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IV. — Le proprietà di Dio.
Se ci si chiede perchè noi siamo così naturalmente propensi a dividere la quantità [l’estensione], io rispondo che la quantità può essere concepita da noi in due modi, e cioè astrattamente, superficialmente, come ce la foggiamo col senso, oppure come sostanza, ciò che è possibile per il solo intelletto. Se noi ci riferiamo alla quantità come è nel senso, che è il caso più ordinario e più facile, la troveremo finita, divisibile e constante di parti; se invece la consideriamo come è nell’intelletto e la concepiamo come sostanza, ciò che è molto più difficile, allora troveremo che essa è infinita, unica e indivisibile. (Et., I, 15, scol.).
2) In secondo luogo Dio è l’unica sostanza: nulla è o può essere pensato fuori di Dio (prop. 14-15). Nello scolio alla prop. 15 Spinoza vuol mostrare che anche l’estensione è in Dio: ciò che naturalmente è ben lontano dal voler dire che Dio sia corporeo.
3) L’infinita realtà della sostanza divina si esplica necessariamente in una produzione infinita: essa è come una ragione eterna, che contiene e svolge eternamente da sè tutte le infinite realtà particolari, come conseguenze infinite che un intelletto infinito potrebbe derivarne. Abbiamo veduto essere uno dei principii capitali della filosofia di Spinoza l’identità della ragione e della causa (v. def. 5): dall’essere divino le infinite realtà derivano eternamente come altrettante conseguenze da un principio e nello stesso tempo come altrettanti prodotti reali dalla loro causa efficiente. Questa identificazione della produzione reale con la deduzione logica è possibile in Spinoza in quanto anche la produzione reale da parte di Dio non è una produzione nel tempo: è un procedere eterno, nel quale l’effetto e la causa sono simultanei. Il tempo, come si vedrà, è solo un modus cogitandi seu potius imaginandi (lett. 12), vale a dire una creazione del nostro senso imperfetto.
Prop. 16. Dalla necessità della natura divina debbono discendere infinite cose in infinite maniere (cioè tutte quelle cose che può pensare un intelletto infinito).
4) Dio agisce per la necessità dell’essere suo, non per una necessità forzata: quindi Dio (e Dio solo) è causa libera (prop. 17). Qui Spinoza applica a Dio ciò che della libertà si è detto nella definizione settima. Questa identificazione della libertà divina con la necessità della sua natura sembra (a torto) condurre ad una specie di fatalismo intelligibile: ed è per reagire contro questa concezione, che sembra ridurre l’attività divina ad una specie di necessità cieca di natura, che si suole attribuire a Dio anche una specie di libertà di elezione, una causalità libera, non legata in alcun modo ai suoi effetti. Ma ciò riposa sopra un falso concetto della libertà. Anche nell’uomo la vera libertà non è la libertà di indifferenza, ma la direzione costante verso il bene: Deo servire libertas. Quando il concetto di necessità sia rigorosamente compreso, esso non ha nulla di contrario alla libertà; alla quale si oppone la necessità coacta, servile, non la necessità della propria natura, che è necessità libera.
Nello scolio che segue Spinoza si volge contro il falso concetto comune della libertà divina. Egli combatte l’antropomorfismo volgare che attribuisce a Dio intelligenza e volontà e, in genere, predicati umani.
Inoltre vorrei qui notare, che, mentre parliamo filosoficamente, non dobbiamo servirci di espressioni teologiche. Perchè siccome la teologia qua e là, e non a torto, si rappresenta Dio come un uomo perfetto, è naturale che poi nella teologia si dica che Dio desidera qualche cosa, che si affligge dell’opera dei malvagi e si compiace dei giusti; ma in filosofia, dove chiaramente vediamo che quei predicati i quali rendono l’uomo perfetto convengono così poco a Dio come all’uomo quelli che fanno perfetto l’elefante o l’asino, queste ed altre simili espressioni sono fuori di posto, nè possono venir usate senza una confusione completa dei nostri concetti. Perciò, filosoficamente parlando, non si può dire che Dio esige qualcosa da qualcuno o che qualcosa gli è molesto o grato: perchè tutti questi sono predicati umani, che in Dio sono fuori di posto. (Lett. 23).
Come spesso accade quando condanna il volgare concetto antropomorfico di Dio, qui Spinoza dà al suo pensiero un’espressione che oltrepassa, qualche volta, le sue stesse intenzioni. L’intelletto e la volontà che appartengono all’essenza divina (egli dice) differiscono totalmente dal nostro intelletto e dalla nostra volontà e non hanno di comune che il nome, non altrimenti che il cane, costellazione celeste, ed il cane, animale latrante. Al che un acuto suo corrispondente obbietta: «Se l’intelletto di Dio differisce per l’essenza e l’esistenza dal nostro, non avrà con esso nulla di comune e quindi (per la prop. 3 del libro I) l’intelletto di Dio non potrà essere causa del nostro» (lett. 63).
Spinoza combatte qui in secondo luogo l’opinione che Dio non abbia creato tutto ciò che il suo intelletto può concepire, come se il creare tutto ciò che può pensare conducesse Dio ad esaurire la sua onnipotenza.
[Altri], sebbene concepiscano Dio come un essere infinitamente intelligente in atto, non credono che egli possa dare l’esistenza a tutte le cose che in atto intende, perchè credono di distruggere in tal modo la potenza di Dio. Se, dicono, egli avesse creato tutto ciò che è nel suo intelletto, non avrebbe potuto creare nulla di più, ciò che essi credono contraddica alla onnipotenza di Dio: perciò hanno preferito ammettere Dio come indifferente verso tutte le cose e determinato a creare soltanto ciò che per una volontà assoluta ha deciso di creare. Ma io credo aver mostrato chiaramente (prop. 16) che dalla suprema potenza di Dio cioè dall’infinita sua natura fluiscono infinite cose in un’infinità di modi: e così che tutto è fluito da lui necessariamente e sempre ancora fluisce con la stessa necessità: così come da tutta l’eternità e per l’eternità dalla natura del triangolo segue che i suoi angoli siano uguali a due retti. Perciò l’onnipotenza di Dio fu dall’eternità in atto e rimane per l’eterno nella stessa attualità. Ed in questo modo l’onnipotenza divina è posta, io credo, molto più perfetta: che anzi i miei avversari sembrano (diciamolo apertamente) negare tale onnipotenza. Essi sono infatti costretti a confessare che Dio pensa infinite cose creabili, le quali tuttavia non ha potuto mai creare. Perchè altrimenti, se cioè creasse tutto ciò che pensa, esaurirebbe, secondo essi, la sua onnipotenza e si renderebbe imperfetto. Così per fare Dio perfetto sono ridotti a porre che egli non può creare tutte le cose cui si estende la sua potenza: la cosa più assurda e ripugnante all’onnipotenza di Dio, che si possa immaginare. (Et., I, 17, scol.).
5) Poiché tutto è in Dio e nulla può essere o venir pensato fuori di lui, l’attività infinita di Dio non può essere un’attività che, per così dire, si espanda fuori di lui: è un’attività interiore, immanente, non transeunte in altro.
Prop. 18. Dio è causa immanente di tutte le cose non transeunte.
Già nel Trattato breve Spinoza dice: «Dio è causa immanente, non transeunte, perchè opera tutto in sè e nulla fuori di sè; poichè fuori di Dio non vi è nulla». E la stessa dottrina ripete con le stesse parole nella lettera 73 (del 1675) richiamandosi alle note parole di Paolo (Acta Ap., XVII, 28): «In ipso enim vivimus et movemur et sumus». Egli riconosce di trovarsi, su questo punto, in opposizione con la filosofia tradizionale: per quanto anche in questo avrebbe potuto trovare un antecedente nella dottrina della creazione continua: concetto già accolto da Agostino, da Tommaso d’Aquino e da Cartesio, che Spinoza espone nei Cogitata metaphysica (I, 3, e II, 11).
La conseguenza diretta di questa proposizione è il panteismo, l’identità del mondo e di Dio. Ma come deve essere intesa questa identità? Essa è stata qualche volta intesa come riduzione di Dio al mondo: e così è stato spesso interpretato Spinoza, specialmente dalla filosofia naturalista. Questo panteismo è in realtà un ateismo: quando si riduce Dio alla natura, si accoglie in fondo una forma di ateismo naturalistico. Ma questa interpretazione è da escludere: il Deus sive natura di Spinoza ha tutt’altro senso. «Se alcuni credono (scrive nella lett. 73) che il Trattato teologico politico miri ad identificare Dio e la natura, intesa questa come una massa estesa, come la materia corporea, essi sbagliano completamente strada».
La conseguenza sarebbe poco diversa anche intendendo per Natura l’ordine interiore delle cose finite e delle loro leggi, l’insieme eterno di principii che sembrano reggere il corso della realtà esteriore: chiamare Dio l’insieme di questi principii è solo introdurre un concetto vago, vuoto, logicamente incoerente. È vero che Spinoza sembra in qualche passo favorire questa interpretazione; come, per es., nel cap. III del Trattato teologico politico, dove dice che le leggi di natura non sono altro che la stessa potenza di Dio. Ma egli non dice l’inverso: Spinoza vedeva troppo chiaramente che, riducendo Dio ad una molteplicità di leggi e di principii, si viene in fondo a porre una molteplicità assoluta, negando l’unità: ora tutta la sua filosofia è fondata sul principio opposto dell’unità della sostanza, dell’unità del soggetto di tutte le cose.
Più vicini allo spirito della sua filosofia sono quelli, che, come Hegel, hanno definito la filosofia di Spinoza una specie di acosmismo. Ma anche questo può venir inteso in più sensi. Se si intende nel senso che ogni entità particolare è irreale e si dissolve nell’unità in distinta dell’infinito, tale non è l’opinione di Spinoza. Basti ricordare il rapporto fra gli attributi e la sostanza. Dio non è per Spinoza l’indistinzione assoluta: è un’unità non determinata in alcun modo particolare, ma comprendente in sè tutti i particolari: è una molteplicità identica, un’unità infinitamente ricca e varia nella sua vivente molteplicità. Legittimo è invece il concetto di acosmismo se si applica al rapporto del mondo eterno della sostanza col mondo umano creato dal nostro senso: il quale non è che una visione imperfetta del mondo eterno e per sè non esiste affatto. Ma di questo più innanzi.
Merito di Spinoza ad ogni modo è l’avere accentuato nella filosofia moderna questo principio dell’unità fondamentale delle cose in Dio, l’aver eliminato l’ambiguo concetto delle sostanze create, che sono in Dio e fuori di Dio, che tutto hanno da Dio e tuttavia dovrebbero possedere un’attività indipendente da Dio. In quest’ambiguità hanno la loro origine la maggior parte delle eterne questioni che trascina appresso a sè, come difficoltà insolubili, il pensiero teologico.
6) Per ultimo Dio è nell’eternità, non nel tempo (prop. 19): ciò segue dal concetto stesso della sostanza, che esiste per un’eterna necessità della sua natura. E quindi in Dio non vi è ragione di distinguere l’essenza dall’esistenza (prop. 20).
Prop. 19. Dio, cioè tutti i suoi attributi sono eterni.
Prop. 20. L’esistenza e l’essenza di Dio sono una sola e medesima cosa.
Un essere particolare e limitato, pensato isolatamente non implica per nulla la necessità della sua esistenza attuale e concreta: esso, per il fatto stesso che è limitato, soggiace all’azione di cause esteriori limitanti, dalle quali dipendono il suo esistere e il suo non esistere nel tempo. Si crea così, nel rispetto di tutti gli esseri limitati, una specie di dissidio, di dualità fra l’essenza e l’esistenza. L’essenza di ogni cosa, anche limitata, è un principio eterno, un modo infinito ed eterno, che, come tale, partecipa della stessa. eternità divina dalla quale non può essere scisso. Ma non perciò essa è sempre presente nel tempo, nel mondo della nostra esperienza, dove (per difetto della nostra esperienza, che è sempre un conoscere mutilo e confuso) ora appare come presente, esistente, ora come non esistente, come esistente solo potenzialmente nelle sue cause. Quindi è possibile, per le cose limitate, una conoscenza, anche vera, delle loro essenze, che è una semplice conoscenza astratta, senza alcuna corrispondenza nella realtà esistente. Come, per es., quando io penso «Alessandro Magno»: rappresentazione vera, ma che non ha il suo corrispondente oggetto nel mondo del l’esistenza attuale. Invece, per il concetto della sostanza, questa dualità non è possibile. Sarebbe una contraddizione logica, si è veduto, pensare la sostanza come un’astrazione del nostro pensiero: essa è anzi sempre presente, perchè in tutto ciò che è presente ed esiste, solo la sostanza esiste. Perciò non vi è, in vero senso, esistenza per la sostanza, ma perennità sempre uguale: la sua esistenza è l’eternità, è la sua essenza sempre uguale ed eternamente presente.