< Etica < Libro Quarto
Questo testo è completo.
Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
IV. - La possibilità della liberazione
Libro Quarto - III Libro Quarto - V

IV. — La possibilità della liberazione.


1) Che cosa ci assicura allora, possiamo qui chiederci, che l’uomo non debba soccombere definitivamente in questo conflitto e così errare senza speranza nel pelago delle passioni? Spinoza qui mostra come l’uomo debba necessariamente per un processo naturale progredire verso la perfezione, cioè verso l’unità con Dio. Egli parte da due principi fondamentali. Il primo è quello espresso nella prop. 18.

Prop. 18. Il desiderio (cupiditas) che nasce dalla gioia a condizioni pari è più forte che il desiderio che nasce dalla tristezza.

Sebbene l’uomo nella sua limitazione sia una potenza trascurabile di fronte alle potenze della natura, tuttavia ha la certezza d’un progresso continuo. Egli non può isolarsi dal commercio con le cose esterne: ora fra queste ve ne sono molte che per la loro natura affine tendono a comporsi in unità con noi, ad accrescere la nostra potenza e la nostra gioia. Le cose contrarie invece non sono vere forze ostili che detraggano effettivamente alla potenza nostra, a ciò che di reale è stato conquistato nell’ascensione verso la perfezione (V. parte terza, III, 2); esse non fanno che arrestarci, richiamarci al senso della nostra impotenza. Quindi la potenza nostra non è una quantità variabile che sia accresciuta dalla gioia e diminuita dalla tristezza: la gioia è un reale accrescimento e si misura dalla nostra potenza, più la potenza della cosa che ne è causa: la tristezza si misura invece dalla nostra sola potenza e non è una reale diminuzione.

Nello scolio alla prop. 18 è anticipato il contenuto delle proposizioni che seguono. Il fine dell’uomo è la esplicazione della propria essenza e potenza: perciò il primo grado di questa è la conservazione del proprio essere e la ricerca del bene individuale: Spinoza sembra qui parlare come un utilitario. Ma la perfezione non s’arresta qui, non è confinata nell’unità fisica dell’individuo: questo non è che il primo grado d’un’ascensione verso l’identificazione con un’unità più vasta. Un grado più alto è l’unificazione con i propri simili in una società: la quale non è più una fruizione egoistica dell’individuo e tuttavia non ne è un annullamento, ma è lo sviluppo di ciò che vi ha di più reale e profondo nell’individuo stesso. Quindi il conatus sese conservandi non s’arresta all’egoismo individuale, ma trova la sua più vera realizzazione in tutto lo svolgimento della vita razionale.

Poichè la ragione non esige nulla contro la natura, esige essa medesima che ciascuno ami sè e l’utile suo, cerchi il vero utile, desideri tutto ciò che conduce veramente l’uomo ad una maggior perfezione, insomma che ciascuno, per quanto è in lui, si sforzi di conservare l’essere suo. Il che è così necessariamente vero, come è vero che il tutto è maggiore delle parti. Inoltre, poichè la virtù non è altro che l’agire secondo le leggi della propria natura e nessuno cerca di conservare l’essere suo se non per le leggi della sua stessa natura, ne segue in primo luogo che il fondamento della virtù è lo stesso sforzo di conservare l’essere proprio e la felicità consiste nel poter conservare l’essere proprio; ne segue in secondo luogo che la virtù deve essere desiderata per sè, nè vi è altra cosa più eccellente e più utile per amor della quale essa debba venir desiderata. (Et., IV, 18, scol.).

La differenza tra la vera virtù e l’impotenza sta quindi in questo: che la vera virtù non è altro se non il vivere secondo la guida della ragione; e l’impotenza consiste nel lasciarci condurre dalle cose che sono fuori di noi e nel lasciarci da esse determinare a far ciò che esige, non la nostra stessa natura in sè considerata, ma la costituzione comune delle cose esterne. (Et., IV, 37, scol.).

Il secondo principio è quello espresso nella prop. 19.

Prop. 19. Ciascuno per legge di sua natura necessariamente appetisce o respinge ciò che giudica bene o male.

La natura dell’uomo è tendenza verso ciò che è fonte di gioia, causa di accrescimento dell’essere suo. L’uomo non può, in altre parole, pronunziarsi indifferentemente per il bene o per il male, per l’unità o per la dispersione: ma è esso stesso nella sua più profonda natura un tendere verso il bene, verso la potenza, verso l’unità.

La virtù consiste adunque in primo luogo nel cercare il proprio utile, cioè nell’accrescere l’essere proprio: l’esistere e la conservazione dell’esistenza sono il primo fondamento della perfezione (prop. 20-22).

Prop. 21. Nessuno può desiderare d’essere felice, di bene operare e di bene vivere che non desideri nello stesso tempo di essere, di operare e di vivere, cioè di esistere in atto.

Prop. 22. Nessuna virtù può essere prima di questa (cioè del tendere alla propria conservazione).

Come è possibile allora il suicidio? Dato il parallelismo della mente e del corpo, la distruzione del corpo non è una distruzione di tutto l’essere? Questa difficoltà si connette con la teoria dell’immortalità. Spinoza disapprova il suicidio come una debolezza (Et., IV, 18, scol.): ma sembra considerarlo come un semplice mutamento di forma: circostanze esteriori possono far sì che l’uomo si spogli della forma presente ed «aliam naturam priori contrariami induat» (prop. 20, scol.).

2) Nelle prop. 23-28 Spinoza come il progresso ulteriore nella potenza sia progresso nella conoscenza e nella vita secondo ragione.

Prop. 23. L ’uomo, determinato ad operare in quanto ha idee inadequate, non può dirsi in senso assoluto che agisca per virtù; ma solo se è determinato in quanto intende.

Prop. 24. Agire in senso assoluto per virtù non è altro in noi che agire, vivere e conservare l’essere proprio secondo la guida della ragione (tre parole che significano la stessa cosa) sul fondamento della ricerca dell’utile proprio.

Prop. 26. Tutto ciò che ricerchiamo secondo la ragione non è che l’intendere: nè la mente, in quanto segue la ragione, giudica essere a sè utile altro se non ciò che conduce all’intendere.

Prop. 28. Il bene della mente è la conoscenza di Dio e la suprema virtù della mente sta nel conoscere Dio.

Per virtù Spinoza intende la potenza dell’umana natura, il conatus sese conservandi che ne costituisce l’essenza. Ora poiché in ogni azione umana vi è un nucleo di realtà e di attività, vi è in essa qualche virtù: e tanto più virtuoso ci apparirà l’uomo, quanto più intenso è in lui questo conatus verso la pienezza del l’essere suo. Ma un’azione sarà assolutamente virtuosa solo quando sia una pura manifestazione dell’essenza, un’attività pura. Ora procedere pienamente dalla potenza d’un essere ed essere esplicabile dalla natura di questo essere, procedere logicamente dalla sua idea sono per Spinoza una sola cosa: agire virtuosamente è quindi agire in modo che l’agente possa intendere tutta la sua attività: ciò che certamente implica una perfetta conoscenza dell’essere proprio nella sua unità con le cose e con Dio. Agire virtuosamente è quindi agire comprendendo, svolgere un’attività razionale, ex ductu rationis agere. Il che è pur sempre un agire nel proprio interesse bene compreso: qui Spinoza ribadisce la conciliazione del ex ductu rationis vivere e del suum utile quærere. Il conatus sese conservandi è quindi da Spinoza definitivamente ridotto al conatus intelligendi: «est igitur mentis absoluta virtus intelligere». L’uomo pone come bene tutto ciò che in lui favorisce la conoscenza razionale, che è anche certezza; chi intende, non solo ha il vero bene, ma ha la certezza di possedere il vero bene. Il grado più alto della vita razionale è la conoscenza perfetta della ragione, la conoscenza della totalità nella sua unità, la conoscenza di Dio.

3) Con la prop. 29 comincia un nuovo argomento. Spinoza mostra qui come la moralità (cioè l’insieme delle virtù che rendono possibile la convivenza sociale) si concilii con l’ideale della conoscenza di Dio ed anzi sia con la medesima necessariamente connessa. L’uomo può entrare in rapporto solo con ciò che ha con esso qualche cosa di comune (prop. 29). Si capisce quindi che ciò che non ha nulla di comune con l’uomo (per es., i modi degli attributi a noi ignoti) non possa essere per lui nè bene nè male. Le cose che hanno con noi qualche cosa di comune sono per noi un bene per ciò che hanno di comune, in quanto almeno in questo il loro sè ed il nostro sono una cosa sola. Quanto più di comune con noi ha una cosa, tanto più è bene: il bene assoluto è ciò che ha tutto comune con noi, è la sostanza la cui unità nega le fittizie separazioni degli esseri (proposizioni 30-31).

Prop. 31. In quanto una cosa coincide con la nostra natura, in tanto è necessariamente un bene.

In che cosa possono essere contrarie le cose allora? Non nella sostanza, natura, potenza che è o diversa, ed allora indifferente, o comune; ma nella determinazione, nella negazione, che è limitazione (fittizia) contro gli altri esseri, esclusione. Perciò nulla vi è di realmente contrario: la contrarietà degli esseri è fondata solo sull’opposizione della loro individualità fittizia, per la quale nasce anche l’apparenza d’una coercizione, d’un patire da parte degli altri esseri (v. libro terzo, III, 2). Perciò la passione divide gli uomini: anche gli uomini animati dalle stesse passioni sono divisi perchè la passione non è comunione di natura (prop. 32-34). Invece gli uomini agendo secondo ragione debbono necessariamente accordarsi.

Prop. 34. In quanto gli uomini sono travagliati dalle passioni, in tanto possono essere fra loro contrarii.

Prop. 35. In quanto gli uomini vivono secondo ragione, in tanto solamente convengono necessariamente nella loro natura.

L’agire degli uomini, il giudicare del bene e del male dipende dalla perfezione del loro conoscere: ora quando la conoscenza è secondo ragione, non può che essere necessaria ed obbiettivamente valida per tutti. Quindi è possibile un criterio solo per tutti nel giudicare del bene e del male e così in fondo una sola volontà. La ragione unisce gli uomini, e quest’unità della ragione e della volontà è il fondamento dell’unità, necessaria di tutte le volontà buone. Perciò nulla è più utile all’uomo dell’uomo che vive secondo ragione.

Prop. 35, Coroll. I. Non v’è alcuna cosa singola nella natura che sia più utile all’uomo dell’uomo che vive secondo ragione. Perchè ciò che è più utile all’uomo è ciò che più si accorda con la sua natura, cioè l’uomo. Ma l’uomo agisce in modo assoluto secondo le leggi della sua natura quando agisce secondo ragione: e solo in questo rispetto s’accorda sempre necessariamente con la natura d’un altro uomo. Quindi tra le cose singole non v’è nulla all’uomo di più utile che l’uomo il quale vive secondo ragione.

Scolio. Ciò che abbiamo ora mostrato lo mostra anche l’esperienza ogni giorno con tanti e sì luminosi esempi, che è quasi proverbiale il detto: l’uomo è per l’uomo un Dio. Raro accade che gli uomini vivano secondo ragione: la loro natura è tale che per lo più sono l’uno all’altro invidiosi e molesti. E tuttavia non sono capaci di condurre vita solitaria; onde la definizione corrente che l’uomo è un animale socievole. E infatti le cose stanno in modo che dalla società degli uomini vengono all’uomo molto più vantaggi che danni. Deridano perciò, quanto vogliono, i satirici le cose umane, tuonino contro di esse i teologi e lodino quanto possono gli ipocondriaci la vita semplice ed agreste, disprezzino gli uomini e lodino gli animali: tuttavia dovranno riconoscere che gli uomini col reciproco aiuto possono procurarsi molto più facilmente le cose di cui hanno bisogno e che soltanto con l’unione delle loro forze possono far fronte ai pericoli che da ogni parte li minacciano.

Molte cose fuori di noi ci sono utili e perciò sono desiderabili. Ma fra tutte le più eccellenti sono quelle che più si accordano con la nostra natura. Poichè se due individui della stessa natura si uniscono fra loro, compongono un individuo doppiamente potente di ciascun singolo. Nulla è perciò più utile all’uomo dell’uomo: niente, io dico, possono gli uomini desiderare di più eccellente per la conservazione dell’essere proprio se non che tutti convengano fra loro in tutte le cose, sì che le anime ed i corpi compongano quasi un’anima ed un corpo solo e tutti insieme, cercando di conservare l ’essere proprio, cerchino nello stesso tempo l’utile comune di tutti: onde segue che gli uomini governati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano secondo ragione l’utile proprio, non desiderano per se nulla che non desiderino anche gli altri uomini e così siano uomini giusti, fedeli, onesti. (Et., IV, 18, scol.).

Il bene supremo degli uomini che vivono secondo ragione è l’unità stessa dell’essere loro nella ragione, è la loro comune e perfetta essenza, Dio. Gli uomini che vivono secondo ragione non possono quindi non essere uniti nella loro volontà. E siccome lo sforzo comune giova qui allo sforzo di ogni singolo, ogni singolo sarà naturalmente interessato a convertire alla causa del bene anche gli altri uomini: qui desiderare il bene proprio è desiderare l’altrui, desiderare l’altrui è desiderare il proprio.

Prop. 36. Il sommo bene di quelli che seguono la virtù è comune a tutti e tutti possono goderne egualmente.

Prop. 37. Ciascuno di quelli che seguono la virtù desidera anche per gli altri uomini il bene che egli persegue e ciò tanto più quanto maggiore è la conoscenza che egli ha di Dio.

Ben altra perciò è verso gli uomini la condotta di chi segue la ragione e quella dell’ambizioso.

Chi per sola passione si studia che gli altri amino ciò che egli ama e vivano secondo la volontà sua, agisce per violenza e quindi si rende odioso, specialmente a quelli che hanno altre tendenze e che perciò anch’essi si studiano e con la stessa passione si sforzano affinchè gli altri vivano secondo la volontà loro. Siccome inoltre il bene supremo che gli uomini desiderano con la passione è tale spesso che uno solo può goderne, avviene che coloro i quali amano un bene non siano bene in accordo con sè, in quanto, mentre tessono le lodi di ciò che amano, hanno paura di essere creduti. Ma chi cerca guidare gli altri secondo ragione agisce non violentemente, bensì con umanità e benignità ed è perfettamente in pace con se stesso. (Et., IV, 37, scol.).

Nello scol. 2 alla prop. 37 Spinoza accenna alle sue teorie sul diritto e mostra come lo stato e la giustizia siano mezzi di elevazione verso la razionalità. In origine per l’uomo exlege il diritto coincide con la potenza fisica, la forza: la quale, per quanto apparisca illimitata, non ristretta da leggi, è in fondo ben minore di quella dell’uomo razionale, che vive secondo le leggi. «L’uomo che vive secondo ragione è più libero nello stato sotto leggi comuni che nella solitudine, dove obbedisce a sè solo» (Et., IV, 73). Il passaggio dallo stato exlege alla civitas avviene per interesse e per paura: soltanto allora sorge il vero e proprio diritto (in opposizione alla forza) e la distinzione fra giusto ed ingiusto.

Esiste ciascuno pel sommo diritto di natura e quindi pel sommo diritto di natura ciascuno opera quelle cose che seguono dalla necessità dell’essere suo: quindi pel sommo diritto di natura ciascuno giudica del bene e del male, provvede all’utile suo secondo che gli piace, si difende, cerca di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che odia. Se gli uomini vivessero secondo ragione, ciascuno farebbe valere questo suo diritto senza danno altrui. Ma poichè sono soggetti alle passioni, che superano di gran lunga la potenza umana, perciò sono tratti in varie parti e contrarii fra loro, mentre avrebbero bisogno del reciproco aiuto. Affinchè pertanto gli uomini possano vivere in concordia ed essere a sè di vicendevole aiuto, è necessario che rinunzino al proprio diritto naturale e si assicurino a vicenda di non fare più nulla che possa riuscire altrui di danno. In qual maniera possa avvenire questo, in qual maniera cioè gli uomini, che sono necessariamente schiavi delle passioni, incostanti e varii, possano darsi a vicenda assicurazione e avere reciproca fiducia, appare dalle proposizioni IV, 17, e III, 39. E cioè sì spiega con questo, che nessuna passione può essere domata se non con una passione contraria e più forte e che ciascuno si astiene dal recare danno altrui per paura d’un danno maggiore. A questo patto potrà dunque stabilirsi la società, che essa arroghi a sè il diritto, che ciascuno primitivamente possiede, di tutelarsi e di giudicare del bene e del male; in modo che essa abbia facoltà di imporre una maniera comune di vivere, di far leggi e dì tutelarle non con la ragione, la quale non può domare le passioni, ma con minaccie.

Una simile società fondata sulle leggi e sul potere di conservarsi, si dice stato e quelli che sono tutelati dal diritto sta tale, cittadini: dal che facilmente comprendiamo non esservi nulla nello stato naturale che sia per comune consenso bene o male, in quanto ciascuno, nello stato naturale, pensa solo al suo vantaggio e di arbitrio suo, tenendo solo conto dell’utile suo, decide del bene e del male e non è obbligato per legge ad obbedire a nessuno se non a sè solo. Ed il peccato non è che una disobbedienza, che soltanto il diritto dello stato può punire; come il merito è l’obbedienza del cittadino, che per essa è giudicato degno di godere dei vantaggi dello stato. Inoltre nello stato naturale nessuno è per comune consenso padrone di cosa alcuna, nè vi è nella natura alcunché che possa dirsi di quest’uomo e non di quello: ma tutto è di tutti: e perciò nello stato naturale non può concepirsi alcuna volontà di dare a ciascuno il suo o di togliere ad alcuno il proprio: cioè nello stato naturale non avviene nulla che possa dirsi giusto od ingiusto: il giusto e l’ingiusto compaiono soltanto con lo stato civile, nel quale per comune consenso si decide che cosa sia dell’uno e che cosa dell’altro. (Et., IV, 37, scol. 2).

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.