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Traduzione dal latino di Anonimo (1884)
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POGGIO E LE “FACETIÆ”
Volle lo stesso messer Poggio di Guccio Bracciolini da Terranova di Valdarno rivelarci il luogo e il tempo ne’ quali raccolse la sue Facetiæ che intitolò Liber facetiarum. Dice dunque nella “Conclusio” (seguo la edizione di Basilea, ex ædibus Henrici Petri, mense augusto, anno mdxxxviii, che fu adoperata dal traduttore), a pag. 491 delle Opere, qualmente il luogo ove esse furon dette, come in teatro, fu il Bugiale; e continua: “Fu il nostro Bugiale, sorta di officina di menzogne, che fu da’ segretari [papali] fondata per ridere. Sin dal tempo di papa Martino avevan l’abitudine di scegliere un luogo appartato, ove ci comunicavamo a vicenda le notizie, e dove parlavasi di cose varie, sia sul serio, sia a svago dello spirito. Ivi non si perdonava ad anima viva, e dicevasi male di quanto ne dispiaceva; e spesso il papa medesimo dava materia alle critiche nostre; onde molti venivano in quel luogo per paura di non essere i primi colpiti. E fra i narratori primo era Razello da Bologna, dal quale ho raccolto molte fra le storie raccontate. E anche Antonio Lusco, del quale spesso si parla, era uomo molto arguto; e altresí Cesare Romano, dedito anche lui alle burle. E pure alcuna delle mie vi aggiunsi, che non sono sciocche del tutto. Ora i miei amici son morti e il Bugiale non è piú, e per colpa de’ tempi e degli uomini si va perdendo il buon uso dello scherzo e del conversare...” Omnisque jocandi, confabulandique consuetudo sublata. Cosí il Poggio, forse con malinconica ricordanza viva della Curia vaticana e della vita operosa ivi menata per quasi cinquant’anni. Allora egli aveva sorpassata la settantina. Era nato l’11 febraio 1380, e mercé di Coluccio Salutati, che lo aveva conosciuto giovinetto, a Firenze, fu accolto prima, nel 1403, tra i familiari del vescovo barese Landolfo Maramaldo, e l’anno dopo eletto scrittore apostolico sotto Bonifacio IX. Andato con la Curia nel Concilio di Costanza (1414), schivo delle disquisizioni teologiche, che pur menarono al supplizio, ch’ei vide, di Gerolamo da Praga e di Giovanni Huss, “il quale gli parve morisse come Socrate,” ascoltò invece la voce degli antichi padri che da’ chiostri circostanti imploravan la liberazione dalle secolari prigioni (Epist. I, 5); e, appena poté, eccolo in sacro pellegrinaggio al monastero di Sangallo, ove, di tra muffa, polvere, immondizie, liberò davvero la Institutio Oratoria di Quintiliano, tre libri e mezzo degli Argonautica di Valerio Flacco, i comenti di Ascanio Pediano ed otto orazioni di Cicerone, del quale già nove altre orazioni aveva portate via da’ conventi di Cluny e di Langres. E sempre avidamente cercando, insieme con amici, trasse in luce De rerum natura di Lucrezio, le Puniche di Silio Italico, le Selve di Stazio, l’Astronomicon di Manilio, De re rustica di Columella; e cosí lo si vide nelle badie benedettine di Reicheunau e di Weingarten, nel convento di Einsiedeln, ove trovò l’Itinerario, edito poi dal Malbillon; in Monte Cassino, ove scopri il Trattato degli aquedotti di Frontino. E trovando, copiava e faceva copiare, in quella elegante maiuscola romana, rimasta insuperata; e comunicava esultante le sue scoperte all’Italia, al mondo, fra la gioia e forse l’invidia del Niccoli, del Traversari, del Bruni, del Marsuppini, del Manetti, del Biondo, di Ciriaco d’Ancona, di Enea Silvio, di tutta quella schiera di umanisti della prima metà del Quattrocento, che si distinsero per la universalità e che ebbero il “furore dell’inedito,” onde vennero dal Landiani il Brutus, dal card. Orsini le venti Comedie di Plauto, dal Poggio stesso i Mathescos libri. Meno i tristi quattr’anni passati in Inghilterra, dal 1423 alla morte, egli visse sempre in perenne attività di ricerche, nel culto delle cose belle, nella febre di resuscitare l’antichità, “fonte di ogni civiltà e grandezza.” A Roma, profittò del suo posto di segretario apostolico per imporre come taglia il ritrovamento di codici: era come una letteraria simonia, sempre famelica, sempre sognante scoperte novelle. A Firenze, o meglio, nella sua ridente villa Valdarnina, ove fra il verdeggiar degli alberi, biancheggiavano la sua casa, la libreria, il museo e le statue, i torsi, i busti all’aperto, venutigli di Grecia, non cercò tregua dall’amor suo primo; ma pace domestica e studio; onde il libertino che aveva avuto undici figli illegittimi da Lucia Pannelli, prese a 55 anni in moglie la nobile diciottenne bellissima Veggia de’ Buondelmonti, che fu la sua beatitudine domestica, e che nel 1450 gli donò il sesto figliuolo. Ma dopo il ritorno a Roma, nel 1443, con Eugenio IV, fra gli agi, i guadagni e la fama che le opere sue, abilmente dedicate, gli fruttavano, si sentí troppo solo, quasi nel cimitero degli amici che frattanto eran morti, e abbandonò l’Urbe nel 1453 per tornare alla sua Fiorenza, come cancelliere della repubblica. E nella sua villa morí il 2 novembre del 1459; ebbe tomba in Santa Croce e fu dipinto nella Sala del Proconsolo dal Pollaiolo. Uomo gioviale e astuto, avido di fama, scopritore appassionato, acerrimo a’ nemici, ebbe spirito e fibra degna de’ tempi; riempí della propria vigorosa azione gran parte del sec. XV; conobbe per tanto moltissima gente d’ogni condizione, e finí col credersi in esilio nel tempo, quand’egli dall’esilio richiamava i grandi romani. Non lasciò capolavori: ma in ogni opera mise coscienza, originalità, forma disinvolta, se non elegantissima. Certo egli vinse parecchi della generazione che gli succedette, e che, datasi alla filologia, alla filosofia, alla poesia fu quasi indifferente alle indagini che infiammarono Poggio: il Filelfo, il Poliziano, il Ficino, Pico della Mirandola, il Landino. Epigrafista, dopo Cola di Rienzo, fu il primo a dare un Corpus che serví bene anche al De Rossi; numismatico, fu pur tra i primi a rendersi conto dello svolgersi della moneta presso i romani; archeologo, oltre a restituirci Vitruvio, Frontino, Plinio il Vecchio, Luciano, Pausania, Filostrato, descrisse magistralmente i monumenti di Roma con critica oculata e scrupolosa, distruggendo leggende medievali, verificando documenti, dando gli autentici nomi alle venerande rovine. Leggete De varietate fortunæ, e vi vedrete al cospetto della antica maestà di fronte allo squallore presente: quadro vivo, eloquente, doloroso. Fu altresí il primo fra gli epistolografi del tempo, le cui lettere son preziose per notizie e dottrina, originalissime per lo stile agile e pronto. Scorrendo quelle lettere par di rivedere la imagine di lui scolpita dal Donatello; sarcastico, ameno, sicuro di sé e di quel che dice bene e certo. Né i suoi dialoghi sono inferiori, pieni di libera filosofia, con ritratti vigorosamente sbozzati, con fioriture di aneddoti mordaci, con vena satirica flagellatrice del clero. Le orazioni di Poggio furon fiere “invettive;” era la sua l’eloquenza del gladiatore che atterra e sgozza senza pietà col fiele nel cuore e il ghigno sulle labra; si sa come conciasse il Filelfo, il Valla, il Moroni da Rieti: un grandinar di contumelie verrine, con fraseggiare ciceroniano negli altri, con virulenza plautina nel Poggio, che sparge il ridicolo a piene mani, e non risparmia neppure l’antipapa Felice V. Ma negli otto libri della sua Historia fiorentina (1350-1455), ultima opera di lui, egli prende la cosa sul serio, organizza il racconto ed evita il vieto costume di infarcir la narrazione con sperticate concioni. Poggio dunque, al contrario del Salutati, del Barzizza e degli altri frondosi ciceroneggianti, seppe dominar il latino sí che il suo ebbe singolare pieghevolezza, spigliatezza disinvolta, limpidezza pittorica, frutto succoso della sagacia divinatoria onde aveva esemplato i testi, del lungo studio, del grande amore, e dell’esercizio continuo nella varietà delle sue scritture.
Or quest’uomo, che dalle angustie paterne, era giunto con tenacia prodigiosa non solo a formar la sua fortuna, ma ad essere il primo restauratore e maestro del mondo classico, ben si sentiva dominatore di cose grandi e irrisor delle piccole. Era il genio dell’umanesimo.
Al Poggio dunque ultra settantenne dovevan sorridere le Facetiæ, che gli eran fiorite sulle labra o dalla penna, a mano a mano, dal 1438, mandate via nel pubblico a frammenti per compiacenza di amici e voluttà di curiosi; le date più tarde derivate delle Facetiæ stesse sono il 1451 in De prœlio picarum et gracularum e il 1452 in De homine qui per biennium cibum non sumpsit. Sí che, se la compagine del libro fu completa nel ’52 o ’53, le storielle ivi comprese, avevan rallegrato molti anni della vita all’autore. E forse appunto parte della sua vita rivedeva lí dentro in mezzo alla vita intera dell’altra gente. Già delle Facetiæ si trovan tracce nelle Epistole; o se ne raccontano, come la 138 (Epist. III. 8), o se ne fa in qualche modo la storia (Epist. VIII, 4, 35; IX, 1, 14; X, 17, 22); ma ove mostrasi la fantasia beffarda e derisoria del Poggio, la smania del novellare lascivo e turpe, la bizzarra voluttà dell’osceno ridicolo, è nelle diatribe contro i nemici. Basterebbe citar per tutte le avventure infernali che addebita al Valla, ove l’odio sprezzante non può concepir niente di più salace. E siccome egli prende inspirazioni da leggende popolaresche, da tradizioni vaganti, e sin dagli antichi, cosí la materia delle Facetiæ si andava accumulando e svolgendo nel suo spirito quasi per continua penetrazione. Probabilmente i giocondi ritrovi del Bugiale furon le cause esteriori che indussero alla raccolta; ma la causa intima è da cercarsi nel carattere stesso, nell’indole medesima del Poggio, temperato alle malizie e alle depravazioni del tempo, conoscitore profondo delle sfere ecclesiastiche e amatore delle letture piacevoli. Alcuni han cercato e cercan tuttora le fonti e i rapporti delle Facetiæ; fatica egregia, che può mostrar lunghezza di ricerche e finezza di raffronti; ma che servono appena a stabilire il corso di alcune novelline popolari o aneddoti tradizionali. Tuttavia, il rifar la storia de’ bons mots, risalendo agli Apotegmi di Cesare, alle Piacevolezze di Cicerone, agli Scherzi di Caio Melisso, anzi andando piú in su presso i Greci e i Persi, come fa il Lenfant, ci par troppo. Originali invece sono i ritrovamenti comparativi di Pietro Toldo, il quale (cooperando alle numerose ricerche antecedenti, sperse ne’ volumi di scienza demopsicologica) trova altri rapporti per esempio co’ Fabliaux, col Pontano, con le Fourberies de Sî Djeh’â, con le Plaisanteries de Nasr-Eddin-Hodia, con le Cent Nouvelles nouvelles e con altre fonti orientali e basche, con lo Speculum exemplorum, ecc. Io ne trovo con Rabelais, massime nel Libro terzo ove accoglie molti aneddoti, cònti, favole. Vedi fra gli altri l’Anneau de Hans Carvel (III, 28), che è tratto dalla Facetia 133 Visio Francisci Philelphi, cosí elegantemente ripresa poi dall’Ariosto nella V satira. Ricerche argute fecero anche su particolari Facetiæ il Novati intorno a Madonna Bambacaia, il Volpi su Pasquino da Siena rimatore, il Flamini, ecc. Il Grazzini poi può averlo conosciuto, ove si confronti la nov. 68 di Poggio con la novella I, 6 del Lasca, e la Facezia 102 con la novella IV della Prima Cena.
Insomma il libro di Poggio, composto cogli elementi migranti venuti d’ogni parte, di Francia, di Spagna, di Lamagna, com’egli confessa, e d’Oriente, è il più noto e diffuso fra le opere di lui. Ed è naturale. Esso è un piccolo Decamerone, ma senza un organismo, un filo, una tela: ogni novella ha un protagonista, e se pure il protagonista torna piú volte, è eroe sempre di un’azione che può star da sola. Sembra rispecchiare il costume di quel periodo complesso, nel quale la rinascita, dando le piú sottili raffinatezze al gusto, lasciava che la vita quotidiana corresse ancor fra la sensualità e l’ascetismo, la gioia del vivere e l’eleganza delle forme, senza intimità di pensiero. Manca non di meno nel libro la personalità del narratore e però la coesione del racconto; ma non cosí che nell’insieme la figura dell’artista non appaia nel profilo di satiro gaudente e burlone. Non è il letterato, è il segretario papale osservatore, che gode nel vedersi sfilar dinanzi la moltitudine variopinta; ed ecco marinai e cardinali, barbieri e vescovi, villani, pastori e montanari con cavalieri, monaci e preti, medici, avvocati, notai con cuochi, commedianti, ebrei, fanciulle, mogli, vedove, papi, pazzi, saltimbanchi, confessori, e vecchi, giovani, avari, sciocchi, usurai, meretrici, servi, buffoni, mendicanti, ricchi... quasi tutti presi dalla manía di burlare, di ridere, di godere; quasi tutti colti da erotismo continuo, guazzanti in turpiloquio sfacciato; qui tutto è nudo; e quasi sempre la nudità è laida, è ripugnante. E fra l’immensa tratta di gente volgare, trovi pur papa Martino e Bonifacio, e Dante, e Giannozzo e Bernabò Visconti, Facino Cane, Francesco Filelfo, Ugo da Siena, Nicolò D’Anagni, Antonio Lusco, Ridolfo di Camerino, e con loro Zuccaro e Gonnella. E fra il trescar delle lussurie ecco apparir santi e prodigi, bestie, mostri e diavoli. E la beffa non ha nazione: trovi spagnuoli, inglesi, alemanni, fiorentini, milanesi, veneziani, perugini, genovesi... Ogni grado, ogni classe, ogni lingua, ogni passione, oltre la venerea predominante: l’usura, l’invidia, l’odio, l’ipocrisia, l’idiotaggine... In una parola, una comicità oscena di bassa lega, che non va al di là della caricatura e che talora è più nella qualità del fatto che ne’ colori. È il mondo della sensazione fugace, che non si tramuta mai, purificandosi, nel sentimento.
Le Facetiæ, a non contar la diffusione grandissima orale e manoscritta, che avevan goduto durante la vita dell’autore, ebber presto quella della stampa. Abbiam qui sottocchio molti incunaboli o stampe rarissime e notizie delle Facetiæ. Le più antiche edizioni son tre e senza data e luogo; una ve n’è del 1470; una a Ferrara, dell’agosto del 1471; una a Norimberga del Koburger, del 1472; una del Creussner, pur di Norimberga, del ’75, quando se ne fecero altre tre; una a Parigi insieme con le Facetiæ morales, o l’Esopo tradotto dal Valla, e i De Salibus virorum illustrium del Petrarca, una a Milano del ’77 dal Valdafer, quattro, pure a Parigi, nel 1480; cinque in vari luoghi nel 1487; due a Venezia nel 1488; una a Lione nel 1497; tre edizioni con le opere complete nel 1510, 11, 13. Argentine, Joh. Koblonchus; e poi via via altre sino a quella di Cracovia del 1592. Ma nel seicento e nel settecento sembra declinare la fortuna dell’opera: troviamo una sola edizione del 1797, e un’altra del 1800. Le traduzioni “in vulgare ornatissimo” non mancano dal sec. XV sino a quella stampata dal Bindon nel 1553; ma da quell’anno, ch’io sappia, altre versioni non venner fuori sino al 1884-85, quando apparve quella pubblicata dal Sommaruga, mentre le versioni francesi si moltiplicavano in buon numero dal 1484 al 1878. Cosí il fortunato libretto corse di terra in terra a rallegrar le brigate, a diffonder letizia e riso ovunque, dalle botteghe alle corti, dai conventi alle caserme, ed ebbe chiosatori, imitatori, plagiari; dette origine alle Buffonerie del Gonnella, alle Facezie del piovano Arlotto e ad altre raccolte, una delle quali fu largamente sfruttata dal Domenichi.
Oggi le Facetiæ, non potrebbero dar diletto, se non a chi le leggesse in quel latino pieno di grazia che non è lingua morta o intarsio di erudizione; sotto al quale sentesi lo squisito gusto fiorentino, con la snella disinvoltura, la nativa eleganza, la schietta festività dell’idioma di messer Giovanni e di messer Franco. Sotto la patina arcaica è l’oro del toscano scintillante. Il fauno classico scorrazza per i divini ombrosi poggi del Valdarno. Ma non volle il Bracciolini, oltre il suo bel museo di marmi e libri, comporre un museo umano curioso e prezioso, perché le sparse vestigia delle costumanze non si perdessero? Bene è considerar l’opera cosí, poiché al suo cospetto l’Arte, nel suo immortale candore, si è velata la faccia per nascondere forse il sorriso, forse il disgusto.
- Roma, decembre 1912.
Cfr. oltre le storie letterarie, e le opere sul Rinascimento:
Thorschmidt J. C. Dissertatio de F. Poggii Bracciolini vita et meritis in rem litterariam. Wettemberg, 1713.
Lenfant J. Poggiana, ou la vie, le caractère, les sentences et les bons mots de Pogge Florentin. Amsterdam, 1720.
Recanati G. B. Osservazioni critiche ed apologetiche sopra il libro del signor Jacopo Lenfant intitolato “Poggiana.” Venezia, 1721.
La Monnoye (de) B. Remarques sur, la “Poggiana.” Paris, 1722..
Shepherd W. Life of Poggio Bracciolini. Liverpool, 1802; London; 1837, tradotto in ital. da Tommaso Tonelli, Firenze, 1825.
Katscher L. Poggio Bracciolini (Nuova rivista intern., 1879-80. 1.)
Sabbatini R. Poggio Bracciolini (Giorn. stor. della lett. ital. 1885. 1.)
Medin A. Documenti per la vita di Poggio Bracciolini (Giorn. st. della lett. ital., 1888. 12.)
Müntz E. Precursori e propugnatori del Rinascimento. Firenze, Sansoni, 1902.
Toldo P. Note poggine (Bracciolini, Facezie) (Giorn. st. della lett. ital. 1904. 44.)