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Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
V. - La derivazione dalle cose da Dio
Libro Primo - IV Libro Secondo

V. — La derivazione delle cose da Dio.


1 Nell’ultima parte del 1° libro (prop. 21-36) Spi­noza tratta di Dio in rapporto alle cose prodotte. Nelle prop. 21-23, 25 tratta della processione da Dio d’un mondo di essenze eterne ed infinite. Dagli attributi di Dio procede immediatamente un certo numero di es­senze primitive, eterne ed infinite: da queste proce­dono altre essenze derivate, egualmente eterne ed infi­nite. Quali siano i modi eterni primitivi lo sappiamo dal cap. 9 del primo libro del Trattato breve. Dagli attributi del pensiero e dell’estensione procedono ri­spettivamente i due modi infiniti primitivi dell’intel­letto e del movimento, i due Figli di Dio. Il modo pri­mitivo eterno dell’intelletto è l’infinito intelletto divino, del quale tutti i pensieri determinati sono parti, momenti costitutivi. Esso deve venir distinto dal pensiero come attributo (che è la cogitatio assoluta); il pensiero come attributo è ancora l’unità, è il fondamento sostanziale di tutte le attività cogitanti, quale è nella sua unità originaria, in Dio; l’intelletto infinito è l’unità già riversantesi nella molteplicità, è il com­plesso di tutte le attività cogitanti, quali modi eterni, «La mente nostra, in quanto pensa, è un modo eterno del pensiero, che è determinato da un altro modo eterno del pensiero e questo da un altro e così all’infinito: così che tutti insieme costituiscono l’eterno ed infinito intelletto di D io» (Et., V, 40, scol.). E poiché l’intel­letto divino, che comprende in sé tutti i pensieri e dal quale tutti si possono svolgere, è il pensiero che ha per oggetto la totalità, cioè Dio, così Spinoza lo chiama anche idea Dei. Tratt. breve, II, 22 (nota): «L’intel­letto infinito che noi abbiamo chiamato il figlio di Dio, deve essere da tutta l’eternità nella Natura: perchè essendo Dio da tutta l’eternità, anche l’idea sua deve essere da tutta l’eternità nella cosa pensante». E nella Append. II, ib.: «La modificazione più immediata del l’attributo, che diciamo pensiero, contiene in sè, come oggetto, l’essenza formale di tutte le cose... E poiché Dio, o la Natura, è un essere, del quale possono venir predicate infinite proprietà e che contiene in sè le es­senze di tutte le cose create, deve prodursi necessaria­mente nel pensiero un’idea infinita, che abbraccia in sè come oggetto l’intiera Natura, tale quale è realmente in sè... Perciò noi abbiamo chiamato quest’idea figlia di Dio o immediata creatura di Dio, perchè essa con­tiene in sè come oggetto l’essenza formale di tutte le cose, senza subire aumento nè diminuzione. E que­st’idea è necessariamente una perchè tutte le essenze delle proprietà [cioè degli attributi] e delle determi­nazioni in esse comprese costituiscono l’essenza d’un unico, infinito essere». — Il secondo modo primitivo, corrispondente all’attributo dell’estensione, è il movi­mento, o meglio la somma totale dei movimenti del mondo esteso, che, sebbene si ripartisca in ogni istante in un modo diverso, rimane sempre la stessa. — Da queste essenze prime derivano poi i modi eterni deri­vati, cioè le essenze eterne delle cose, le res fixæ et æternæ, che nel Trattato dell’emendamento dell’intel­letto Spinoza oppone alle cose singolari e mutevoli.

Nonostante questa distinzione, Dio è però sempre causa diretta ed esclusiva di tutte le cose, perchè, come causa immanente, anche nei modi eterni derivati è ed opera direttamente (Et., I, 28, scol.). Come causa im­manente, Dio li costituisce con l’essenza propria: le essenze delle cose non sono sostanze che siano fuori di lui, ma affezioni, modi della sostanza divina (Et., I, 25, coroll.).

L’insieme di questi modi eterni ed infiniti proce­denti dall’essenza divina costituisce ciò che Spinoza (con espressione scolastica, che risale ad Averroè e ri­corre, fra altri, anche in Tommaso d’Aquino e in Bruno) chiama natura naturata, in opposizione a Dio, come unità e causa immanente di questi modi, che è la natura naturans.

Per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sè ed è per sè concepito, cioè quegli attributi della sostanza che esprimono un’essenza eterna ed infinita o (ciò che è lo stesso) Dio considerato come causa libera. Per Natura naturata intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura divina ossia dagli attributi di Dio, cioè tutti i modi degli attributi divini, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che senza Dio non possono nè essere, nè essere concepite. (Et., I, 29, scol.).

2) Ma se il mondo che procede dall’infinita ed eterna essenza di Dio è un mondo di essenze infinite ed eterne, donde il mondo delle cose finite? Quando io considero (con l’intelletto) una cosa particolare nella unità infi­nita di Dio, io non posso considerarla come isolata e determinata: anch’essa è un’essenza infinita ed eterna ed anche per essa (in quanto involge l’eterna e infinita essenza di Dio) l’esistenza si confonde con l’essenza. Ma se io considero una cosa particolare come recisa, per così dire, dal seno dell’unità infinita, io la trasformo in un essere finito e limitato: essa non ha più in sè e nella sua unità con Dio le ragioni del suo esistere: la sua essenza non involge più l’esistenza (prop. 24). Bisogna dunque distinguere tra i modi in quanto vengono considerati come esistenti in Dio e i modi in quanto vengono considerati come collegati soltanto con altri modi, cioè con altre cose particolari (ciò che opera in noi il senso, l’imaginatio): in questo secondo caso è naturale che il modo apparisca a noi (data la limita­zione della nostra imaginatio) ora come presente, per virtù delle sue cause particolari, nell’orizzonte del nostro conoscere; ora come non presente, cioè ora come esistente, ora come non esistente. Non vi sono dunque in realtà modi finiti: vi sono due modi nostri di ap­prendere la realtà divina, con l’intelletto e con l’imaginatio. Il primo è costituito da conoscenze adequate ed apprende il mondo delle essenze eterne ed infinite così come veramente è in Dio; il secondo dà origine al mondo (apparente) dei modi finiti, dovuto all’ imperfe­zione della confusa e mutila visione nostra. Quindi si può parlare d’una duplice esistenza delle cose: l’esi­stenza nel tempo (cui corrispondono i modi finiti) e l’esistenza in Dio (cui corrispondono i modi eterni ed infiniti).

Noi possiamo concepire in due modi le cose come esistenti in atto: o in quanto le concepiamo come esistenti in relazione ad un certo tempo e luogo o in quanto le concepiamo come contenute in Dio e procedenti dalla necessità della natura di­vina. Quelle che noi concepiamo come vere e reali in questo secondo modo, le concepiamo sotto il punto di vista dell’eternità e le loro idee involgono l’eterna ed infinita essenza di Dio. (Et., V, 29, scol.).

Qui per esistenza non intendo la durata, cioè l’esistenza concepita isolatamente come una specie di quantità. Farlo della natura stessa dell’esistenza che viene riferita alle cose singolari in quanto dall’eterna necessità di Dio procedono infinite cose in infiniti modi. Parlo cioè della stessa esistenza delle cose sin­golari in quanto sono in Dio. Poiché sebbene ciascuna cosa sia determinata ad esistere in un certo modo da un’altra cosa sin­golare, la forza tuttavia per cui ciascuna cosa persevera nell’esistere procede dall’eterna necessità della natura divina. (Et., II, 45, scol.).

E così alla distinzione del mondo dei modi eterni e del mondo dei modi finiti corrisponde una duplice causalità: la causalità divina, per cui da Dio procede eternamente il mondo dei modi, delle essenze egual­mente infinite ed eterne; e la causalità empirica, per cui ogni modo finito è ricondotto ad un altro modo finito, che è la condizione della sua esistenza nel tempo, questo ad un altro e così indefinitamente.

Prop. 28. Qualsiasi cosa particolare ossia qualunque cosa che è finita ed ha un’esistenza determinata non può esistere nè esser determinata ad operare se non venga determinata ad esi­stere e ad operare da un’altra causa, che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata; ed alla sua volta questa causa non può esistere nè esser determinata ad operare se non venga de­terminata ad esistere e ad operare da un’altra, che anch’essa è finita ed ha un’esistenza determinata; e così all’infinito.

Dimostrazione. Tutto ciò che è determinato ad esistere e ad operare è stato da Dio così determinato (prop. 26 e prop. 24, coroll.). Ma ciò che è finito ed ha un’esistenza determinata non ha potuto essere prodotto dalla natura assoluta di qualcuno degli attributi di Dio: perchè tutto ciò che procede dalla natura assoluta di qualcuno degli attributi di Dio è infinito ed eterno (prop. 21). Dovette dunque procedere da Dio o da qualcuno dei suoi attributi in quanto è considerato come affetto da un certo modo: perchè nulla vi è fuori della sostanza e dei modi (ass. 1 e def. 3, 5) e i modi (prop. 25, coroll.) non sono altro che affe­zioni degli attributi di Dio. Ma nemmeno potè procedere da Dio o da alcuno dei suoi attributi in quanto è affetto da una modi­ficazione eterna ed infinita (prop. 22). Dovette dunque procedere, ossia essere determinato ad esistere e ad operare da Dio o da qualche suo attributo in quanto affetto da una modificazione che è finita ed ha un’esistenza determinata. Inoltre anche questa causa o modo (per la stessa ragione che ha servito alla prima parte di questa dimostrazione) ha dovuto essere determinata da un’altra anch’essa finita ed avente una esistenza determinata: alla sua volta quest’ultima (per la stessa ragione) da un’altra e così all’infinito.

3) Nelle prop. 26-27, 29-30, 32-36 Spinoza tratta del­l’attività degli esseri in quanto dipendente e per l’es­sere e per l’esistere da Dio e trae la conseguenza che tutto, in quanto determinato da Dio, è necessario. Poiché Dio è causa immanente delle cose, esse sono necessariamente e rigorosamente determinate in ogni loro attività da Dio.

Prop. 26. Una cosa, che è determinata ad una certa opera­zione, è stata da Dio così determinata; e quella che non è stata determinata non può determinare se stessa ad operare.

Prop. 27. Una cosa che è stata determinata da Dio ad una certa operazione non può da sè rendersi indeterminata.

Il possibile e il contingente non fanno quindi parte della realtà: essi sono dovuti solo ad un’imperfezione del conoscere umano: nella realtà delle cose non v’è contingenza.


Prop. 29. Nella natura delle cose non vi è alcun contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in un certo modo.

Avendo così chiarissimamente mostrato che non vi è in senso assoluto nelle cose nulla per cui possano dirsi contingenti, voglio in poche parole spiegare che cosa dobbiamo intendere per contingente; e prima che cosa siano il necessario e l’impossibile. Una cosa è detta necessaria o sotto il rispetto dell’essenza o sotto il rispetto della causa. Perchè l’esistenza d’una cosa può procedere necessariamente o dalla sua essenza e definizione o da una data causa efficiente. Inoltre sotto gli stessi rispetti una cosa può esser detta impossibile: e cioè o perchè la sua essenza o definizione involge una contraddizione o perchè non vi è alcuna causa esterna determinata a produrre tale cosa. Ma una cosa non può esser detta contingente per nessun’altra ragione che in riguardo alla deficienza del nostro conoscere. Una cosa, di cui non sappiamo se l’essenza sua involga una contraddi­zione o, se anche ben sappiamo che l’essenza sua non involge contraddizione, — della cui esistenza non possiamo affermare nulla di certo, perchè non ci è nota la concatenazione delle cause — tale cosa non potrà apparirci nè come necessaria, nè come impossibile; perciò la diciamo contingente o possibile. (Et., I, 33, scol. 1).

Quindi Spinoza estende in modo particolare questa considerazione all’intelletto, che non può, diremo così, spaziare fuori del reale, non può che riflettere gli at­tributi di Dio e le loro modificazioni, senza poter creare ed introdurre nulla di nuovo e di proprio. L’errore e la finzione non sono che un parziale oscuramento: essi non colgono altro reale che quello che procede neces­sariamente da Dio. «L’errore non è nulla di positivo» (Princ. filos. cartes., I, 15). «La chimera, la finzione e l’ente di ragione non possono annoverarsi fra gli enti» (Cog. met., I, 1).

Prop. 30. L’intelletto, finito o infinito in atto, deve compren­dere gli attributi e le affezioni di Dio e niente altro.

In secondo luogo Spinoza estende la stessa verità anche alla volontà, la quale non è una facoltà crea­trice di alcunché di nuovo: anche la sua azione fa parte dell’azione risultante dall’azione divina e si in­serisce in essa come un momento necessario.

Prop. 32. La volontà non può dirsi causa libera, ma soltanto necessaria.

Qui Spinoza accenna soltanto di passaggio al pro­blema della libertà, sul quale si estenderà maggior­mente più innanzi. — Nei corollari della prop. 32 e nelle prop. 33-36 egli applica queste conclusioni anche alla totalità della realtà in rapporto all’azione divina e si preoccupa di purificare il concetto dell’azione di­vina da ogni rappresentazione antropomorfica. Data la unità della sostanza e la necessità della processione delle cose dalla sostanza, è evidente che le cose non potrebbero procederne in altro modo o in altro ordine da quello in cui procedono (prop. 33). Perchè se si sup­pone che Dio potesse anche produrle altrimenti, si sup­pone con ciò che anche la volontà e l’intelletto di Dio, e così la sua essenza, potrebbero essere altri da quello che sono (ib., scol. 2). La potenza di Dio coincide quindi con la sua essenza e tutto ciò che è nella sua potenza esiste necessariamente (prop. 34-35). Come per converso l’essenza coincide con la potenza e perciò in Dio e in ciò che ne procede tutto è attività e creazione continua (prop. 36).

Prop. 33. Le cose non hanno potuto essere prodotte in altro modo od in altro ordine da quello secondo cui sono state prodotte.

Prop. 34. La potenza di Dio è la stessa sua essenza.

Prop. 35. Tutto ciò che concepiamo essere in potere di Dio, ciò è necessariamente.

Prop. 36. Nulla esiste, dalla cui natura non segua qualche effetto.

Segue chiaramente da ciò che precede che le cose sono state prodotte da Dio con una somma perfezione, perchè esse sono scaturite necessariamente da una data natura perfettissima. Nè ciò imputa a Dio alcuna imperfezione: anzi è la sua perfezione che ci costringe ad affermare questo. Ed è dalla affermazione contraria che sì dedurrebbe Dio non essere sommamente per­fetto: perchè, se le cose fossero state prodotte in altro modo, bisognerebbe attribuire a Dio un’altra natura, diversa da quella che la considerazione dell’Essere perfettissimo ci costringe ad attribuirgli. Ma io temo che molti respingano come assurda questa mia opinione e non vogliano nemmeno esaminarla: e ciò solo perchè sono abituati ad attribuire a Dio un’altra libertà, ben diversa da quella che è stata da noi insegnata (def. 7) e cioè una libertà assoluta. Tuttavia credo che, se vogliono pon­derare la cosa ed esaminare lealmente la serie delle mie dimo­strazioni, anch’essi finiranno per respingere una tale libertà, quale essi attribuiscono a Dio, non solo come cosa futile, ma come un grande ostacolo alla scienza. Per essi io voglio ancora mostrare che, anche ammettendo che la volontà appartenga al­l’essenza di Dio, dalla sua perfezione segue nondimeno che le cose non hanno potuto essere create in altro modo ed in altro ordine: il che sarà facile a dimostrarsi, se consideriamo prima ciò che essi stessi concedono e cioè che dal solo decreto e volontà di Dio dipende che ciascuna cosa sia quello che essa è. Perchè altrimenti Dio non sarebbe causa di tutte le cose. E in secondo luogo se consideriamo che tutti i decreti di Dio furono da lui stabiliti ab æterno. Perchè altrimenti sarebbe un riferire a Dio l’imperfezione e l’instabilità. Ora, poiché nell’eternità non vi è nè quando, nè prima, nè poi, dalla sola perfezione di Dio, segue che egli non può, nè ha mai potuto decretare altrimenti; in altre parole segue che Dio non ha potuto esistere prima o senza i suoi decreti. Ma, diranno essi, anche supponendo che Dio avesse creato un’altra natura delle cose o che avesse ab æterno decretato altrimenti circa la natura e il suo ordine, non ne seguirebbe con ciò alcuna imperfezione in Dio. Però dire questo è come dire che Dio può mutare i suoi decreti. Poichè se Dio avesse decretato circa la natura e il suo ordine altri­menti di quel che ha fatto, cioè avesse voluto e pensato altro circa la natura, avrebbe avuto necessariamente un altro intel­letto ed un’altra volontà da quelli che ha presentemente. E se è lecito attribuire a Dio un altro intelletto ed un’altra volontà senza alcun mutamento della sua essenza e della sua perfezione, perchè non potrebbe egli mutare i suoi decreti circa le cose create e pur restare egualmente perfetto? Perchè il suo intelletto e la sua volontà circa le cose create e il loro ordine sono sempre nello stesso rapporto con la sua essenza e perfezione nell’un caso e nell’altro. — D’altra parte tutti i filosofi che io conosco s’accordano in ciò che in Dio non v’è intelletto in po­tenza, ma solo in atto: ora poiché il suo intelletto e la sua volontà non si distinguono dalla sua essenza, come tutti parimenti concedono, ne segue che, se Dio avesse avuto un altro intelletto in atto ed un’altra volontà, la sua essenza sarebbe anch’essa stata diversa; e quindi, se le cose fossero state da Dio prodotte altrimenti da quel che sono, il suo intelletto e la sua volontà, cioè la sua essenza, avrebbero dovuto essere altri, il che è assurdo. (Et., I, 33, scol. 2).

4) Il libro 1° finisce con una lunga appendice, nella quale Spinoza si applica a combattere una credenza molto diffusa e contraria alla dottrina sua della neces­sità universale: la dottrina cioè che Dio stesso agisce in vista di fini. Spinoza traccia la genesi di quest’illusione dalla cecità e dall’egoismo degli uomini.

Io ho spiegato così la natura e le proprietà di Dio e cioè come egli esiste necessariamente; che è unico; che è ed agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose ed in qual modo; che tutte le cose sono in Dio e da lui dipendono in modo che, senza di lui, non possono nè essere nè essere concepite; ed infine che tutte le cose furono da Dio predeterminate non per libera volontà o per un assoluto arbitrio, ma per la natura assoluta di Dio, cioè per l’infinita sua potenza. Inoltre, dovunque ne ebbi l’occasione, cercai di eliminare i preconcetti i quali potevano impedire che venissero comprese le mie dimostrazioni: ma poiché restano ancora non pochi altri preconcetti, i quali potevano e possono anch’essi, anzi essi più degli altri, impedire agli uomini di bene afferrare la concatenazione delle cose in quel modo che io l’ho esposta, stimai bene sottoporli qui all’esame della ragione. E perchè tutti i preconcetti, che qui voglio segnalare, procedono da questo solo che cioè generalmente gli uomini suppongono che le cose naturali agiscano, come essi, secondo fini, anzi hanno per certo che Dio stesso diriga le cose verso un certo fine, in quanto dicono che Dio fece tutte le cose per l’uomo e l’uomo per adorarlo; così considererò prima questo solo, cercando la causa per cui i più degli uomini si acquietano in questo preconcetto e sono naturalmente tanto inclini ad accoglierlo. Non è mia intenzione qui ricondurlo alla natura dello spirito umano. Basterà porre per principio ciò che tutti debbono riconoscere: e cioè che tutti gli uomini nascono nell’ignoranza delle cause delle cose e che tutti hanno la tendenza a cercare l’utile proprio, ciò di cui hanno ben coscienza. Da ciò segue in primo luogo che gli uomini credono di essere liberi in quanto sono conscii delle loro voli­zioni e del loro tendere e non pensano nemmeno per sogno alle causa da cui sono disposti ad appetire ed a volere, perchè le ignorano. Ne segue in secondo luogo che gli uomini agiscono in tutto in vista d’un fine, e cioè in vista dell’utile a cui tendono: onde viene che s’occupano solo sempre di sapere le cause finali delle azioni e, quando le sanno, restano soddisfatti, non avendo alcuna ragione di chiedersi altro. Ma se non possono conoscerle apprendendole da altri, non resta loro che di volgersi in se stessi e di riflettere ai fini dai quali essi sogliono essere deter­minati ad azioni simili; così necessariamente giudicano della mentalità di altri dalla propria. Di più poiché trovano in sè e fuori di sè non pochi mezzi, che servono loro molto a conse­guire ciò che ad essi è utile, come, per es., gli occhi per vedere, i denti per masticare, gli animali e le erbe per nutrirsi, il sole per illuminarli, il mare per nutrire i pesci, ecc.; così avviene che vengono a considerare tutte le cose naturali come mezzi per il proprio utile. E poiché questi mezzi essi li hanno trovati, non fatti, di qui trassero argomento a credere che vi sia qualche altro che ha disposto questi mezzi per il loro uso. Infatti non hanno potuto credere, dopo d’aver considerato le cose come mezzi, di averle fatte essi medesimi; ma dovettero concludere, dai mezzi che essi sono soliti a procurarsi da sè, che vi è uno 0 più reggenti la natura, dotati della libertà che hanno gli uomini, che hanno procurato loro questi mezzi ed hanno fatto tutto per l’utile degli uomini. Ed anche della mentalità di questi reggenti, non avendo mai avuto a questo riguardo notizia al­cuna, hanno giudicato partendo dalla propria: onde stabilirono che gli Dei dirigono tutte le cose per il bene degli uomini affine di legarli a sè ed esserne onorati: dal che avvenne che ciascuno, secondo la diversa mentalità, escogitò modi diversi di onorare Dio perchè alla sua volta Dio lo prediligesse fra tutti e diri­gesse la natura al servizio della sua cieca cupidigia e della sua insaziabile avarizia. Così questo preconcetto si trasformò in superstizione e gettò profonde radici negli spiriti: il che fu causa che ciascuno con grande sforzo si applicasse a compren­dere e spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma mentre cer­cavano di mostrare che la natura non fa niente invano (cioè che non serva agli uomini), sembrarono non aver altro scopo che di mostrare che la natura e gli Dei delirano come gli uomini. Vedete a che cosa si è giunti! Fra tante cose utili della natura dovettero trovarne anche non poche dannose, come le tempeste, i terremoti, le malattie, ecc., e per queste stabilirono che esse avvengono per l’ira degli Dei offesi dalle colpe umane verso di essi o dalle mancanze commesse nel culto: e sebbene l’esperienza ogni giorno protestasse e mostrasse con infiniti esempi che i beni e i mali cadono promiscuamente sui giusti e sugli ingiusti, non perciò ristettero dall’inveterato preconcetto: fu loro più facile infatti mettere queste cose fra le altre cose di cui ignoravano l’utilità e così restare nel presente ed innato stato d’ignoranza, anziché distruggere tutto quel sistema di pre­giudizi e trovarne un altro. Onde stabilirono per principio che i disegni degli Dei trascendono infinitamente l’intelligenza umana: ciò che sarebbe bastato a tenere in perpetua ignoranza il genere umano, se la matematica, la quale si occupa non dei fini, ma delle essenze e proprietà delle figure, non avesse rive­lato agli uomini un altro criterio della verità. Ed a queste si aggiunsero poi ancora altre cause (che qui è inutile enumerare), per cui fu possibile agli uomini discernere questi universali preconcetti ed avviarsi alla vera conoscenza delle cose. (Et., I, Append.).

Spinoza si propone in appresso di mostrare la va­nità di questa concezione. Con essa si pone come più imperfetto ciò che Dio produce immediatamente (perchè non è che mezzo), mentre invece è più perfetto: si nega la stessa perfezione di Dio, perchè gli si attribuisce il bisogno d’un fine esterno; anche la distinzione scolastica tra il finis indigentiæ (finalità che procede da un vero bisogno, da un’imperfezione) e il finis assimilationis (finalità che procede dal desiderio di comunicare se stesso, di partecipare la propria perfezione) non serve a togliere al concetto di fine il carattere d’un bisogno, d’una vera deficienza.

Inoltre questa dottrina distrugge la perfezione di Dio: perchè se Dio agisce per un fine, necessariamente desidera qualche cosa che gli manca. E sebbene i teologi e i metafisici distinguono tra il finis indigentiæ ed il finis assimilationis, tut­tavia ammettono che Dio ha tutto fatto per sè e non per le cose da creare: perchè prima della creazione non possono ad­durre nulla, fuori di Dio, che potesse esser fine del suo agire: quindi sono costretti a confessare che Dio era privo di quelle cose in vista delle quali stabilì dei mezzi e le desiderava, com’è evidente. Nè bisogna qui passare sotto silenzio che i seguaci di questa dottrina, i quali vollero far mostra del loro talento nel metter in luce i fini delle cose, per sostenere le loro teorie hanno dovuto ricorrere ad un nuovo mezzo di argomentazione, e cioè la riduzione non all’impossibile, ma all’ignoranza; il che mostra che non vi era per essi altro miglior argomento. Se, per es., una pietra è caduta da un tetto sul capo di qualcuno e l’ha ucciso, essi dimostreranno nel modo seguente che la pietra è caduta per uccidere quest’uomo. Se essa infatti non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, in che modo tante circostanze (chè spesso ve ne concorrono molte) hanno potuto trovarsi per caso riunite? Forse tu risponderai: ciò è avvenuto perchè spirava il vento e l’uomo passava di là. Ma essi urgeranno: perchè il vento soffiava? E perchè l’uomo passava di là? E se tu ancora risponderai: il vento si è levato perchè il giorno prima il mare, essendo il tempo ancora calmo, aveva cominciato ad agitarsi e l’uomo era stato invitato da un amico, essi insisteranno ancora (le domande non hanno fine): perchè il mare era agitato? E perché l’uomo fu invitato? E così non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché tu non ti rifugierai nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza. Così ancora quando ve­dono la struttura del corpo umano, restano attoniti e, poiché ignorano le cause di tanta complicazione, concludono che essa è stata messa insieme non per via meccanica, ma per un’arte divina, soprannaturale, la quale lo ha costituito in modo che l’una parte non offenda l’altra. Donde avviene che chi ricerca le cause vere dei miracoli e cerca di comprendere le cose natu­rali, come scienziato, non di meravigliarsene come uno sciocco, passi qualche volta per un eretico ed un empio e tale sia pro­clamato da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli Dei. Perché questi sanno che, tolta l’ignoranza, è tolta anche la meraviglia, l’unico mezzo che essi hanno per ragio­nare e difendere la loro autorità. (Et., ib.).

In terzo luogo Spinoza mostra come da quest’illu­sione procedono tante altre nozioni (bene, male, ordine, disordine, ecc.), che servono all’uomo ad esplicarsi la natura e che non sono se non enti immaginari, in quanto non esprimono proprietà delle cose reali, ma impressioni nostre, desideri nostri, finzioni nostre in rapporto alle cose.

Dopo esserci persuasi che tutto quello che accade, accade per essi, gli uomini dovettero giudicare che in tutte le cose ciò che vi era di più eccellente era ciò che riusciva loro utilissimo e tenere per ottime tutte quelle cose da cui erano gradevol­mente affetti. Così non hanno potuto fare a meno di formarsi quelle nozioni con cui spiegano la natura delle cose e cioè il bene e il male, l’ordine e la confusione, il caldo e il freddo, il bello e il deforme; e, perchè si giudicano liberi, ne sono sorte anche queste altre nozioni, come la lode e il biasimo, il peccato e il merito. Gli uomini hanno chiamato bene tutto ciò che con­duce al benessere ed alla religione, male ciò che è loro contrario. E siccome coloro che non comprendono la natura delle cose non possono di esse nulla affermare, ma le immaginano soltanto e scambiano l’immaginazione per l’intelletto, così essi, ignari delle cose e di se stessi, credono fermamente che vi sia nelle cose un ordine. Quando infatti esse sono così disposte che, quando ce le rappresentiamo coi sensi, possiamo facilmente immaginarle e quindi ricordarle, le diciamo bene ordinate; e se è il contrario, le diciamo male ordinate o confuse. E poiché a noi sono fra tutte gradite le cose che possiamo facilmente immaginare, perciò gli uomini preferiscono l’ordine alla confusione, come se l’ordine fosse qualche cosa nella natura fuori del rap­porto con la nostra immaginazione. E dicono ancora che Dio creò tutte le cose con ordine e così senza saperlo, riferiscono l’immaginazione a Dio... Quanto alle altre nozioni, non sono altro che dei modi d’immaginare secondo i quali l’immagina­zione è diversamente affetta e tuttavia dagli ignoranti sono con­siderate come i principali attributi delle cose; perchè, come dicemmo, credono tutte le cose fatte per loro e chiamano la natura d’una cosa buona o cattiva, sana o guasta e corrotta secondo che essi ne sono affetti. Per es., se il movimento che i nervi ricevono dagli oggetti sentiti per mezzo degli occhi, è favorevole al corpo, gli oggetti che lo producono sono detti belli; quelli che producono un moto contrario, deformi. Quelli che muovono il senso per le narici sono detti odorosi o fetidi, quelli che lo muovono per la lingua son detti dolci o amari, sapidi o insi­pidi, ecc.; quelli che lo muovono per il tatto sono detti duri o molli, aspri o morbidi, ecc. E quelli che commovono gli orecchi si dice che producono un suono od uno strepito od un’armonia: nel che gli uomini son giunti a tale demenza da credere che anche Dio si diletti dell’armonia. Nè mancano filosofi che cre­dettero i moti celesti generare un’armonia. Le quali cose mo­strano abbastanza come ciascuno giudicasse delle cose secondo le disposizioni del suo cervello o piuttosto prendesse le affezioni dell’immaginazione per realtà. Onde non è meraviglia che siano sorte fra gli uomini tante controversie e che queste abbiano poi condotto allo scetticismo. (Et., ib.).

In questa teoria di Spinoza dobbiamo distinguere più aspetti. In quanto è condanna dell’antropomorfismo volgare, che attribuisce a Dio finalità ed attività sul tipo umano, essa ha perfettamente ragione: i vaniloqui della teodicea volgare spiegano e giustificano l’indigna­zione di Spinoza. Egli ha ancora ragione quando vuole sia esclusa dalla realtà assoluta ogni finalità. Credere che Dio produca il mondo per un puro beneplacito, per un atto di volontà, che poteva anche non essere, è as­surdo: perchè tale volontà e il caso sono una cosa sola (lett. 54). Ma credere che Dio produca il mondo in vista d’un fine è più assurdo ancora: perchè è un sottoporre Dio ad una necessità esteriore, ad una specie di fato (Et., I, 33, scol. 2). L’azione di Dio è un processo eterno che è fine a sè. «L’essere che diciamo Dio o Natura agisce con la stessa necessità con cui esiste... Come dunque non esiste in virtù d’alcun fine, così non opera per alcun fine: esso non ha alcun fine o prin­cipio dell’esistere come dell’agire» (Et., IV, pref.).

Ma da questo non si deve concludere che non vi siano fini e che tutto sia perfetto anche in questo nostro mondo finito. Nel suo sdegno polemico contro le rap­presentazioni superstiziose, Spinoza perde spesso di vista questa distinzione. Se tutto fosse perfetto e neces­sario, anche nella realtà finita, che differenza di valore vi sarebbe ancora tra chi segue la ragione e chi non la segue? Ma questo è un punto sul quale Spinoza dovrà tornare ancora più innanzi.

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