatata, è vero, ma le gambe più ferme e la lingua più sciolta degli altri. Andarono sui bastioni in carrozza, ciarlando, fumando e ridendo ad alta voce; l’aria era rinfrescata da un lieve venticello che veniva dalle Alpi; dal boschetto esalavano di tanto in tanto vigorosi profumi; incontravansi solamente qualche coppia che passeggiava lentamente, discorrendo sottovoce, e dileguavasi sotto gli alberi del viale, o qualche brougham che andava a piccolo trotto, il cavallo fiutando la polvere e il cocchiere contando le stelle nascenti. Alberti a poco a poco era divenuto silenzioso, s’era buttato in fondo al legno, e avea lasciato spegnere il sigaro. Ad un tratto fece fermare la carrozza, salutò gli amici, s’avviò, a piedi pel Corso, fermò il primo fiacre che incontrò e si fece portare dalla Selene.

— Oh! esclamò costei vedendoselo comparire dinanzi, e rimanendo con una mano sul battente dell’uscio, con grand’occhi attoniti. Non t’aspettavo più.

Ei si chinò sulla candela, e accese un altro sigaro.

— T’hanno detto che sono venuta a cercarti?

— Sì.

Selene andò in furia a prendere il biglietto che Alberti le avea dato per Bigatti, e lo stracciò in cento pezzi.

— Allora ecco il tuo braccialetto! Non lo voglio.

— Come sei bella così in collera! rispose Alberti dopo averla fissata alcuni secondi senza batter ciglio.

— Sei innamorato? cos’hai? sei innamorato?

Ei non rispose.

— Sei in collera colla tua bella? di’!

Alberto scrollò le spalle e disse freddamente:

— Vuoi che me ne vada?

— Sì, sì, vattene! — e poscia, afferrandolo con impeto per un braccio. — No! non te ne andare!

E rimase a guardarlo avidamente, tenendolo sempre pel braccio, e gli occhi le si velarono.

— Come fa a non amarti, cotesta superbiosa?

Gli gettò le braccia al collo. — Ei che stava per partire tranquillamente, allorchè sentì avvinchiarsi da quelle braccia dimenticò la contessa.

Uscì dopo mezz’ora, fosco, stralunato, dispettoso, — la povera ragazza non ebbe il coraggio di trattenerlo. — Si fece sellare il cavallo, e volò alla villa Armandi.

Erano passate le due quando lasciato il cavallo si avviò a piedi verso la villa. Tutto era buio, soltanto alla finestra della camera della contessa c’era lume.

Quel lume l’accecava, l’affascinava, gli trafiggeva il cuore come una punta di ferro arroventato. Ei non avrebbe osato ridire tutti i pensieri che gli tempestavano in mente: c’era una specie di gelosia acre, che avea un pudore singolare; avrebbe ucciso la contessa colle sue mani piuttosto che rimproverarle le torture che ella gli faceva soffrire in quel momento — e stette ad assaporarle ad una ad una, sin quando quel lume si spense. L’indomani le scrisse:

«Mi volete a desinare oggi?»

Gli fu risposto con un invito del conte e della contessa Armandi.

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