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Parte prima Parte prima - II

I.


I
l fioretto di domani è questo — disse il predicatore, leggendo un cartellino: — Voi offrirete a Maria Vergine i sentimenti di rancore che avete nel cuore e abbraccerete la compagna di scuola, la maestra, la serva che credete di odiare.

Nella penombra della cappella vi fu un movimento tra le educande grandi e tra le maestre: le piccine non si mossero. Delle piccine qualcuna sonnecchiava, qualcuna sbadigliava dietro la manina: sui rotondi visetti si dilatava la contrazione della noia. La predica era durata un’ora e le piccole non capivano nulla. Avevano voglia di cenare e poi di dormire. Ora il il predicatore era disceso dal piccolo pulpito, e sull’altare, Cherubina Friscia, la maestra sagrestana, accendeva i ceri col lumino. La cappella entrava a poco a poco nella luce. I volti sbiancati e sonnacchiosi delle piccole si facevano rosei in quel chiarore: dietro, le grandi rimanevano immobili, con gli occhi che ammiccavano nello sbarbaglio, con le facce rilassate nella indifferenza. Qualcuna, col capo abbassato, pregava. Su queste teste chine batteva la luce dei ceri, giocando sulle grosse trecce costrette sulla nuca, su certi riccioli biondi, invano tenuti a posto dalle pettinessine. Poi, come tutta la cappella fu illuminata per la recita del rosario, il gruppo delle educande, coi vestiti bianchi di mussola, i grembiuli neri, e le cinture di varii colori per distinguere le classi, prese un aspetto gaio, malgrado la stanchezza e la noia che pesavano su quella gioventù.

Un profondo sospiro sollevò il petto di Lucia Altimare.

— Che hai? — le chiese sottovoce Caterina Spaccapietra.

— Ho male, ho male.... — mormorò l’altra vagamente.

— Perchè?

— Questo predicatore mi attrista: egli non intende, non sente Maria.

E le pupille nerissime nella cornea azzurrognola si dilatarono, come per una visione. Caterina non rispose. La direttrice intonava il rosario, con una voce grave, con un acuto accento toscano. Diceva lei sola il Mistero, poi tutte le educande in coro l’accompagnavano nel Gloria Patri, nel Pater, con un’acuzie di voci stridule, con un ondeggiamento di voci basse. Ella diceva l’Avemaria sino al frutto del tuo ventre, Gesù: le maestre e le educande ripigliavano, seguitando. La cappella si empiva di frastuono, poiché a ogni ripresa di preghiera le educande entravano con un grande slancio di voce, che pareva effusione di cuori ardenti: le bambine, invece, si divertivano a quel giuoco, e mentre la direttrice diceva, solitaria, la sua parte, esse misuravano il tempo per entrare tutte insieme, come uno scoppio. Ridevano pianamente, urtandosi. Qualcuna si chinava sulla spalliera della sedia che aveva davanti, fingendo di raccogliersi, ma strappando i capelli alla compagna che stava dinanzi. Si udiva un ticchettìo di rosari smossi sotto i grembiuli: ci scherzavano. Le grandi, indietro, serbavano un contegno esemplare, sotto l’occhio acuto della direttrice che le vigilava. Ella vedeva benissimo che Carolina Pentasuglia aveva un garofano all’occhiello, quando nel giardino del Collegio non crescevano garofani: che sul petto, sotto la mussolina dell’abito di Ginevra Avigliana, si disegnava un quadratino, di carta, evidentemente: che Artemisia Minichini, dai capelli corti e dal mento virile, aveva, come al solito, una gamba accavalcata sull’altra, per disprezzo della religione: vedeva e notava. Lucia Altimare, gli occhi spalancati e fissi ad un cero, la bocca stirata a destra, pregava, scossa ogni tanto da sussulti nervosi: accanto a lei Caterina Spaccapietra pregava tranquillamente, l’occhio senza sguardo, il volto immobile e senza espressione. La direttrice ripeteva le parole dell’Avemaria senza pensare al loro senso, distratta, preoccupata, sdebitandosi rapidamente della sua preghiera.

Fra le piccine un’agitazione si diffondeva: esse si piegavano, si sollevavano lievemente sulle seggiole, parlavano sottovoce fra loro, tormentavano i rosari. Virginia Friozzi aveva in tasca un grillo vivo, con un filuccio di seta legato alla zampa; prima ci aveva tenuta la mano sopra per non farlo muovere, poi gli aveva fatto far capolino dall’apertura della tasca, poi lo aveva cavato fuori e nascosto sotto il grembiule; infine, non potendo più resistere, lo aveva mostrato alla sua vicina di destra e a quella di sinistra. La voce era corsa: le bimbe erano inquiete, comprimendo il riso, non rispondendo più in tempo. A un tratto il grillo dette una strappata al filo e svolazzò, zoppicante, in mezzo alla viottola che si apriva fra le due file di sedie. Vi fu uno scoppio d’ilarità.

— Friozzi non andrà a parlatorio domani — disse la direttrice severamente.

La bimba impallidì a quella punizione così dura che le impediva di vedere sua madre. Cherubina Friscia, la maestra sagrestana, dal volto scialbo e consunto di zitella anemica, scese dall’altare e confiscò il grillo. Vi fu un momento di silenzio, e si udì la voce affogata di Lucia Altimare che balbettava:

— Maria.... Maria.... Maria bella....

— Preghi sottovoce, Altimare — avvertì la direttrice con una certa dolcezza.

Il rosario ricominciò, senza interruzione. Alla Salve Regina tutte s’inginocchiarono con grande romore di sedie e le parole latine furono dette in coro, quasi acclamando. Caterina Spaccapietra aveva appoggiato la testa al pomo della sedia dinanzi. Lucia Altimare si era buttata giù, col capo sulla paglia, con le braccia cadenti, trasalendo.

— Ti va il sangue alla testa, Lucia — mormorò la compagna.

— Lasciami stare.

Le educande si rialzavano. Sul piccolo organo erano salite una maestra e una educanda, per le litanie della Vergine. La maestra preludiò sopra un motivo semplice, religioso: una voce fresca, pura, di un timbro squillante, si allungò, si allargò nella cappella, ridestandone gli echi addormentati, una voce giovane che pregava, che invocava:

Sancta Maria!

E di giù, tutte le educande, in tono minore, risposero:

Ora pro nobis!

La cantatrice era in luce, sulla tribuna dell’organo, con la faccia verso l’altare. Era Giovanna Casacalenda, una fanciulla alta, dalle forme splendide sotto l’abito bianco, dalla testa forte su cui si ammassavano i capelli bruni, dagli occhi tanto neri che parevano bistrati. Stava lì sopra, come isolata, lasciando andare la passione della sua ricca gioventù nella voce pastosa e morbida, tutta piena del piacere di cantare, parendole di librarsi, di vivere in quel canto. Le educande si voltavano a guardarla, prese da quel diletto del canto che è proprio della gioventù: come la voce di Giovanna si abbassava, di giù un coro saliente rispondeva:

Ora pro nobis!

Ella sentiva il trionfo. La testa eretta, gli occhi meravigliosamente neri nuotanti in un fluido, la mano destra lievemente appoggiata alla balaustrata di legno, l’altra abbandonata lungo la gonna, con la gola bianca che si gonfiava come per un palpito d’amore, intonava nelle note medie, saliva sino alle acute, vi appoggiava la voce, poi discendeva mollemente alle gravi, puntando il canto:

Regina angelorum!

Un momento di silenzio per gustare ancora le ultime note, e di giù le voci infantili e quelle giovanili si entusiasmavano nella risposta:

Ora pro nobis!

La cantatrice fissava l’altare, ma pareva che vedesse qualche cosa di là, pareva che una visione le apparisse, che una musica, non potuta udire dalle altre, ella udisse. Ogni tanto nel suo canto passava un soffio che lo riscaldava, che lo rendeva ardente: ogni tanto la voce si assottigliava come un filo d’oro, come il trillo dolce di un uccellino: ogni tanto la voce pareva s’inginocchiasse in un mormorio, in un balbettìo delizioso.

— Giovanna vede il cielo — disse Ginevra Avigliana ad Artemisia Minichini.

— O il teatro — rispose brutalmente l’altra, che non credeva a nulla.

Pure, quando Giovanna arrivò alle poetiche immagini che chiamano la Vergine porta del cielo, vaso di elezione, torre di Davide, un impeto nuovo trasformò il canto in un inno. Dentro la cappella i volti si arrossivano nella beatitudine di quella musica stupenda: Caterina Spaccapietra, come assorta, non rispondeva: Lucia Altimare, senza far romore, senza singhiozzare, piangeva. Le lagrime le scorrevano per le guance un po’ scarne, dai pomelli sporgenti, le piovevano sul petto, sulla mani, si disfacevano sul grembiule — e lei non le asciugava. Caterina le porse di nascosto il fazzoletto, ma l’altra non ne accorse.

Il predicatore, padre Capece, uscì sull’altare per la benedizione. Le litanie finivano con l’Agnus Dei qui tollis peccata mundi: la voce della cantatrice pareva vinta da una grande stanchezza. Di nuovo tutte le educande si inginocchiarono, e il prete pregò. Sull’organo, Giovanna, inginocchiata anch’essa, respirava profondamente. Dopo cinque minuti di preghiera tacita, sulle teste abbassate risonò lento l’organo e parve salire, da una sfera aerea al cielo, una voce vibrante che magnificava il Sacramento nel Tantum ergo. Giovanna non era più stanca: anzi il suo canto si rinforzava, pieno di vita, maestoso, in una fluttuazione così appassionata che pareva quasi voluttuosa. Un’aura d’amore spirava su quelle teste giovinette e un senso mistico turbava quei cuori. Il momento diventava solenne, nell’agitazione della preghiera, nell’appressarsi della Benedizione: quell’istante supremo domava e atterrava quelle fanciulle in una prostrazione dolorosa e squisita. Indi tutto tacque: un campanellino squillò tre tocchi: per un momento Artemisia Minichini osò alzare gli occhi, lei sola, guardando quei corpi abbandonati sulle seggiole, guardando sfacciatamente l’altare — presa da un timore puerile, li chinò. Il Divino Sacramento, nella sua spera d’oro lucido, levato nelle mani del prete, benediceva in circolo la chiesa.

— Muoio.... — disse Lucia Altimare.


Sulla porta della cappella, nel lungo corridoio illuminato a gas, le maestre attendevano a raccogliere le classi per condurle in refettorio. Una commozione rimaneva sui volti, ma le piccole sgambettavano, si pizzicavano e strillavano, prese dall’allegria scoppiante dell’infanzia, costretta per troppo tempo in un luogo chiuso. Si sgranchivano le gambe, si urtavano, ridevano. Le maestre, un po’ correndo, un po’ gridando, un po’ acchiappandole pel braccio, un po’ pregando, un po’ minacciando, tentavano di metterle in fila due per due. Si avviarono le piccine piccine, poi le più grandette, poi le grandicelle. Il corridoio risonava di queste voci:

— Le azzurre, dove sono le azzurre? — Eccole qui, tutte. — Manca Friozzi. — Dov’è Friozzi, delle azzurre? — Presente! — In linea e a sinistra, mi raccomando. — Le verdi, in riga le verdi, o domani senza frutta al pranzo. — Presto, è sonata già due volte la chiamata del refettorio. — Federici, delle rosse, camminate dritta! — Signorine bianco-verdi, suona per la terza volta la campana. — Le tricolori sono tutte? — Tutte. — Manca Casacalenda. — Ora viene: è ancora sull’organo. — Manca Altimare. — Dov’è Altimare? — Spaccapietra, sapete dov’è Altimare?

— Or ora era qui, sarà scomparsa nella confusione. Ho da cercarla?

— Cercatela e venite con lei in refettorio.

Così il corridoio si vuotava e il refettorio era tutto gaio, tutto illuminato.

Caterina andava su e giù, pei corridoi deserti, col suo passo ritmico, cercando la sua amica Altimare. Scese a terreno: la chiamò due volte verso il giardino: nessuna risposta. Risalì, senza impazienza, abituata a queste ricerche: entrò nel dormitorio. I letti bianchi si allineavano sotto la cruda luce del gas: Lucia non vi era. Una piccola inquietudine si manifestava sul viso roseo di Caterina. Passò due volte innanzi alla cappella, senza entrarvi: alla terza si decise, avendo trovata la porta socchiusa. La chiesa era quasi immersa nell’oscurità. Una lampada che ardeva innanzi alla Madonna, diradava appena l’ombra. Lei s’inoltrò, un po’ intimorita, malgrado l’equilibrio sereno de’ suoi nervi: era sola, era all’oscuro, in chiesa.

Sopra un gradino dell’altare, sul velluto rosso del tappeto, una forma bianca giaceva distesa, con le braccia aperte, il capo abbandonato: figura spettrale. Era Lucia Altimare, svenuta.

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