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Questo testo fa parte della raccolta Scritti (Serra)

ESAME DI COSCIENZA
DI UN LETTERATO



Credo che abbia ragione De Robertis; quando reclama per sè e per tutti noi il diritto di fare della letteratura, malgrado la guerra.

La guerra.... Son otto mesi, poco più poco meno, ch’io mi domando sotto quale pretesto mi son potuta concedere questa licenza di metter da parte tutte le altre cose e di pensare solo a quella. I giorni passano, e il peso di questo conto da liquidare colla mia coscienza mi annoia e mi attira: come l’ombra del punto che non ho voluto guardare cresce oscura e invitante nell’angolo dell’occhio; finchè mi farà voltare.

Ora è certo che non può esser permesso a nessuno di prender congedo dal suo proprio angolo nel mondo di tutti i giorni; deporre sull’orlo della strada il suo bagaglio, lavoro e abitudini, sogni e amori e vizi, via tutt’insieme, come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e di vincoli; scrollarci sopra la polvere del passaggio, voltando come verso un destino rivelato e decisivo un’anima leggera, affrancata da tutte le responsabilità precedenti; fare tutti questi preparativi, con aggiunta di raccoglimento e di ansia e di attesa, prender l’atteggiamento della partenza; e alla fine, non muoversi; non far nulla; stare alla finestra a guardare. Che cosa?

Davanti a me non c’è altro che la mia ombra immobile, come una caricatura. Sono otto mesi che la guardo; e faccio cenno colla mano a tutte le altre cure di stare indietro, perchè non ho tempo da badarci; serio, con l’aria di un uomo preoccupato; intanto, leggo dei giornali, e faccio delle chiacchiere; magari cerco, tra parentesi, qualche pretesto per giustificarmi; e se non arrivo a servirmene nella conversazione, è solo per un resto di pudore; o piuttosto, perchè i miei interlocutori mi interessano troppo poco, per prendermi la pena di mistificarli.

Credo di aver detto, fra le altre cose, che la letteratura mi faceva schifo, «in questo momento»; e in ogni modo, se non l’ho detto, ho fatto come quelli che lo dicono; (e, se l’ho detto, ho detto la verità).

Ma è inutile che io mi diverta adesso a farci sopra dell’ironia, che sarebbe facile. Del resto, questa storia della nostra «partecipazione personale alla guerra» nei mesi che son passati, con tutti i suoi equivoci di illusione e di ingenuità e con le sue sfumature di ridicolo, ognuno se la può rivedere per conto proprio, volendo; e la mia non interessa più che quella degli altri.

Per ora, quel che m’interessa è la conclusione. Per quanto ovvia e risaputa, me la voglio ripetere; l’imparerò.

La guerra non mi riguarda. La guerra che altri fanno, la guerra che avremmo potuto fare.... Se c’è uno che lo sappia, sono io, prima di tutti.

È una vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura.

Voglio nominare anche questa, appunto perchè è la cosa che personalmente mi tocca meno, forse; in margine della mia vita, come un’amicizia di occasione; verso la quale ho meno diritto di essere ingiusto.

E poi non devo scordarmi di avere avuto qualche cosa di comune — mi sarei rivoltato, se me l’avessero detto; ma era vero egualmente — con tutta quella brava gente, piena di serietà; da tanto tempo va gridando che è ora di finirla, con queste futilità e pettegolezzi letterari, anzi, è finita; finalmente! passata la stagione della stravaganza e della decadenza, formato l’animo a cure più gravi e entusiasmi più sani, attendiamo in silenzio l’aurora di una letteratura nuova, eroica, grande, degna del dramma storico, attraverso cui si ritempra, per virtù di sangue e di sacrifici, l’umanità.

Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. È inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. Ognuno ritorna — di quelli che tornano — al lavoro che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con l’animo, coi modi, con le facoltà e le qualità che aveva prima.

Bisognerà ricordare quello che accade anche adesso, intorno a noi, per quelli che prendono parte, non solo come uomini ma anche come letterati, alla guerra; e i cronisti raccontano tante cose di professori, artisti, scrittori, che si sono spogliati delle proprie abitudini, e vanno creando, per i nuovi bisogni, secondo il nuovo spirito dell’ora che passa, una letteratura nuova? Vedete in Francia: letteratura di battaglia, di fede, di semplicità: commediografi e letterati mondani che fanno la cronaca delle trincee; e Barrès, Bergson, Boutroux, Claudel, Bédier; ciascuno nei giornali, nelle conferenze, negli opuscoli, s’è presa la sua parte attiva e utile di fatica; e Rolland che risponde a Hauptmann; e Péguy, e cento altri, che cadono in prima fila. O in Italia; quante rivelazioni, spostamenti, di gente che nell’agitazione che ci trasporta ha cambiato figura: gente seria, stimata, valente che ha lasciato vedere angustie insospettate dell’intelligenza, debolezze, bassezze dell’anima: e altri, accidiosi, che si sono svegliati; spiriti difficili, che si sono fatti semplici; anime leggiere, vane, che hanno obbedito a una voce austera di dovere.

Cosi diciamo, e sappiamo che non c’è niente di vero. All’infuori di qualche modificazione di accento, portata dalle circostanze, o sia guadagno di semplicità o sia peggioramento di enfasi, all’infuori del mutar materialmente gli argomenti e le occasioni dello scrivere, tutto è com’era; un seguito della letteratura di prima, una ripetizione, se mai, per la fretta del lavoro, che approfitta delle abitudini più facili e più alla mano. Non c’è mai stata tanta retorica e tanto plaqué come in codesta roba della guerra.

Non si dice dei sonetti di Rostand, o di qualche altro accademico: ma vedete le ballate di Paul Fort, fra le più fredde e meccaniche che siano mai cadute dalla sua penna deliziosa, e tutte quelle tirate di Barrès, accanto a pagine superbe, del resto, di forza incisiva e di armonia; pur senza negare che tutto possa avere avuto il suo ufficio, in pratica, e il suo beneficio.

Così da noi: D’Annunzio, per esempio, a cui pensiamo con un certo orgoglio e quasi con simpatia da quando quella sua molto privata e curiosa «cattività in Babilonia» è diventata nel corso degli avvenimenti una espressione simbolica dell’Italia esiliata col cuore sui campi dove si difende un’altra volta la civiltà latina; e il suo ritorno ha un significato, che ci fa sperare e dubitar tutti quanti. Certo D’Annunzio ha guadagnato in questo momento: ha ripreso posto fra noi: è ritornato al posto, da cui pareva scaduto. In realtà, con tutto il favore delle circostanze e della fortuna, non è poi cresciuto di nulla: non ha fatto niente che sia degno di quell’apparente ingrandimento morale: per una lettera, da Parigi assediata, ricca e rotta magnificamente di colore, quante odi su la risurrezione latina, e frasi e parole odiosamente vecchie e false; come se niente potesse esser cambiato mai per lui!

O volete parlar di Croce, che pare impiccolito, allontanato, sequestrato in una acredine di pedagogo fra untuoso e astioso, che si degna di consolare le nostre angoscie dall’alto della sua filosofia, sicuro che tutto alla fine è e non può essere, anche in questa guerra, altro che bene e vantaggio e progresso; e non si lascia sfuggire, frattanto, l’occasione di fare alla nostra parzialità appassionata certe lezioncine sui meriti della cultura germanica, correggendo spropositi con un sorriso, che è insieme una puntura o un dispetto a tutte le tendenze della politica democratica e massonica; e se c’entra magari una frustata per qualche giovane un po’ insolente, di quelli che hanno il torto di contraddirlo troppo spesso, tanto meglio: perchè anche il giusto è uomo, e non gli si può negare il diritto di lasciarsi irritare, poniamo, da Papini. Ora io non so quanto ci sia di vero in questa impressione: quando con uno credo di non andar più d’accordo non m’interesso del fatto suo, per quella parte, e non me ne informo, a rischio di apparire gratuitamente malevolo nel raccogliere una inesattezza. Ma che importa? Fosse pur tutto vero, io so che Croce non sarà diminuito nè cambiato da un qualunque episodio, simpatico o antipatico, della sua vita politica: qualche difetto di moralista o di sofista, non aveva più bisogno di esserci svelato: e non toglie nulla alla sua persona reale, così come il sorriso troppo soddisfatto della bocca non ci nasconde la serietà e la tristezza sostanziale dell’animo. Croce è sempre Croce, insomma: e che adesso si trovi così bene a braccetto coi Barzellotti e coi Chiappelli e magari con Matilde Serao, è affare tutto domestico, che riguarda lui solo. Se c’è qualche cosa da rimproverargli oggi, è nei frammenti di etica, dove parla del dire la verità: non nelle interviste o negli articoli.

Ma non è lo stesso anche degli altri? Universitari, giornalisti, letterati, politicanti; quelli che eravamo avvezzi se non a stimare molto, almeno a rispettare come persone e intelligenze oneste, mescolati e congiunti per improvvisa affinità morale con quelli che non ci curavamo neanche più di scartare, teste vuote e cattive, esaltati e fanfaroni, mestieranti e procaccianti; tutto questo ci ha disgustati, irritati, ci ha fatto pensare una rivelazione di viltà e di buaggine e di poltroneria italiana, superiore perfino alla nostra tolleranza, che era così larga nel suo disprezzo.

Ma era un eccesso che si può perdonare come impressione; non si può conservare come giudizio.

Un De Lollis, poniamo, o un Missiroli, tanto per ricordarne due fra i meno peggio, non hanno perduto niente di quella stima che potevano meritare: e lo sapevamo poi anche prima che uno era un dottrinario in cui lo sforzo della mente — per non parlare dell’ambizione — poteva arrivare alla conoscenza ma non alla penetrazione delle cose storiche o artistiche, e che l’idealismo di quest’altro poteva avere della buona volontà e dell’ardore, ma non delle idee, e più orgoglio di solitudine che di pensiero. Pregi e miserie non sono cambiati in costoro, come non sono cambiati nell’altra parte: dove la serietà della causa e l’utilità, tutt’insieme, dell’azione, non ci toglie certo il senso, a una a una, di tutte le stonature e le esagerazioni e banalità, sia pure in buona fede; ma ci sono anche quelle in mala fede, come ci sono, nel mucchio, i vanitosi, gli ambiziosi, i conferenzieri d’apparato e i ciarlatani, gli opportunisti e i fanatici, ognuno col suo passato e con le abitudini mentali e coi sospetti morali da cui la nuova compagnia non basta a purgarli. Aggiungete che anche fra i migliori, pochi hanno avuto felicità di parole e convenienza tempestiva: non parliamo di bontà letteraria; per un Prezzolini, che ha avuto dei momenti di serietà e di autorità più matura nelle sue osservazioni del vero, o per un Panzini che ha scritto qua e là, nel suo turbamento, tre o quattro paginette di una nudità e di una dolcezza pura, quanti altri che sono rimasti inferiori a sè stessi, fuor di tono, fuor di posto! Ma, lasciando stare gli episodi particolari, nessuna sorpresa. La polemica della guerra — la guerra, insomma — ha cambiato i gruppi, non le fisionomie nè le persone. Son rimasti tali e quali, in fondo: nè meglio nè peggio. Sono unite adesso, e si divideranno domani, secondo le diversità che il consenso e la cooperazione di un momento non può cancellare.

Questo non piace. Si vorrebbe che fra i compagni di un’ora e di una passione restasse qualche cosa di comune in eterno. E non è possibile. Ognuno deve tornare al suo cammino, al suo passato, al suo peccato.

Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sè sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia.

Il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati: senza macchia e senza colpa.

E poi no. Nè il sacrificio nè la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che è dovuto all’uomo o alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi è morto per fare il suo dovere.

Parlavo prima di letterati e pensavo a quel povero caro Péguy. Come avremmo voluto, dopo aver saputa la sua fine, accordargli per un momento un poco più di quella poesia e di quella felicità a cui tendeva la pena della sua vita! Mi ricordo di avere riletto molte pagine del suo Mistero con una attenzione e una premura quasi dolorosa; per scoprire finalmente nella sincerità di quel linguaggio così laborioso e scrupoloso e tenace la bellezza e la forza lirica che non avevo mai saputo veder prima: che non c’è. Così ho seguitato a commemorarlo, sulle pagine un po’ scure e solide dei suoi libretti, dov’è scritta la sua giovinezza e la sua mistica e la sua battaglia, punto per punto, e passo per passo, e presa per presa, con quella complicazione che pare intricata e spezzata ed è semplice e aderente come il passo di un campagnolo sulla terra, ho seguitato a commemorarlo, con una malinconia che l’umiltà faceva più dolce. Nessun bisogno di ingrandire l’uomo che ha scritta Nôtre jeunesse, che parlava dei settantacinque così gracili smilzi damerini o di sè così nodoso rugoso contadino: la guerra l’ha fermato, l’ha coricato sul suolo del suo paese, calmo, fermo, superiore a tutti i nostri movimenti di un’ammirazione inutile come i rincrescimenti e le resipiscenze.

E mi veniva in mente anche Rolland, e altri di quella letteratura d’avanguardia, verso cui ho dei rimorsi di poca simpatia e di scarsa giustizia: adesso che fanno il loro dovere così nobilmente, dopo aver contribuito anche loro, con l’ardore morale e con lo sforzo ed il coraggio, a quel rinnovamento interiore della nazione, che dopo esser stato orgoglio di una minoranza eletta, oggi è diventato principio di una forza comune e meravigliosa. Noi dovremo dunque ricordare con altro animo anche le prove e le audacie di una letteratura, che era l’anticipazione di un avvenire eroico?

Ma è inutile continuare. So la risposta che troverò sempre alla fine, comunque tenti di travestire questa domanda.

Oggi è una cosa, e ieri fu un’altra. La forza morale e la virtù presente non hanno rapporto diretto con quel che c’era di mediocre e povero e approssimativo in certi tentativi letterari. La guerra ha rivelato dei soldati, non degli scrittori.

Essa non cambia i valori artistici e non li crea: non cambia nulla nell’universo morale. E anche nell’ordine delle cose materiali, anche nel campo della sua azione diretta....

Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?

Io non faccio il profeta. Guardo le cose come sono. Guardo questa terra che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Le nuvole dormono senza moto sopra le creste dei monti accavallati e ristretti; e sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca.

Non vedo le traccie degli uomini. Le case sono piccole e disperse come macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella monotonia del campo: e non c’è nè voce nè suono se non di caligine che cresce e di cielo che s’abbassa; le lente onde di bruma sono spente in cenere fredda.

E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra: è tanto tempo che ci sono, che oramai sono tutt’una cosa con la terra. I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branchi di uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate fra le pieghe di questa crosta indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti improvvisi hanno a volta a volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe, sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente. Le orme dei movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestìo delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi, la vita ha continuato uguale; è ripullulata dalle semenze nascoste, con la stessa forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli, che fanno di tanti piccoli esseri divisi, dentro un cerchio indefinibile e preciso, una cosa sola; la razza, che rinnova attraverso cento generazioni diverse la forma dei crani che giacciono ignoti sotto gli strati del terreno millenario, e l’accento, e la legge non scritta.

Che cos’è una guerra in mezzo a queste creature innumerevoli e tenaci, che seguitano a scavare ognuna il suo solco, a pestare il suo sentiero, a far dei figli sulla zolla che copre i morti; interrotti, ricominciano: scacciati, ritornano?

La guerra è passata, devastando e sgominando; e milioni di uomini non se ne sono accorti.

Son caduti, fuggiti gli individui; ma la vita è rimasta, irriducibile nella sua animalità istintiva e primordiale, per cui la vicenda del sole e delle stagioni ha più importanza alla fine che tutte le guerre, romori fugaci, percosse sorde che si confondono con tutto il resto del travaglio e del dolore fatale nel vivere.

E dopo cento, dopo mille anni la guerra tornando si urta alle stesse dighe, riporta agli stessi sbocchi i gruppi degli uomini cacciati o suscitati dalle stesse sedi. È la stessa marea umana che ha traboccato sul Reno e per le Fiandre, ha allagato i piani germanici e sarmatici e s’è rotta ai passi dei monti. Si combatte negli stessi campi, si cammina per le stesse strade.

È vero che questa volta un’ondata profonda pare che abbia sollevato irresistibilmente gli strati più antichi della umanità che s’accampa nelle regioni d’Europa: non è un’avventura o un turbamento locale, ma un movimento di popoli interi strappati dalle loro radici. C’era stata nei primi giorni un’impressione indicibile; come se fosse tornato il tempo delle grandi alluvioni, per cui una razza può prendere il posto di un’altra; l’Europa non aveva più veduto questo da quasi duemila anni: erano i barbari d’allora, le masse della gente nuova, che tornavano a muoversi dai luoghi in cui s’eran trovate ferme alla fine, quando la marea si ritirò; e in tutto l’intervallo movimenti e sconvolgimenti parziali non le avevano più spostate in modo durevole.

È probabile che non le sposteranno neanche questa volta. Non avremo forse neanche sovrapposizioni, di quelle che non valgono tuttavia a distruggere la vitalità conculcata di una razza, che risorge a poco a poco come l’erba calpestata e circuisce e macera e assorbe in sè l’elemento estraneo; come accadde all’elemento germanico che aveva traboccato nell’Europa occidentale e meridionale, e che vi restò alla fine dell’invasioni e fu ribevuto dalle nostre terre.

Già fin d’ora si sentono le maree avverse incontrarsi e rifluire dal frangente che non s’è cambiato.

E alla fine tutto tornerà press’a poco al suo posto. La guerra avrà liquidato una situazione che già esisteva, non ne avrà creata una nuova.

Ci saranno dei cambiamenti di tendenze politiche e di indirizzo morale; delle rettifiche e delle definizioni, così di confini geografici come di valori civili, che diminuiranno, in quel che si suol chiamare l’equilibrio mondiale, il tono di certe parti e ne accresceranno altre: certi aggruppamenti, ricostituzioni, affermazioni, che maturavano ieri come coscienza e desiderio contrastato, saranno domani un fatto compiuto. Ma insomma non sarà cambiato lo spirito della nostra civiltà — in cui questa guerra era già avvenuta e avveniva tuttavia — ; e non sarà toccata la sostanza dei popoli, non saranno soppressi nè perduti quei principii e quegli imperativi storici, che ognuna delle grandi razze o formazioni nazionali, presenta da secoli nel suo posto e per il suo destino.

La storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente; nè per i vincitori nè per i vinti. E forse, neanche per l’Italia.

Viltà italiana, destino mancato, strade chiuse, posto perduto per sempre: anche noi, in questi mesi di aspettazione, abbiamo parlato di queste cose; o piuttosto non abbiamo avuto il coraggio di parlarne, oppressi da un’angoscia oscura, affrettando con l’animo di giorno in giorno il momento, che non passasse l’occasione, che non si perdesse in modo da non poter esser più ritrovata.

Certo, c’era qualche cosa di vero in queste ansie.

Che l’Italia abbia qualche cosa da fare; un dovere da compiere e un avvenire da preparare o da assicurare, qualche cosa di storicamente determinato e preciso, ai suoi confini, sulla sua strada, lo sappiamo tutti; anche quelli che lo negano e lo impediscono, con uno sforzo che finisce a definire con certezza sempre più semplice il problema presente.

Ma appunto perchè questo problema è essenziale e sostanziale nella nostra storia, non possiamo credere che si esaurisca con oggi. Quella ricostituzione della nostra gente, intera e attraversata ancora una volta sul cammino e contro l’urto dei vicini crescenti, quell’anticipazione del nostro avvenire per le antiche perpetuamente rinnovate vie del levante, che avremmo voluto realizzare oggi, sono tutt’una cosa con l’Italia. E l’Italia resta. Non finisce, non muore; anche se sembri ora esclusa dal dramma immenso, sorda al richiamo del suo destino, abbandonata come un pezzo di legno morto fuor della corrente della storia.

Certi problemi non possono rimaner legati al destino di una generazione; che può anche essere fiacca, pettegola, ottusa, cieca, vile; come questa sembra. Ma l’Italia è un’altra cosa. E una realtà. Pare che dorma, in questa distesa grigia, fra queste Alpi taciturne e questo mare scolorito, sotto il cielo basso e chiuso; con tutti i suoi uomini rintanati nel torpore e nello squallore delle piccole case, ognuno stretto fra i suoi muri, seduto alla cenere e al fumo del suo focolare, imprigionato nel suo buco, nel suo orizzonte, nei suoi interessi, nella sua meschinità. Di quali destini o di quale avvenire vorrete parlare al bottegaio della città lassù, o al contadino di questa campagna? Di quali problemi si può accorger l’egoismo, che è la forza sola e la ragion di essere che ha sostenuto e mantenuto attraverso il tempo, al di fuori del tempo, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidige, al suo lavoro e al suo dolore, oggi come tremila anni fa; come sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole?

E va bene. Soltanto, la debolezza di oggi può esser la virtù di domani. Questa quasi animalità sorda e irriducibile, che esaspera oggi e contrista le nostre coscienze agitate, è forse una delle forze sostanziali, è la realtà della razza; che esiste e resiste, cresce, si espande, si moltiplica con una spinta istintiva, oscura e dispersa ancora, ma profonda e tenace, capace di ritrovarsi e di affermarsi al di là della nostra vita, che è corta e transitoria.

Questa Italia esiste; vive; fa la sua strada. Se manca oggi alla chiamata, risponderà forse domani; fra cinquanta anni, fra cento; e sarà ancora in tempo. Che cosa sono gli anni a un popolo?

Il mare, i monti, il teatro della storia non si muta: l’Italia ha tempo. Non c’è niente mai di fallito o di perduto in un popolo che ha la vitalità e la vivacità di questo. Anche se non avrà preso parte alla guerra.

Ciò può essere un po’ duro da ammettere. Ripugna a qualcuno di dover concludere che in fondo in fondo tutta questa brava gente che abbiamo d’intorno e che pare abbia in pugno le sorti del nostro paese, parlamento, stampa, professori, Giolitti eccellente uomo, e diplomatici, preti, socialisti ancora migliori — non avranno fatto molto male, come non erano capaci di far molto bene; e l’ira verso di loro è tanto esagerata quanto inutile il disprezzo. Il destino dell’Italia non era nelle loro mani. Non avremo niente da vendicare. Quel fremito di vergogna e di rabbia, che volevamo portare chiuso nel cuore, fino al momento dello sfogo, finisce quasi in un sorriso.

E anche questa è una cosa malinconica. Una cosa sciupata. Ma ce n’è tante!

E tutte insieme sono niente se penso a quello che va sciupato, a ogni minuto, intanto che io parlo, intanto che io penso, intanto che scrivo, sangue e dolore e travaglio di uomini presi in questo gorgo vasto della guerra. Gorgo che si consuma in sè stesso.

Che cosa diventano i resultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità e i patti e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, di fronte a ciò?

Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi la lagrima pianta invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio umano che non ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità.

E poi, di qual bene si tratta? Anche gli esuli che aspettano la fine come il compimento della profezia e l’avvento del cielo sulla terra, sanno che il sogno è vano.

Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in sè stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a resistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finchè non disimparino....

Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile.

Parlavo prima di coloro che vorrebbero, per un istinto del cuore, sospendere quasi il corso dell’universo: obbligare tutte le cose a subire l’effetto di questa guerra, a conservarla, a continuarla, a non lasciar perdere niente dello sforzo durato dall’umanità.

È un’illusione; non meno naturale che vana.

Il cuore, che s’è ribellato per un istante, torna presto alla sua quiete usata: si rassegna a questa che non è nè maggiore nè minore di tutte le altre ingiustizie, intollerabili e tollerate, del vivere. Il mondo è pieno di cose senza compenso. Tale è la sua legge. Penso che anch’io ho pianto fanciullo sulle corone antiche, sui popoli scomparsi senza colpa dalla scena del mondo, su tutte le cose che si sono perdute e più di lor non si ragiona: ho letto con una lacrima negli occhi fissi, i denti stretti in silenzio, la storia delle conquiste e delle distruzioni, le vittorie dei Romani e dei barbari, le guerre degli Spagnuoli e le rivolte dei villani, le guerre dei trent’anni e le guerre di religione. Ero un fanciullo solo, e non sapevo come avrei potuto continuare a vivere. Ma ho potuto continuare. Ho rinunciato a vendicare le vittime, ho dimenticato di consolare quelli che erano morti senza consolazione: ho vissuto egualmente. (Ho vissuto accanto ai miei cari che sono morti. Li ho lasciati sotto terra e me ne sono andato per le strade del mondo). Posso fare così anche adesso.

Questa storia, che chiamiamo presente, non è diversa da quelle, che crediamo di aver letto soltanto nei libri: partecipiamo all’una come alle altre con lo stesso titolo. Vicini, ma anche così lontani!

Facciano i Tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che possono. Noi abbiamo una cosa sola da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo: ma questa ci basta, e il nostro cristianesimo, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduto la tristezza e il gusto dell’eternità.

Del resto, viviamo, poiché non se ne può fare a meno, e la vita è così.

E facciamo magari della letteratura. Perchè no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne.

Non c’è mica bisogno per tutti del genio aspro e assoluto di quello che rideva a vedere i Prussiani sedere e trionfare nello squallore del suo vecchio paese; li osservava con un cinismo libero di ogni umanità, candido e ingenuo, e ne augurava degli altri.

Aggiungerò che io non saprei neanche avere nel nostro lavoro la fiducia superba di alcuni miei vicini; vivo troppo fuori del secolo, per credere a una conquista dell’assoluto, che debba essere la parte esclusiva di questa generazione.

A parte ciò, devo pur riconoscere che la nostra letteratura è una cosa non affatto futile nè inutile. Non ce ne sono molte altre che valgano meglio, e che sian degne di più rispetto, in Italia.

È una realtà. C’è intorno a me una semplificazione, un istinto di riduzione all’essenziale, una moltiplicazione di esigenze, che sono un tormento e una forza viva innegabile. Non importa se ci sia in tutto questo una astrazione e una povertà non sempre volontaria, in cui io ritrovo tanto di me stesso, che mi impedisce di essere giusto. Insieme coi difetti, che sono un poco anche i miei, ci son pur qualità vere e progresso e suono e felicità, che non mi appartiene e che non posso negare.

E allora, dopo tanto tempo che ho perduto a prender sul serio ciò che non mi riguarda, il meglio che mi resti da fare è forse di tornare, per quel tanto che mi è concesso, proprio a quella letteratura, che ho sempre considerata la cosa più estrinseca e meno compromettente.

Dopo aver lasciato tutto il resto, questa è l’unica parte che mi rimane: e peggio per me, se mi par così poco. La prenderò come una lezione, che so di aver meritato. E non parliamo più della guerra.


Anzi, parliamone ancora.

M’è voluto del tempo, per riuscire a quella conclusione, i giorni son passati intanto che me la ripetevo, e forse mi sono scordato di qualche cosa. Bisognerà tornare indietro, per un minuto, e ricapitolare, per fermarmi a oggi. Vediamo.

Il conto non è finito. Ho detto che questi pensieri mi pesavano, che bisognava liberarmene.

E, dunque, sono libero. Di pensieri.

Non era una cosa molto semplice. Erano tanti, penetrati così dentro, un'abitudine, un'ombra oramai naturale e stabilita sopra tutte e altre cose di passaggio. Mi avevano fatto compagnia quando l'inverno giaceva sui colli duri, imminenti nell'aria di vetro; e il seccume giallo giù per le prode mostrava immobilmente le righe dell’acqua traboccante e della neve scolata via a rivoletti. Mi avevano fatto compagnia senza parlare, come un peso inevitabile.

E poi adesso li ho portati ancora a spasso con me per queste sere di primavera che tarda a venire; livida, scura, irritata dalle colonne di una polvere arida ancora d’inverno che si alzano e corrono via strisciando sulle strade di una bianchezza che è falsa sotto le nubi di mobile piombo.

Li ho portati e li ho tollerati tanto che alla fine me ne sono liberato. Li ho consumati, appunto, come un’abitudine; che a poco a poco perde ogni significato; finchè uno si domanda, nel riprenderla, quasi meccanicamente, ma perchè? e si volta indietro, e si meraviglia di aver durato tanto, nella ripetizione senza motivo; ed è finita.

Così è accaduto a tutte queste inquietudini e angoscie e pensieri, che stringevo dentro di me fin da quei giorni ultimi di luglio; chiuse, come una tristezza o un amore, che non si discute; esiste, dentro, e si applica a tutti i momenti e a tutti gli atti del vivere quotidiano. E poi viene il giorno che si discute. Così, passo passo. Si tira fuori e si guarda. Parte per parte, pezzettino per pezzettino. A guardarlo fuori, è un altra cosa: tutta lisa, limata, logora, vana: e si comincia a buttar via, con una irritazione per ciò che si è subìto così stupidamente, che si confonde con la gioia di sentirsi leggeri e col desiderio di aver finito presto, del tutto. Si fruga in tutti gli angoli, si scruta, si tenta, si esaminano tutte le reliquie, i compromessi, le tracce dissimulate e profonde: par che non s’abbia mai terminato questo lavoro di revisione e di pulizia, che alla fine ci farà tirare un sospiro così profondo di liberazione.

Ma anche questa volta ho terminato. Uno per uno, li ho esaminati tutti, i pretesti dietro cui mi ero rifugiato in un momento di debolezza; e nessuno ha potuto resistere alla interrogazione di uno sguardo freddo.

Sono libero e vuoto, alla fine. Un passo dietro l’altro, su per la rampata di ciottoli vecchi e lisci, con un muro alla fine e una porta aperta sul cielo; e di là il mondo. A ogni passo la corona del pino, che pareva stampata come un’incisione fredda lassù su una pagina d’aria grigia, si sposta; si addensa; affonda i suoi aghi di un verde fosco e fresco in un cielo più vasto, che scioglie tanti stracci di nuvole erranti in una gran trasparenza scolorata. C’è una punta d’oro in quegli aghi che si tuffano nell’aria così vuota, così nuova. Anch’io son vuoto e nuovo.

Me ne accorgo, che ho agio di guardar tante cose. L’erba, per esempio; questa vecchia erba stinta, che par che aspetti le prime acquate brillanti,fra argento e sole: ma non è vecchia; è la luce spenta, senza riflesso che la fa parere; c’è tante puntine sottili, e gambi nuovi, e foglie e lancie di una tenerezza appena dispiegata; ma tutto è un po’ piatto, tisico, senza succhio e senza vernice. La polvere che ci soffia sopra è intonata a quella freddezza. Il vento la butta anche nei miei occhi con una puntura di ironia. Sicuro, c’era qualche altro fastidio, prima di questo grano di polvere che non arrivo a stropicciar via dall'angolo della palpebra; c’era.... una lacrima calda sul mio dito. E il fruscio della polvere che m'ha oltrepassato oramai e corre via dietro a me come un piccolo turbine. E poi la pausa del vento e il ritorno dei colori e delle forme nelle mie pupille libere. Il verde magro della proda, e poi tutto il pendio, attraverso la siepe brulla; grano sopra, prati e prati; giù, fino in basso; verde raso, a gradi freddi in ombra. E quella casa là di fronte improvvisa, come uno squillo; la facciata con l'intonaco crepato, e le finestrine buie; una pennellata d’oltre mare, così crudo, così fresco. Lo sfondo di aria tinta ne prende dei riflessi caldi, quasi di rosa. Finalmente! So che cosa è questa.

I colori che rincrudiscono sulla terra nuda e netta, l’ombra che si muove, una zona di tepore diffuso e brillante sotto le nubi gonfie; il verde che si rinfresca e il turchino che s’agghiaccia; luce di primavera nel finire del giorno.

Ecco quello che importa. Resto così sospeso ad assaporare la mia libertà nelle sensazioni che l’attraversano; erranti, senza corpo: aria lavata e vuota: colori muti. Libertà.

Che cosa rimane di tutto il peso di prima? Un sorriso mi riporta, attraverso spazi e spazi, a una inquietudine che si perde lontana, sotto i miei piedi, come le casette della mia cittadina, raccolte laggiù in una immobilità di pietra tagliata a secco, senza toni e senza intervalli: muri pallidi e campanili invecchiati; e tutto così piccolo, così fermo.

È lontana; non è più mia. In me non c’è altro che il vuoto. E in fondo al vuoto, il senso di tensione che viene dai ginocchi irrigiditi e da qualche cosa che si è fermato nella gola: la stretta delle mandibole, quando la testa si rovescia indietro a lasciar passare quello che cresce lento dal cuore.

Non è niente di straordinario. La mia carne conosce questa stretta improvvisa dell’angoscia, che sorge dal fondo buio, fra una pausa e l’altra della vita monotona, e l’arresta: così; le gambe inchiodate alla terra, e tutto l’essere concentrato in uno spasimo di ansia, che tende a una a una le fibre.

Finchè la tensione diventa sospiro; lenta onda che cresce dal petto oppresso e gonfia la gola salendo su su per tutte le vene: irresistibile onda della vita, che non si può fermare. Se n’era andata, e ritorna. Tanto più calda e più piena, quanto da più lontano.

Solleva tutto, trasporta tutto con sè. Anche l’angustia, anche l’angoscia, anche il sospiro che sfugge dalle labbra stanche, e che io non penso di trattenere. Perchè mai lo farei?

Esso è mio. È il mio essere, che non posso cambiare: e non voglio. È la parte più oscura e più vera di me stesso. Quando tutto il resto se n’è andato, questo solo mi è rimasto. Scontentezza, angoscia, spasimo; è la mia vita di questo momento. Adesso ho capito. Ho potuto distruggere nella mia mente tutte le ragioni, i motivi intellettuali e universali, tutto quello che si può discutere, dedurre, concludere; ma non ho distrutto quello che era nella mia carne mortale, che è più elementare e irriducibile, la forza che mi stringe il cuore. È la passione.

Come ieri, come sempre. Quante volte ho portato con me questa compagnia. Non mai così intima come oggi, come questa, che non ha nè volto nè nome; è tutta una cosa con la mia solitudine più sola e con la mia contentezza più amara.

Il resto è caduto come scaglia dagli occhi dissigillati. Ho sollevato le palpebre e ho sentito la gioia del loro gioco, così semplice e così naturale nello staccare ciglio da ciglio, e nel dare il passo quieto a tutte le cose del mondo: un piccolo cerchio viaggiante solo per me, nello spazio fra la retina e l’aria; l’ulivo che fa risuonare il metallo della sua scorza rugosa e il pallore delle sue foglie nella chiarezza che m’è davanti.

E insieme con ciò, dopo e prima di tutte le cose, la mia passione: angoscia: vita di questo momento. Perchè non siamo eterni, ma uomini: e destinati a morire. Questo momento, che ci è toccato, non tornerà più per noi, se lo lasceremo passare.

Hanno detto che l’Italia può riparare, se anche manchi questa occasione che le è data; la potrà ritrovare. Ma noi, come ripareremo?

Invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà, e noi lo sapremo; ci parrà d’averlo scordato, e lo sentiremo sempre; non si scorda il destino.

E sarà inutile dare agli altri la colpa. A quelli che fanno la politica o che la vendono; all' egoismo stolto che fa il computo dei vantaggi, e cerca nel giornale quanti sono stati i morti; ai socialisti ed a Giolitti, ai diplomatica o ai contadini. La colpa è nostra, che viviamo con loro. Esser pronti, ognuno per suo conto, non significa niente; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. La realtà è quella che vale. Anche la disgrazia è un peccato; e il più grave di tutti, forse.

Fra mille milioni di vite, c’era un minuto per noi; e non l’avremo vissuto. Saremo stati sull’orlo, sul margine estremo; il vento ci investiva e ci sollevava i capelli sulla fronte; nei piedi immobili tremava e saliva la vertigine dello slancio. E siamo rimasti fermi. Invecchieremo ricordandoci di questo. Noi, quelli della mia generazione; che arriviamo adesso al limite, o l’abbiamo passato da poco; gente sciupata e superba. Chi dice che abbiamo spesa male la nostra vita, senza costruire e senza conquistare? Eravamo ricchi di tutto quello che abbiamo buttato; non avevamo perduto neppure un attimo dei giorni che ci son passati come l’acqua fra le dita. Perché eravamo destinati a questo punto, in cui tutti i peccati e le debolezze e le inutilità potevano trovare il loro impiego. Questo è il nostro assoluto. È così semplice!

Non siamo asceti nè fuori del mondo. Vivere vogliamo e non morire. Anche se ci tocchi quello che non si può scansare col corpo, e che è sempre vita, quando lo incontriamo camminando per la nostra strada. Non abbiamo paure nè illusioni. Non aspettiamo niente. Sappiamo che il nostro sacrificio non è indispensabile.

Ciò fa più semplice e più sicura la nostra passione. Semplice come questo fremito del pascore, che sorge dalla terra bruna e mi sfiora le dita, mi fa sentire che sono calde e gonfie nell’aria viva: e l’acqua dev'essere ghiaccia laggiù tra il grano dove s’è fermata tra solco e solco; son rivoli e pozzette chiare; che lascian vedere l'argilla chiara sul fondo; e, sopra, sul nastro liquido teso brilla svolgendosi il fumo denso delle nuvole, come inchiostro che si scioglie in luce.

Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me. Sento il loro passo, il loro respiro confuso col mio; e la strada salda, liscia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. Non ho altro più da pensare. Questo basta alla mia angoscia; questo che non è un sogno o un'illusione, ma un bisogno, un movimento, un fatto; il più semplice del mondo. Mi assorbe tutto nella sua semplicità; mi fa caldo e sostanza.

Fede è sostanza.... No. Fede è una parola che non mi piace, e quanto a cose sperate, non ne conosco.

Non credo che ci sia niente di fatale o di misterioso nel mio desiderio. Fatalità della razza risorgente, istinto di umanità ricuperata, son tutte frasi che non destano in me nessuna eco precisa.

Le cose che io penso sono determinate e comuni. Quanto all'umanità, conosco solo quelli che ho vicini: quelli che mi fermavano quest’estate, quando passavo in bicicletta, in riva al mare, o per lo stradone infocato: si ricorda, caro professore, quando glielo raccontavo? (Era una delle ragioni per cui io rimanevo più tranquillo accanto a lei che balzava e fremeva: mi guardava cogli occhi fissi: vedeva forse di me solo un'ombra, piccola, fra grandi ombre nere calanti sopra la terra. Anch'io cercavo altre cose, fuggite e desiderate, perdute e presenti, laggiù sulla riva del mare; sull’orlo, dove l’onda fugge e ritira con sè l’ultimo velo dell’acqua, mentre i fiocchi di spuma si spengono con un sibilo lieve; resta scoperta una riga di sabbia bruna, umida e intatta, come un sentiero nuovo per venirci incontro a piedi scalzi.... nessuno. Nessuno deve venire. — Così andavamo l'uno presso l'altro, scambiandoci le parole, da rive ora vicine ora lontane: qualcuna cadeva, o arrivava con suon mutato. Qualche volta le sembrava di ascoltar me; e io non avevo parlato; era il suo cuore che batteva. Avrei avuto tante cose da aggiungere o da spiegare, tante cose accumulate e messe da parte pensando a lei, dopo quella sera che ci lasciammo, quasi stanchi di parole, fuggendo ognuno verso la sua inquietudine: la sua voce mi seguiva ancora fra le lunghe ombre del tramonto e io fissavo la ruota silenziosa che correva sulla polvere biancheggiante, come se fossi già solo. Avrei dovuto tornare, se ci fossero state buone notizie del paese di Francia. Ci fu la Marna; vinsero i Francesi e non tornai. Noi non avevamo — noi non abbiamo ancora nè combattuto nè vinto). Una voce dal carro, che rasentavo passando; voce d’uomo supino, fra il sobbalzare e il cigolare del carico di barbabietole o di carbone, che va sotto il sole e arriverà a notte alta; e un richiamo lento di là dal canale, fra i solchi biancastri e calcinati su cui dorme il riflesso del cielo e del mare, carico di un azzurro così ricco, che anche la freschezza del suo soffio ha un peso sul viso. Sentivo la voce, strana, fra il silenzio e il fremere uguale delle gomme. «Signor tenente, ci torniamo presto?». Richiamati delle ultime manovre, che mi parlavano da uguali a uguale, così diversi, colla frusta o il badile in mano, la camicia aperta e la faccia in sudore, corrugata un poco dal dubbio; dura e chiusa, anche alla luce del sole. Sentivano la risposta, attenti; ci scambiavamo qualche altra parola indifferente; un saluto breve; e via. Nessun segno di commozione o di entusiasmo. Bastava essersi riavvicinati per un momento.

E così tutti gli altri che mi han fermato, interrogato tante volte quest’inverno. Tanti che avevo dimenticato, tanti che non avevo mai conosciuto; ma tutta gente che dovrebbe andare, se viene quel giorno; si sentono più vicini, intanto. Eran sempre le stesse domande: «che si vada? e quanto si tarda? e quand’è che ci ritroviamo?», qualcuno sorridendo aperto, qualche altro rassegnato, qualcuno anche sospettoso, con un desiderio torvo di sentirsi rispondere di no. E sempre le solite risposte: «ma, se ci tocca, si va tutti questa volta. — Quasi, quasi, credo che ci siamo proprio. — O prima o dopo, quando bisogna andare, si va. Ci troveremo....», con una reticenza istintiva, che mi spingeva a velare il mio desiderio per avvicinarlo alla loro preoccupazione, senza offenderla. Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani.

Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi — sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro — ; quelli che mi stendon la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro occhi un po’ turbati con un senso di improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri.... Guida da poco: ma io andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L'uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro.

Purchè si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene.

Mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore a goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c'è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti.

Andare insieme. Uno dopo l'altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d'aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perchè bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili.

Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore.

Può esserci anche qualche cosa di vero, finchè si resta per quelle strade, fra quelle case.

Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l'uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perchè: se venga l’ora.

Può darsi che non venga mai. È tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!

Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte?

Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.

E questa è tutta la certezza che mi bisognava.

Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio nè vedere nè vivere al di là di questa ora di passione.

Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene.

Dirai che anche questa è letteratura?

E va bene. Non sarò io a negarlo. Perchè dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi.


Cesena, 20-25 marzo.
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