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III. — L’esistenza di Dio.
1) Il primo libro si può dividere in tre parti. Nella prima (prop. 1-11) è svolto il concetto che Dio è una unità per sè esistente (prop. 1-7), infinita e necessariamente esistente (prop. 8-11). Nella seconda (prop. 12-20) sono esposte le proprietà di Dio. Nella terza (proposizioni 21-36) si tratta della derivazione delle cose da Dio.
2) Prop. 1. La sostanza antecede per natura le sue affezioni.
La sostanza non è un aggregato, una risultante di affezioni o modi; prima vi è l’unità.
In un gruppo di teoremi (prop. 2-7) Spinoza determina ora il concetto di sostanza, respingendo la concezione comune che vi possano essere più sostanze, le quali si producono le une le altre. Se egli parla ancora qui di «sostanze» al plurale, ciò è perchè provvisoriamente considera ancora ogni attributo come una sostanza a sè (præter substantias, sive, quod idem est, earum attributa, ecc., Eth., I, 4, Dem.): più tardi (prop. 10) mostrerà che gli attributi non devono essere concepiti che come altrettanti aspetti infiniti di un’unica sostanza. Pensiamo pure più attributi come costituenti ciascuno una sostanza a sè; ma queste diverse sostanze non potranno essere pensate come esercitanti un’azione qualsiasi l’una sull’altra. Ciascuna di esse dovrà essere in sè e compresa per mezzo di sè: ora il rapporto causale sta appunto per Spinoza nell’essere in altro e nell’essere compreso per mezzo di altro: questo altro più comprensivo è la causa. Perciò, per quanto al volgare sembri che due cose possono essere in relazione causale senza bisogno d’avere nulla di comune (ciò oppone precisamente Oldenburg a Spinoza nella lettera 3), dobbiamo escludere che sostanze diverse possano agire l’una sull’altra ed essere causa l’una dell’altra (prop. 3). Ma nemmeno possiamo ammettere che vi siano più sostanze della stessa natura: esse costituiscono allora un’unica sostanza (prop. 5). Quindi nessuna sostanza può essere prodotta: essere prodotto vuol dire essere in altro e venir compreso per mezzo di altro: ora ciò contraddice direttamente al concetto della sostanza, che è in sè ed è compresa per mezzo di sè.
Prop. 6. Una sostanza non può venir prodotta da un’altra sostanza.
Alla sostanza appartiene quindi necessariamente l’esistere per sè: essa è causa sui, in quanto il suo esistere è un portato, una necessità della sua natura, della sua essenza.
Prop. 7. Alla natura della sostanza appartiene l’esistere.
Lo scolio 2 della prop. 8 è dedicato a ribadire questo principio fondamentale dello spinozismo, espresso nella prop. 7. L’esperienza ci mette in presenza di esseri limitati: questa limitazione è una negazione, una determinazione nel seno d’un essere più vasto: quindi dobbiamo riconoscere che il mondo degli esseri limitati presuppone un essere unico, illimitato, che è affermazione pura di sè, sostanza. Ora gli esseri limitati possono quando esistere, quando non esistere: appunto in quanto dipendono, quanto alla loro esistenza, dal vario agire della causa nella quale sono. Ma anche quando essi non esistono effettivamente (actu), hanno un’esistenza potenziale nella causa: e in questo rispetto possiamo avere una conoscenza vera delle loro essenze, anche se non esistono in modo concreto, fuori della loro causa. Si può concepire quindi che, nel loro riguardo, possa aversi una conoscenza vera dell’essenza, della natura d’una cosa, anche se la cosa non è in quel momento esistente. Ma la sostanza, che è in sè, non in altro, in che cosa potrebbe esistere potenzialmente? Quando perciò noi dalla considerazione degli esseri limitati siano costretti a porre una sostanza che è a loro fondamento, non possiamo porre solo una essenza astratta, che potrebbe anche essere non esistente: all’idea nostra vera deve corrispondere un’esistenza effettiva e reale. Non sono dunque gli oggetti particolari e limitati che esistono veramente: ciò che veramente esiste è l’unica sostanza che li porta e li contiene in sè come sue parziali negazioni: anche se al nostro occhio essi, con la loro molteplicità e le loro apparenti opposizioni, velano la visione di quest’unità, che è la sola realtà veramente esistente e vivente. Nella seconda parte dello scolio Spinoza rifà per altra via la dimostrazione che ad ogni aspetto della realtà deve corrispondere un unico fondamento, una sola sostanza.
3) Nelle prop. 8-11 Spinoza mostra che gli attributi non possono costituire più sostanze separate, perchè appartiene alla natura della sostanza non solo l’infinità quantitativa (in suo genere), ma anche l’infinità qualitativa, assoluta. La realtà si riduce per noi ai due aspetti dell’estensione e del pensiero: perchè non facciamo di questi due attributi due sostanze per sè esistenti, due mondi assolutamente separati e ciascuno, nel suo genere, perfetto? Perchè, sebbene Spinoza consideri l’estensione assoluta ed il pensiero assoluto come perfetti ciascuno nel suo genere e perciò identificabili, sotto il rispettivo punto di vista, con la sostanza, il fatto che essi ci presentano aspetti diversi ed irreducibili dell’essere ci mostra che essi sono, per quanto nel loro genere non determinati e perfetti, semplici aspetti d’un essere assolutamente perfetto, che solo esaurisce sotto ogni aspetto le infinite possibilità dell’essere e che perciò solo è veramente sostanza esistente per sè necessariamente. Vi è dunque una sostanza sola, rivelantesi sotto infiniti aspetti in infiniti attributi: essa è ciò che noi diciamo Dio.
Dopo d’aver meditato sulla natura, noi non abbiamo potuto trovare in essa finora che due attributi appartenenti a questo essere supremamente perfetto. E questi attributi non sono sufficienti a soddisfarci: ben lungi dal giudicarli i soli, nei quali deve consistere questo essere perfetto, al contrario noi troviamo in noi qualche cosa che ci rivela chiaramente l’esistenza non solo d’un più gran numero, ma ancora d’un’infinità di attributi perfetti, che debbono appartenere a questo essere perfetto, perchè possa essere chiamato perfetto. E donde viene quest’idea di perfezione? Questo qualche cosa non può venire da quei due attributi, perchè due non fanno che due e non un’infinità; donde dunque ci viene? Non da me certo, perchè bisognerebbe allora che io potessi dare ciò che non ho. Donde allora, se non dagli attributi infiniti, i quali ci dicono che essi sono, senza dirci nel medesimo tempo che cosa sono? Perchè di due soltanto noi sappiamo che cosa sono. (Trattato breve, I, 1, nota 3).
Dico che se poniamo esservi qualche cosa di non determinato e di perfetto nel suo genere, che esiste per virtù propria, noi dovremo concedere anche l’esistenza dell’essere assolutamente non determinato e perfetto: che io chiamerò Dio. Se, p. es., stabiliamo l’estensione o il pensiero (che possono essere perfetti ciascuno nel suo genere, cioè in una certa categoria dell’essere) esistere per virtù propria: dovrà concedersi anche l’esistenza di Dio che è assolutamente perfetto, cioè dell’essere assolutamente non determinato. La parola «imperfezione» denota che ad un essere manca qualche cosa, che pure appartiene alla sua natura. Per es., l’estensione può dirsi imperfetta solo sotto i rapporti della durata, della posizione, della quantità; ossia in quanto non dura più a lungo, non conserva il suo posto, non è maggiore di quello che è: ma non sarà mai chiamata imperfetta perchè non pensa: perchè la sua natura, che consiste nella sola estensione, cioè in una certa categoria dell’essere, non esige niente di tale: essa potrà venir chiamata determinata o non determinata, imperfetta o perfetta solo sotto quel certo rapporto. E poiché la natura di Dio non consiste in una certa categoria dell’essere, ma nell’Essere assolutamente non determinato, la sua natura esige tutto ciò che esprime l’essere perfettamente: perchè in caso contrario essa resterebbe determinata e imperfetta. Ciò posto, segue non poter esistere se non un Essere solo, Dio, che esiste per virtù propria. Se infatti noi poniamo, per esempio, che l’estensione involge l’esistenza, è necessario che essa sia eterna e non determinata e non esprima in modo assoluto alcuna imperfezione, anzi contenga tutte le perfezioni: il che vuol dire che l’estensione apparterrà a Dio o in qualche modo esprimerà la natura di Dio: perchè Dio è l’essere che è non determinato ed onnipotente secondo l’essenza sua, non solo sotto un certo aspetto, ma in senso assoluto. E ciò che abbiamo detto dell’estensione dovrà dirsi di ogni altra cosa che vorremo porre nello stesso modo. Concludo quindi che Dio solo, e nulla fuori di lui, esiste per virtù propria. (Lettera 36).Così definita la sostanza unica, Spinoza applica ora ad essa ciò che di essa si è genericamente detto nella prop. 7.
Prop. 11. Dio, cioè la sostanza costituita di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente.
Spinoza dà di questo teorema tre dimostrazioni: le quali sono tutte fondate sullo stesso principio e riproducono — certo però in una forma tutta particolare a Spinoza — la famosa prova ontologica dell’esistenza di Dio. Il volgare non si eleva al disopra delle cose finite e particolari e ad esse sole attribuisce una reale esistenza: la loro unità è per lui soltanto un’interpretazione soggettiva, un pensiero, la cui realtà non è affatto sicura. Ma se noi le consideriamo filosoficamente, noi vediamo che tutte le cose finite sono tali perchè sono determinate e negate da altre cose finite, che le une e le altre sono contenute in realtà più vaste, le quali dànno ad esse la potenza di essere e di agire e contengono in sè la ragione delle loro determinazioni e negazioni reciproche. Ora queste realtà più vaste, in quanto anch’esse determinate e finite, ci rinviano anch’esse ad altre e così in ultimo ad una realtà unica e suprema che contiene in sè l’essere e l’attività di tutte le cose, è la ragione di tutte le cose e delle loro determinazioni nel mondo dell’esistenza finita. Questa è la realtà piena, l’essere perfettamente positivo, che, non avendo nulla fuori di sè che possa determinarlo e limitarlo, non può nè sorgere, nè mutare, nè perire ed esiste eternamente per la sola virtù propria, mentre le determinazioni sue singole sorgono e periscono, ora esistono ed ora non esistono. Non sarebbe ora una contraddizione l’assumere che esista realmente un essere singolo, per es., il mio io pensante, e sia invece incerta l’esistenza dell’essere universale, della sostanza, per cui soltanto è possibile l’esistenza dell’essere singolo? Ciò sarebbe come credere che sia reale solo un piccolo tratto di spazio che vediamo e dubitare dell’esistenza dell’infinito spazio, dal quale soltanto tuttavia è determinato in tutti i suoi rapporti il piccolo spazio finito che vediamo.
La dimostrazione non ha quindi per scopo di condurre a credere nell’esistenza di Dio, ma di giustificare logicamente la visione filosofica dell’unità delle cose in Dio. Il volgare non vede in Dio che le cose particolari: lo spirito filosofico nelle cose particolari non vede che Dio. L’argomento ontologico non ha per fine di costringere il volgare a credere in Dio (ben altro ci vuole per elevare lo spirito a Dio!), ma di mostrare che colui, il quale vede Dio nelle cose particolari, si contraddirebbe logicamente se, attribuendo a queste una reale esistenza, ammettesse ancora il minimo dubbio circa la reale esistenza di Dio. Poiché ogni cosa finita ha una esistenza limitata, in quanto è determinata e negata da altre cose finite e poiché tutte le cose hanno il loro fondamento in una realtà unica (in caso contrario esse non potrebbero nemmeno entrare in rapporto le une con le altre), questa sola, che contiene tutte le determinazioni, non è soggetta ad alcuna limitazione o negazione: e perciò essa sola esiste veramente ed eternamente senza limiti per virtù di quella forza medesima, per la quale soltanto le cose particolari esistono: anche se ai nostri occhi questa sua esistenza si rivela sempre solo nell’esistenza delle sue determinazioni finite. «La perfezione non toglie l’esistenza, anzi la pone; l’imperfezione invece è ciò che la toglie: quindi di nessuna cosa possiamo essere più certi che dell’esistenza dell’Essere assolutamente infinito e perfetto, cioè di Dio». (Etica, I, 11, scol.).