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V. — Dalle passioni alla ragione.
1) Con la prop. 38 comincia una specie di trattato di morale applicata; nella prima parte (prop. 38-58) Spinoza esamina le passioni, dalle quali deve guardarsi chi vuole progredire verso la perfezione.
Anzitutto per vivere la vita dell’intelligenza bisogna esistere ed esistere nelle migliori condizioni per la vita superiore: quindi sarà un bene tutto ciò che conserva la nostra personalità fisica e ne svolge le attitudini: e un bene è anche la convivenza sociale che favorisce il vivere secondo ragione (prop. 38-40).
Quali sono la gioia e la tristezza che convengono a chi mira alla saggezza? La gioia per sè è sempre un bene, come la tristezza è per sè sempre un male (proposizione 41). Specialmente è un bene quella gioia (che Spinoza dice hilaritas), la quale promove tutte le parti dell’essere nostro: mentre può essere un male quando (Spinoza la chiama allora titillatio) si riferisce solo ad una parte dell’essere nostro e può quindi essere un male per le altre parti. E così per contro è sempre un male la tristezza di tutto l’essere nostro (melancholia): può essere un bene la tristezza parziale (dolor), in quanto può essere utile alle altre parti (prop. 42-43). Vero è che la maggior parte delle gioie umane sono delle titillationes e perciò condannabili.
La hilaritas che ho detto essere un bene è più facile a descriversi che ad osservarsi. Perchè le passioni che ci agitano si riferiscono per lo più ad una parte sola del corpo, che è affetta di preferenza alle altre onde le passioni hanno per lo più dell’eccessivo ed arrestano la mente nella considerazione d’una sola cosa, in modo che non può più pensare ad altro: e sebbene gli nomini siano soggetti a molte passioni e rari siano coloro che sono sempre agitati da una passione sola, non mancano tuttavia di quelli che sono ostinatamente travagliati da un’unica passione. Vediamo infatti gli uomini essere talora affetti talmente da un solo oggetto, da credere di averlo sempre presente anche se ciò non è; il che quando avviene all’uomo durante la veglia è detto delirio e pazzia; come sono giudicati pazzi e destano il riso gli innamorati che giorno e notte non fanno che sognare la donna amata. Ma quando l’avaro non pensa ad altro che al guadagno e al denaro e l’ambizioso alla fama, ecc., questo non è chiamato delirio solo perchè questi sogliono essere molesti e son giudicati meritevoli di essere odiati. (Et., IV, 44, scol.).
Ma quando la gioia è vera e sana, essa è per l’uomo un bene: Spinoza condanna l’ascetismo che esalta la sofferenza e odia le gioie della vita. {nop}}
Soltanto una torva e triste superstizione vieta la gioia. Perchè se è lecito saziare la fame e la sete, perchè non deve esser lecito cacciare da sè la tristezza? Nessun dio, nessun essere, se non invidioso, può godere della mia debolezza e del mio soffrire e farmi un merito delle lacrime, dei singhiozzi, delle paure e di altri simili segni di debolezza; mentre per contro quanto maggiore è la gioia, tanto maggiore è la perfezione cui ci eleviamo, ossia tanto più partecipiamo della natura divina. Il sapiente si servirà perciò delle cose e, per quanto è possibile, ne godrà (non fino al disgusto, perchè ciò non è più godere). Egli si ristorerà con cibi e bevande di suo gradimento con moderazione, si ricreerà con i profumi, con la bellezza delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, la musica, gli esercizi, i teatri e cose simili, delle quali ciascuno può godere senza recar danno agli altri. Poiché il corpo umano è composto dì moltissime parti di diversa natura, che hanno continuamente bisogno di alimento nuovo e vario, affinchè il corpo possa essere ugual mente atto a tutte le cose che possono procedere dalla sua natura e quindi anche la mente sia egualmente atta a comprendere una grande quantità di cose. (Et., IV, 45, scol.).
Così l’odio, che è dolore, è sempre un male: l’uomo virtuoso non odia, ma risponde all’odio con la generosità e con l’amore.
Prop. 45. L ’odio non può mai essere un bene.
Prop. 46. Chi vive secondo ragione si sforza, per quanto può, di corrispondere all’odio, all’ira e al disprezzo degli altri con l’amore e con la generosità.
Scolio. Chi vuol vendicare le ingiurie ricambiandole con odio vive ben miseramente. Ma chi per contro si studia di vincere l’odio con l’amore, colui combatte lieto e sicuro, resiste con egual facilità ad uno ed a molti e non ha bisogno dell’aiuto della fortuna.
2) Nelle prop. 47-58 Spinoza esamina le passioni derivate. In linea generale bene è tutto ciò che è causa d’una gioia reale, che è accrescimento di realtà, male è ogni tristezza, se non è compensata da una gioia maggiore che ne sia l’effetto. Un bene sono perciò la benevolenza equilibrata e la serenità (acquiescentia in se ipso), che è il massimo dei piaceri cui possiamo aspirare: una passione buona è anche la gloria, la compiacenza interiore per la buona opinione che gli altri hanno di noi (prop. 51, 52, 58). Un male sono invece la vanagloria e la superbia, sebbene passioni derivanti dalla gioia, per il loro carattere parziale ed eccessivo.
La vanagloria è un compiacimento di sè nutrito dalla sola opinione del volgo: cessata la quale, cessa anche il compiaci mento di sè, cioè quel sommo bene che ciascuno ama: onde avviene che chi si compiace del favore del volgo faccia ogni giorno ansiosamente tutti gli sforzi e tutte le prove per conservarselo. Perchè il volgo è vario e mutevole e quindi la fama, non sostenuta, presto svanisce: ed ancora siccome tutti cercano di captare il plauso del volgo, facilmente l’uno eclissa la fama dell’altro: onde, trattandosi di quello che è giudicato il sommo bene, nasce una cupidigia sfrenata di abbassarsi a vicenda l’un l’altro in qualunque modo: e chi infine riesce vincitore si gloria più del male fatto ad altri che del bene fatto a sè. È pertanto questa gloria o acquiescentia veramente vana, perchè non è nè gloria nè acquiescentia. (Et., IV, 58, scol.).
Ma la passione più funesta è per Spinoza la superbia che è un «de se plus justo sentire» od anche un «de reliquis minus justo sentire». Il superbo è necessariamente duro ed invidioso, specialmente contro quelli che hanno un reale valore: è benigno solo con i parasiti e gli adulatori.
Prop. 57. Il superbo ama la presenza dei parasiti e degli adulatori, odia quella dei generosi.
Chi ben sa che tutto procede dalla necessità della natura divina e tutto avviene secondo le leggi e le regole eterne della natura, non troverà nulla degno di odio, di derisione e di sprezzo: nè si impietosirà di alcuno, ma per quanto può la potenza umana, cercherà di fare il bene con gioia. Si aggiunga che chi è toccato facilmente dalla pietà ed è commosso dalle miserie e dalle lacrime altrui, spesso fa cose delle quali poi si pente: sia perchè, agendo per passione, non discerne con certezza il bene, sia perchè così è facilmente ingannato dalle false lacrime. Ma si badi che io qui parlo dell’uomo che vive secondo ragione. Perchè chi non è mosso nè dalla ragione, nè dalla pietà ad aiutare gli altri, può ben esser detto disumano, perchè non ha più nulla dell’uomo. (Et., IV, 50, scol.).
Così condanna l’umiltà (humilitas), il pentimento (pœnitentia), la vergogna (pudor), l’avvilimento (abiectio) che, in quanto passioni dolorose, non sono secondo ragione. Però anche Spinoza riconosce in queste passioni (come nella pietà) un inizio di bontà; sono passioni che, sebbene per sè non assolutamente buone, però predispongono alla vita secondo ragione.
Poiché gli uomini raramente vivono secondo ragione, perciò queste due passioni, l’umiltà e il pentimento — e oltre a queste la speranza e la paura — sono più di vantaggio che di danno: onde, se mancare bisogna, meglio è mancare in questo senso. Poiché se gli uomini dall’animo schiavo fossero tutti egualmente superbi, senza vergogna e senza paura, come potrebbero essere frenati e stretti con obblighi? Il volgo è terribile, quando non teme: onde non è meraviglia che i profeti, i quali ebbero di mira il bene di tutti e non di pochi singoli, abbiano tanto lodato l’umiltà, il pentimento, il rispetto. E invero quelli che sono capaci di questi sentimenti si possono guidare molto più facilmente che gli altri a vivere secondo ragione, cioè ad essere liberi ed a godere della vita beata. (Et., IV, 54, scoi.).
Ciò che si deve dire circa la vergogna si desume da ciò che sì è detto circa la pietà e il pentimento. Aggiungo solo che anche la vergogna, come la pietà, sebbene non sia una virtù, è tuttavia un bene in quanto rivela nell’uomo, che si vergogna, il desiderio di vivere onestamente: come il dolore è buono in quanto indica che la parte offesa non è ancora in cancrena: onde sebbene chi si vergogna sia in realtà triste è tuttavia più perfetto dell’impudente che non ha nessun desiderio di vita onesta. (Et., IV, 58, scol.).