< Eugenio Anieghin
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Aleksandr Sergeevič Puškin - Eugenio Anieghin (1825)
Traduzione dal russo di Louis Delâtre (1856)
Capitolo Sesto
Capitolo Quinto Capitolo Settimo

CAPITOLO SESTO.

Là sotto giorni nebulosi e brevi
Nasce una gente cui il morir non dole.

Petrarca.

Accortosi della disparizione di Lenschi, Anieghin, contento della sua vendetta, divenne pensoso e astratto. Olga, sbadigliando con lui, cerca Vladimiro e l’eterno cotillon le viene a noia. Ma questo finisce. Si va a cena. Si apprestano i letti. Tutta la casa, dal vestibolo sino alla soffitta, è trasformata in un dormitorio per gli ospiti. Tutti sentono il bisogno d’un placido sonno. Il solo Eugenio andò a riposare sotto il proprio letto.

Quiete generale. Il pingue Pustiacoff russa nel salotto colla sua pingue sposa. Gvosdin, Buianoff, Petuscoff e Flianoff, il quale soffre d’una piccola indisposizione, si sono coricati sopra le sedie della sala da pranzo, e Monsieur Triquet col suo giubbettino e un vecchio berretto da notte s’è sdraiato per terra. Le signorine occupano le camere di Olga e di Taziana. Ma questa infelice, puntellata a una finestra, per la quale rifulge la luna, sta spiando intorno l’oscura campagna.

La venuta insperata di Eugenio, l’insolita tenerezza dei suoi sguardi, il suo trattare strano verso di Olga, son tante spine che stimolano la curiosità di Taziana, tanti enimmi che confondono il suo intelletto. Le sembra che una mano di ghiaccio le prema il cuore; le sembra che sotto ai suoi passi si spalanchi e muggisca un abisso. “Io perirò,” essa esclama: “ma perire per suo volere mi è dolce. Io non me ne lagno; perchè mi lagnerei? Egli non può farmi felice.”

Cammina, cammina, istoria mia! Un nuovo personaggio entra in scena. A cinque verste1 della villa di Lenschi, chiamata Crasnogora, viveva e vive tuttora un certo Zarieschi, già famoso tribuno delle bettole e capo d’una combriccola di barattieri e di furfanti; ora campagnolo semplice, e buono, ottimo padre (benchè celibe), amico fidato, possidente pacifico e galantuomo — tanto è vero che il secolo megliora! — La voce lusinghiera della fama lodava il suo coraggio tremendo. Colla sua pistola egli toccava un asse alla distanza di cinque sagene.2 Aggiungeremo però, che un giorno in un combattimento, essendo ubriaco come uno svizzero, tombolò da cavallo nella mota, e restò prigioniero dei Francesi; prezioso ostaggio! Emulo d’Attilio Regolo, si sarebbe volentieri rassegnato a una nuova prigionia in Parigi, per poter ancora trangugiare, ogni mattina, da Very,3 tre bottiglie di vino di Borgogna. Altre volte egli sapeva motteggiar con spirito, trappolare i balordi, e sbalordire i furbi, apertamente o sotto mano. Ma le sue burle non restarono sempre impunite, e anch’egli talvolta si lasciò infinocchiare come un babbione. Sapeva discutere con brio, replicare con sagacità o con melensaggine; sapeva tacere a proposito, e ciarlare a proposito; sapeva inimicare due giovani amici, farli sfidare in duello, e poi riconciliarli affin di pranzare in tre, e quindi disonorarli con qualche . Sed alia tempora! La temerità passa colla gioventù, come il sogno dell’amore, quell’altra baronata. Il mio Zarieschi, come già dissi, si ricoverò dalle burrasche del mondo sotto l’ombra dei ciriegi e delle acazie. Lì viveva da vero filosofo, piantava cavoli come Orazio, nutriva anatre ed oche, e insegnava l’A. B. C. ai bambini.

Non era sciocco. Eugenio non stimava il di lui carattere, ma apprezzava il suo giudizio e le sue riflessioni intorno agli uomini e alle cose. Si frequentarono un tempo con piacere. Sicchè non fu meravigliato di vedere un mattino Zarieschi entrar in camera sua. Dopo i complimenti usuali, Zarieschi interrompendo la conversazione che stava per intavolarsi, e accennando cogli occhi, consegnò a Eugenio un biglietto di Vladimiro. Anieghin si trasse alla finestra e lesse a bassa voce.

Era una gentile, nobile, e corta sfida, o un cartello. Lenschi, garbatamente e freddamente, invitava Eugenio a battersi con lui. La prima mossa d’Eugenio fu di dire al messaggero senza altra spiegazione ch’egli era sempre pronto. Zarieschi non volle star di più; s’alzò in silenzio, e se ne tornò a casa ove aveva molto da fare. Ma Eugenio, abbandonato alle proprie riflessioni, fu mal contento di sè stesso e non senza motivo. Fece un severo esame della sua coscienza, e si trovò colpevole in molti riguardi. In primo luogo, aveva dileggiato con troppa crudeltà un amore timido e sincero; in secondo luogo, aveva spinto il poeta a far delle balordaggini; malizia appena perdonabile ad uno scapestrato di diciotto anni. Eugenio, che amava Lenschi di tutto cuore, dovea in quell’occorrenza mostrarsi non quale servo dei pregiudizi del mondo, non quale spadaccino scervellato, ma qual uomo di senno e d’onore. Dovea palesare i suoi sentimenti, e non incollerirsi come belva; doveva disarmare quella suscettività giovanile. “Ma ora è troppo tardi,” diceva; “il colpo è fatto. Un duellista per mestiere si è ingerito in questa faccenda, è maligno, è imbroglione, gran parlatore. Certo, potrei rispondere ai suoi dileggi col disprezzo; ma il mormorío, il sogghigno degli ignoranti?...” Ecco l’opinione pubblica! Il puntiglio è la molla che ci fa agire, è il pernio sul quale gravita il mondo.

Acceso d’una ira infrenabile, il poeta aspetta in casa la risposta, Il suo eloquente vicinante gliela arreca in trionfo. Che festa per il geloso! Temeva che il suo antagonista non la scappasse con qualche pretesto; non sottraesse, con qualche stratagemma, il suo petto alle palle. Adesso ogni dubbio è tolto. Domani all’alba, essi si incontreranno presso al molino; caricheranno le loro pistole, e spareranno alle gambe o alla testa.

Lenschi, determinato a fuggire Olga ch’egli considerava ormai come una civetta, non voleva vederla prima del combattimento. Guardò all’oriuolo e al sole, gesticolò, declamò, e si recò quindi dalle sue vicine. Credeva di confondere Olga, e di sorprenderla colla sua venuta; ma sbagliava. Olga scese, come prima, dal verone per andargli incontro, leggera, graziosa, allegra come la speranza, e niente mutata da quel ch’era antecedentemente.

“Perchè ve n’andaste tanto presto ieri sera?” chiese Olga.

A quella domanda, Lenschi senti cadere tutto il suo furore, se ne stette colla bocca chiusa, e si grattò il naso. La gelosia, il dispetto, la rabbia, sparirono davanti a quello sguardo sereno, a quel contegno ingenuo, quella voce espressiva. Egli contempla Olga con occhio di compassione; vede che è ancora amato! Già il pentimento lo assale; sta per implorar perdono; trema, non trova le parole...... è felice.... è quasi guarito.

Cogitabondo, abbattuto, Vladimiro non ha la forza di ricordare alla fanciulla gli eventi della precedente sera. “Io sarò,” egli pensa, “il di lei liberatore; non soffrirò che un seduttore cerchi di perdere quel giovine cuore, coll’èsca delle lodi e delle lusinghe. Non tollererò che un verme impuro e velenoso roda lo stelo di quel giglio candido, nè che quel fiore mattutino mezzo sbocciato s’appassisca all’alito del vizio.” Tutto ciò significava, amici miei: son risoluto di battermi coll’amico.

Oh se avesse sospettato qual piaga ulcerava il cuore della mia Taziana! Se Taziana avesse potuto prevedere che l’indomani Eugenio e Vladimiro dovevan contendersi l’asilo del sepolcro! Chi sa? Le di lei premure avrebbero forse rappattumato i due rivali. Ma nessuno fino ora s’è accorto nemmen per sogno di questa passione. Anieghin non parla più di nulla; Taziana languisce in silenzio; la balia sola avrebbe potuto indovinar tutto, ma non è gran fatto perspicace.

Tutta la sera, Lenschi fu ora raccolto in sè, ora espansivo e lieto; ma gli alunni delle Muse sono sempre così. Coi capelli arruffati egli siede al suo cembalo, e prova alcuni accordi. Poi volgendo gli occhi ad Olga esclama: “Io son felice, non è vero? È tardi. Convien che io parta.” Intanto soccombe dall’angoscia. Nel dire addio alla fanciulla gli par di sentirsi strappare il cuore. Essa lo mira in viso: “Che avete?” grida. “Niente,” egli risponde e raggiunge la porta.

Tornato a casa, esamina le pistole, le ripone, si spoglia, e apre un volume di Schiller. Ma sempre lo stesso pensiero l’opprime, e l’impedisce di dormire. Scorge davanti a sè Olga adorna d’una bellezza ineffabile. Chiude il libro; prende una penna e scrive currenti calamo alcuni versi pieni d’amorose inezie, ma sonori e dolci. Poi, nel suo entusiasmo lirico, se li rilegge ad alta voce. Per fortuna questi versi mi sono caduti fra mano; eccoli.

       Dalla fortuna oppresso
            Aspetto impazïente il dì venturo.
            Parla, o sfinge crudel, tetro futuro:
            Mi cingerai d’alloro o di cipresso?
            Mi sta sul capo, un ferro o un fior, sospeso?
            Cadrò trafitto da letal saetta
            Oppur dal gran cimento escirò illeso?
            Qualunque sia la sorte che m’aspetta
            Io dirò rassegnato e disdegnoso:
            Benedetta la veglia e benedetta
            L’ora del gran riposo.
            Forse, questa sarà l’ultima guerra
            Del rio destin che bersagliar mi suole.
            Domani riderà, come oggi, il sole,
            E canterà la terra;
            Ma privo ormai d’udito e di veduta
            Nulla udrò nè vedrò. Dai vivi scisso,

            Ombra squallida e muta,
            Spazierò per le tenebre d’abisso.
            Divorerà il mio nome il ceco oblio:
            Ma tu, casta colomba,
            Forse a sparger verrai di tanto in tanto
            Qualche stilla di pianto
            Sulla precoce e solitaria tomba;
            E dirai sospirando: «Egli fu mio:
            A me sola sacrò la cetra, il cuore,
            E dei begli anni il fiore....»
            E mi ripeterai l’ultimo addio.


Son questi i versi intralciati e scipiti ch’egli detto. Un critico li chiamerebbe romantici; io però non so vederci cica di romanticismo; ma lasciamo stare. Verso l’alba, chinò la testa stanca, e s’addormentò pensando all’ideale. Parola alla moda! Ma aveva appena socchiuso le ciglia, quando il suo vicinante entrò nella stanza e lo destò dicendo: “Su, su, son battute le sette. Anieghin già ci aspetta, di certo.”

Zarieschi errava. Eugenio dormiva ancora profondamente. Le ombre della notte si diradano, il gallo canta lo spuntar dell’aurora, il sole ascende l’erta pendice del cielo, i fiocchi di neve luccicano e volano in giro, ma Eugenio non è ancora escito dal letto. Finalmente tira le cortine, guarda, e s’accorge che già da gran tempo avrebbe dovuto trovarsi sul campo. Suona il campanello. Il suo cameriere francese Guillot accorre in fretta, gli porge la veste da camera, le pantofole e la camicia. Anieghin si abbiglia, ordina a Guillot di prepararsi ad accompagnarlo colla scatola delle pistole. La slitta è pronta. Monta e vola al molino. Fa segno al servo di seguirlo colle pistole di Lepage,4 e al cocchiere di avanzar nella campagna verso due piccole quercie.

Lenschi stava appoggiato alla diga. Zarieschi, da profondo agronomo, biasimava il modo in che era fatto un pagliaio.

Anieghin s’approssimò scusandosi. “Ma dov’è” esclamò Zarieschi “il vostro secondo?” Zarieschi classico e pedante nei duelli si sdegnava d’una tale in frazione ai veri principii della monomachia. Permetteva che si stendesse al piano un uomo per una bagattella, purchè si osservassero le regole dell’arte e le austere tradizioni degli antichi; lo che è da lodarsi in lui.

“Il mio secondo?” rispose Eugenio. “Eccolo: Monsieur Guillot. Spero che non vi opporrete a tale scelta; benchè egli vi sia ignoto, egli è un galantuomo.”

Zarieschi si morse le labbra. Anieghin così parlò a Lenschi:

“Ebbene, cominciamo!”

“Cominciamo,” ripigliò Vladimiro.

E si portarono dietro il molino.

Mentre Zarieschi e il galantuomo fissavano a quattro occhi le condizioni del combattimento, gli antagonisti stavano fermi colle ciglia basse.

Antagonisti? Ma quanto è che non sono più amici? Quanto è che l’uno sitisce il sangue dell’altro? Quanto è che dividevano gli ozi, le pene, la mensa, i pensieri, e gli atti? Adesso accaniti l’un contro l’altro come due nemici ereditari, tramano, quasi in un sogno spaventoso e incomprensibile, la loro mutua distruzione. Non sarebbe meglio che si separassero ridendo, e senza essersi tinta di sangue la destra? Ma il coraggio della gente ha una singolar paura della falsa vergogna.

Già le pistole splendono. Risuona il martello della bacchetta. La palla rotola nel cannone, il cane stride per la prima volta. Versano la polvere grigiastra nello scodellino. Rimontano la silice tagliuzzata e fortemente stretta dalla vite. Guillot sbigottito si rimpiatta dietro un tronco vicino. I due avversari gettano i loro mantelli. Zarieschi ha misurato con esattezza trentadue passi. Alle estremità di questa distanza, egli colloca i combattenti, i quali impugnano le pistole.

“Ora partite!”

I due rivali fanno, con piede fermo, lento, eguale, quattro passi, quattro passi verso la tomba. Eugenio avanzando sempre alza pian piano la sua pistola. Fanno ancora cinque passi, e Lenschi socchiudendo l’occhio sinistro prende di mira l’avversario. Anieghin spara. È giunto l’istante prefisso dal fato. Il poeta senza proferir parola lascia sfuggir l’arme, si posa la destra sul seno e cade. Gli sguardi suoi offuscati annunziano la morte, ma non esprimono nè la doglia nè il rimprovero. Tale struggesi al calor del mattino la valanga che brillava sul pendío di un monte. Colto da un subito brivido, Anieghin corre al moribondo, lo guata, lo chiama.... ma indarno! Egli fu. Il poeta spirò anzi tempo. Sorse la burrasca, e il gentil fiore si seccò sbocciato appena, e il fuoco sacro si spense sull’altare! Giace immoto, e sulla sua faccia domina una quiete che fa spavento. La palla gli ha colpito il cuore. Il sangue sgorga bollente e fumante dalla ferita. Poco fa, quel cuore palpitava di poesia, di speranza, d’amore, quel sangue ferveva di vita; — adesso tutto è calma, silenzio e tenebre. Come in una abitazione abbandonata, le imposte son serrate, i cristalli son intonacati. La padrona di casa non ci sta più. Dove sia, Dio lo sa: — se n’è smarrita ogni traccia.

È un piacere trafiggere l’insolenza d’un nemico con salaci epigrammi; è un piacere vederlo allorchè mitriato di superbe corna, si mira in uno specchio e si vergogna di riconoscersi; è un piacere ancor maggiore vedere che vi si riconosce ed esclama: “ioson quello!” Ma il nec plus ultra d’ogni piacere, è apprestargli una onorevole sepoltura, e appuntargli un’arme al muso da una distanza giusta. Mandarlo però ad patres, è uno scherzo di che, io credo, voi non siete gran fatto ghiotto.

Se dunque vi accade di uccidere un giovine amico che vi offese inter pocula con un ghigno o una risposta insolente, o con qualche altra bazzecola, e se eccitato dalla stizza egli vi sfida orgogliosamente in duello, ditemi: che sentimento signoreggerà l’anima vostra quando lo vedrete steso a terra, in preda all’agonia, già gelido, già livido, sordo al vostro disperato appello?

Lacerato dal rimorso, Eugenio, stringendo sempre l’arme funesta, contempla l’infelice Lenschi.

“Ebbene, è morto!” osservò Zarieschi.

Morto!... Nabissato da tale orrenda notizia, Anieghin tutto tremante s’allontana e chiama i servitori. Zarieschi adagia con premura il cadavere nella slitta, e trasferisce quel tristo deposito nella propria dimora. I cavalli annusando la morte nitriscono, sbuffano, imbiancano il morso di spuma, e volano come strali.

Amici cari, vi cruccia la fine del poeta. Egli è perito nel più bel fiore delle sue speranze, prima d’aver dato al mondo i delicati frutti. Ov’è adesso quella fiamma entusiastica, quel torrente impetuoso di generosi sensi, di concetti sublimi, faceti o audaci? Ove sono quei fervidi slanci d’amore, quella sete di gloria, quell’affetto allo studio, quell’orror del vizio e della ignominia? E voi ove siele, auree visioni della vita celestiale, illusioni della divina poesia?

Forse, era nato per il bene, o almeno per la gloria. La sua cetra ammutolita avanti l’ora, potea destare un eco durevole nei secoli venturi. Forse un alto grado gli era riservato nella scala sociale. L’ombra sua se ne portò seco i sacri misteri del suo ingegno. Peri per noi quel creatore spirito! E chiuso nell’avello non udirà l’inno nè le benedizioni dei popoli alzarsi qual incenso in suo onore.

Forse anche gli sarebbe toccato in sorte un ricco appanaggio. Avrebbe lasciato i generosi impulsi della gioventù stagnare ed estinguersi nell’inazione. Avrebbe cambiato carattere e idee; avrebbe rinegato le Muse e preso moglie. Fortunato e cornuto avrebbe provato tutte le beatitudini della vita: avrebbe marcito nella sua villa con una guarnacca imbottita indosso; di quaranta anni avrebbe avuto la podagra; avrebbe bevuto, mangiato, sbadigliato; sarebbe ingrassato, e finalmente ammalatosi, sarebbe morto nel suo letto attorniato di figliuoli, di donnicciuole e di dottori.

Invece di tutto ciò, caro lettore! il giovine innamorato, il poeta, il sognatore5 melancolico, soccombè per la mano d’un amico! A sinistra, quando si esce dal borgo, havvi un luogo ove due pini intessono le loro radici; sotto a quelli serpeggia un ruscelletto che deriva dalla valle vicina. Ivi l’agricoltore cerca il riposo; ivi i mietitori vanno a empir d’acqua limpida la loro brocca sonora; ivi era l’abitazione dell’alunno delle Muse; ivi, accanto all’onde sotto l’ombra opaca, sorge adesso la sua umile sepoltura.

Allorchè incomincia la pioggia di primavera a strosciar sull’erbe dei prati, il pastorello, cantando i Pescatori del Volga, viene talvolta lì a lavorar le sue scarpe di scorza. E la giovine signora che passa l’estate in villa, quando galoppa sola per la campagna, sofferma talvolta il cavallo presso a quel monumento, e mentre colla mano sinistra stringe la briglia di canapa, rimuove colla destra il velo del cappello, e, letto rapidamente l’epitaffio modesto, ingemma il bel ciglio d’una pietosa lacrima. Poi, a passo lento proseguendo il suo corso nell’aperta pianura, tutta meditabonda, compiange la trista fine di Lenschi e domanda: “Che fece Olga? Si serbò fedele all’amante, oppure presto si consolò della sua perdita? Dov’è adesso la sorella d’Olga? Ov’è il disprezzatore della società, il disertore delle donne alla da, il capriccioso originale che uccise il giovine poeta?”

Pazienza! Vi narrerò il tutto in regola e in dettaglio,6 ma non oggi. Sebbene io ami svisceratamente il mio eroe, io devo ora lasciarlo in disparte, ma per poco. L’età matura m’inclina alla prosa. L’età vuol ch’io ripudi la rima pazzerella, che troppo a lungo ho bazzicata e accarezzata. Lo confesso e me ne pento. Ma fortunatamente la mia penna non ha più la smania di schiccherar baie canore: pensieri più gravi, cure più nobili occupano la mia mente nella solitudine e in seno alla società.

Ho conosciuto nuove brame, ho provato un nuovo tormento. Ma ormai non ho più speranza; e mi rincrescono le mie passate inquietudini. O illusioni! illusioni! Ov’è la vostra dolcezza che rima così bene con giovinezza? È egli vero che questa già perda per me la sua brillante corona? È egli vero che la prima vera di mia vita è spenta per sempre, spenta senza una sola funebre elegia? È egli vero che non tornerà più? È egli vero che fra poco avrò trent’anni?

Così è pur troppo! Eccomi giunto al meriggio del mio corso; è forza ch’io ne convenga. Dunque separiamoci da buoni amici, o mia spensierata gioventù! Ti ringrazio delle voluttà, delle soavi ambasce, del trambusto, delle tempeste, dei banchetti e di tutti i tuoi doni; te ne ringrazio cordialmente. Sotto le tue ali, nel tumulto e nella calma, io ho goduto assai; basta così! Ora, con animo sereno, entro in una nuova via per divezzarmi della vita passata.

Gettiamo un colpo d’occhio indietro. Addio, asilo ove i miei dì fuggirono inavveduti in mezzo alle passioni, alla indolenza, alle astrazioni d’un ingegno riflessivo. E tu, giovine ispirazione, avviva la mia fantasia, disperdine il torpore, accedi più sovente al mio ritiro; refocilla l’anima mia; non permettere che si ghiacci, che s’induri e finalmente si impetrisca nel letargo d’una società morta! Fuga da me lungi gli egoisti orgogliosi, gli stolti carchi d’oro, gli astuti, i pusillanimi, i matti, i drudi e i favoriti della fortuna; gli scellerati ridicoli e seccanti, i giudici parziali e cavillatori, le civette bacchettone, gli schiavi volontari, i tradimenti eleganti del gran mondo, le sentenze spietate della vanità impudente; la trista fiumana delle censure e delle ciarle, in cui ci attuffiamo e anneghiamo insieme, o cari amici!



  1. Versta, distanza di cinquecento tese ossia di tremila piedi.
  2. Sagena, tesa (6 piedi).
  3. Celebre trattore del Palais royal.
  4. Celebre fabbricante d’armi in Parigi.
  5. Chiedo venia al lettore per questa espressione poco italiana. E forza ch’io l’adoperi per significare ciò che i russi chiamano metstatel, i tedeschi schwaermer, i francesi rêveur.
  6. Altra espressione che puzza di francesismo. Ma è d’uso sì comune che non mi fo scrupolo di adoprarla.

Note

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