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II.
Il ventaglio di Artemisia Minichini, fatto con un grande foglio di carta manoscritta, si agitava rumorosamente.
— Minichini, voi annoiate il professore — disse Friscia, la maestra assistente, senza levare gli occhi dall’uncinetto.
— Friscia, voi non avete caldo? — chiese insolentemente la Minichini.
— No.
— Beata voi che siete insensibile.
Nella classe dove le signorine tricolori prendevano la loro lezione di Storia d’Italia, il meriggio afoso si faceva sentire. Due finestre sul giardino, una porta sul corridoio, tre file di banchi, e venti alunne. Sopra una predella alta, la scrivania e la poltrona del professore. I ventaglini si agitavano, dove vivamente, dove con un movimento stracco. Qualche testa si chinava sul libro, come insonnolita. Ginevra Avigliana guardava il professore, fisamente, approvando col capo, mentre il volto aveva la espressione della distrazione. La Minichini, posato il ventaglio, aveva aperto l’occhialino e guardava sfacciatamente il professore col naso in aria, una ciocca di capelli arricciata sulla fronte, ridendo di quel suo riso muto che irritava le maestre.
Il professore spiegava la lezione a voce bassa. Era piccolo, magro, meschino: poteva avere un trentadue anni, ma la sua faccia emaciata, dove il bruno del colorito s’ingialliva nel pallore di qualche lunga malattia, pareva di un convalescente. Una grossa testa di scienziato sopra un corpo miserabile di nano: una criniera folta, selvaggia, dove già apparivano i capelli bianchi: gli occhi fieri, timidi: una barbetta di un nero sporco, rada sulle guance scarne. Una bruttezza infelice e pensierosa. Parlava, immobile, con gli occhi chinati, movendo solo la mano destra. Sul muro l’ombra di quella mano pareva quella di uno scheletro, tanto era sottile e adunca. Egli spiegava lentamente, scegliendo le frasi. Quelle fanciulle lo intimidivano, alcune perchè intelligenti, altre perchè impertinenti: tutte perchè donne. La sua austerità di studioso si turbava dinanzi a quegli occhi luminosi, dinanzi a quelle forme aggraziate e giovanili; quegli abiti bianchi facevano un miraggio davanti alla severità dell’uomo che si è proibito di sognare. Un profumo acuto si diffondeva nella classe, malgrado fossero vietati i profumi: chi lo aveva? Poi, in fondo al terzo banco, Giovanna Casacalenda, senza leggere, senza prestare attenzione, con gli occhi socchiusi, morsicava una rosa, furiosamente; qui innanzi, Lucia Altimare, pallida, coi capelli molli sul collo, un braccio abbandonato sul banco, reggendosi la fronte con una mano, nascondendo gli occhi guardava il professore attraverso le dita: ogni tanto si toccava le labbra troppo rosse con un fazzolettino di batista, quasi a temperarne la febbre. Il professore sentiva sopra di sé lo sguardo filtrante tra le dita di Lucia Altimare, e vedeva, senza guardarla, Giovanna Casacalenda che distruggeva la rosa coi dentini. Egli rimaneva imperturbato nell’apparenza, parlando ancora di Carmagnola e della congiura del Fiesco, fissando, per suo punto di mira, la faccia tranquilla di Caterina Spaccapietra che scriveva rapidamente, nel suo quaderno di storia, la spiegazione.
— Che scrivete nel vostro libro, Pentasuglia? — chiese la maestra Friscia che la spiava da qualche tempo.
— Nulla — disse quella, una biondina ricciuta, arrossendo.
— Datemi quel pezzetto di carta.
— A che serve? Non vi è niente.
— Datemi quel pezzetto di carta.
— Non è un pezzetto di carta, maestra Friscia — disse audacemente Minichini, pigliando quel pezzetto come per porgerglielo. — Sono due, tre, quattro, dodici frammenti inutili....
E lo lacerava, salvando la compagna. Un silenzio si fece nella classe: avevano paura per Minichini. La maestra chinò il capo, strinse di più le sottili labbra di beghina, e riprese l’uncinetto, come se nulla fosse. Il professore sembrava non aver inteso nulla, scorrendo certi suoi fogli, ma, dentro, il suo animo doveva essere agitato. Una curiosità giovanile gli veniva di sapere che pensassero quelle fanciulle, che scrivessero nei loro bigliettini, a chi rivolgessero veramente il loro sorriso quando guardavano il busto di gesso del re, a che sognassero, stringendo la cintura tricolore intorno alla vita. Ma il volto smorto e gli occhi di un grigio falso di Cherubina Friscia, la sorvegliante, gli facevano paura.
— Avigliana, dite la lezione.
La fanciulla si alzò e parlò dei Visconti, rapidamente, guardando in aria, come se fosse un pappagallino bene ammaestrato. Richiesta perchè facesse qualche commento storico, fu incerta, rispose balbettando: non aveva capito nulla.
— Minichini, dite la lezione.
— Professore, non la so.
— E perchè?
— Era domenica ieri e uscimmo. Non ho potuto studiare.
Il professore scrisse un’osservazione sul registro: la fanciulla si strinse nelle spalle.
— Casacalenda?
Quella non rispose. Si guardava intensamente le mani bianche e come modellate nella cera.
— Casacalenda, volete dire la lezione?
Stordita, spalancando i suoi occhioni, lei incominciò, incespicando a ogni parola, distraendosi, confondendosi, sbagliando tutto: il professore le suggeriva e lei ripeteva, con la sua aria compiacente di bestia giovane, bella e forte: non sapeva nulla, non capiva nulla e non se ne vergognava, conservando la sua placidità plastica, umettando le sue labbra un po’ feroci di Diana, contemplando le sue unghie rosate. Il professore crollava il capo malcontento, non osando sgridare quella splendida e stupida creatura, la cui voce aveva intonazioni incantevoli....
Egli fece due o tre altri tentativi: ma la classe non aveva studiato, per l’uscita del giorno prima. Così si spiegavano i fiori, i profumi, i bigliettini: le dodici ore di libertà avevano sconvolto le fanciulle. Esse avevano gli occhi pieni di visioni: avevano visto il mondo il giorno innanzi. Egli si raccolse, confuso, mentre nella classe un senso di vergogna e di rispetto chiudeva tutte le bocche. Egli l’amava tanto quella scienza della storia: il suo acume critico sapeva misurarne i grandi orizzonti: il suo ideale era vasto — e soffriva di doverla offrire in briciole a quelle fanciulle aristocratiche, belle e indolenti, che non volevano saperne. Giovane ancora, s’era inaridito e invecchiato nei severi studi — ed ecco, ora, gli si rizzava innanti la gioventù gaia e noncurante, che vuol vivere e che non vuole sapere. Un’amarezza gli saliva alle labbra, contro quelle creature frementi di vita che disprezzavano il suo ideale: un’amarezza di non potere essere anche lui bello, vigoroso e ricco di spensieratezza, per amare, per essere amato. Gli sgorgava dal cuore l’angoscia e gli avvelenava le vene e il cervello per dover avvilire la scienza sua innanzi a quelle frivole e disumane fanciulle. Ma la tempesta crescente fu domata e nulla ne apparve di fuori, se non un lieve rossore sui pomelli scarni.
— Poichè nessuna di voi ha imparato — disse lentamente a voce bassa — nessuna avrà fatto neppure il còmpito.
— Altimare e io lo abbiamo fatto — rispose Caterina Spaccapietra. — Non siamo uscite — soggiunse, quasi a spiegazione, per non offendere le amiche.
— Leggete allora voi, Spaccapietra. Si tratta di Beatrice di Tenda, mi pare.
— Sì, di Beatrice di Tenda.
Spaccapietra si alzò e lesse con la sua voce pura e lenta:
«L’ambizione aveva sempre signoreggiato gli spiriti dei Visconti di Milano, i quali tutto osavano per potersi mantenere nel sovrano potere. Non dissimile dai suoi predecessori fu Filippo Maria, figliuolo di Gian Galeazzo, succeduto a suo fratello Gian Maria. Costui per mire di interesse, sposò Beatrice di Tenda, vedova di Facino Cane, condottiero di ventura. Era Beatrice di Tenda donna virtuosa e falcoltosissima, ma già innanzi negli anni. Portò al marito in dote il dominio di Tortona, Novara, Vercelli, Alessandria; ma egli, appagato il desiderio di ricchezze, l’ebbe presto a noia. La fece accusare di aver mancato ai suoi doveri di moglie per un tale Michele Orombello, scudiero. Vera o falsa l’accusa, bugiardi o sinceri i testimoni, Beatrice di Tenda fu provata rea e salì sul patibolo, insieme con Michele Orombello, nell’anno 1418, che era il quarantottesimo della sua età, essendo ella nata nel 1370».
Caterina aveva già piegato il foglio, e il professore aspettava ancora. Passarono così due minuti.
— Non vi è altro?
— No.
— Come, solo questo?
— Solo.
— È un còmpito molto scarso, Spaccapietra. Non è che la narrazione pura e semplice del fatto storico come sta nel libro di testo — anzi più semplice ancora. Non v’ispira nessuna considerazione l’infelice fine di Beatrice?
— Non saprei.... — mormorò l’alunna, pallida di emozione.
— Eppure siete donna.... Appunto vi avevo assegnato un compito dove si poteva manifestare qualche nobile affetto, la pietà, il disprezzo per la falsa accusa.... che so io? A questo modo la storia diventa una cronologia. Il compito è arido: voi non avete fantasia, Spaccapietra.
— Sì, professore — rispose umilmente la fanciulla, rimettendosi a sedere, mentre le lagrime le gonfiavano gli occhi.
— Sentiamo Altimare.
Lucia Altimare, come se si scotesse da un letargo, cercò lungamente tra le sue carte, con una crescente espressione di stanchezza. Poi lesse lentamente, con voce sottile, strascicando le sillabe, come sopraffatta da una invincibile lassitudine.
— Più forte, Altimare,
— Non posso, professore.
E lo guardò con tale occhio malinconico che questi si pentì dell’osservazione. Ella si toccò di nuovo le labbra col fazzoletto, come se fossero arsicce, e continuò:
«.... per la mala ambizione del regnare. Era Filippo Maria Visconti gagliardo della persona, occhio di falco, cavaliere fortissimo e bellissimo in arcione. Le fanciulle che lo vedevano passare, vestito di maglia, con la cotta di velluto sul cui petto era ricamata l’affascinante e astuta biscia, emblema dei signori Viscontei, sospiravano, esclamando: quanto è bello! Ma sotto così leggiadre apparenze — come sempre accade in questo tristissimo mondo, dove le apparenze sono il grossolano scenario della vita — egli nascondeva un animo pravo. Oh! diffidate, donne gentilmente affettuose, di chi si aggira intorno a voi con modi cortesi, con parole invescatrici, con squisitezze di sentimento: egli v’inganna. Tutto, tutto è menzogna, tutto è putridume, tutto è cenere! Ben sel seppe la infelice Beatrice di Tenda, di cui vi narro la pietosa storia. Era costei una giovane vedova, donna di costumi intemerati, di forme stupende: biondo il crine come l’oro filato; azzurro l’occhio, degno di specchiare la purezza del firmamento; candida la pelle, come il petalo soave del giglio. Nel suo primo matrimonio con Facino Cane, condottiero di ventura, ella era stata poco felice. Facino Cane, soldataccio grossolano, assetato di sangue, feroce, avvezzo alle armi, al vino, al rozzo parlare dei campi soldateschi, non era l’uomo del cuore per Beatrice. Guai ai matrimoni, dove l’uno dei coniugi non comprende e non sa apprezzare l’animo dell’altro! Guai ai matrimoni dove l’uomo non intende tutta la mistica poesia, tutto l’arcano sentimento del cuore femminile! Sono unioni sciagurate, di cui pur troppo la corrotta e sofferente società moderna è piena. Facino Cane morì. La vedova lo pianse sinceramente, ma il suo cuore vergine di affetti palpitò quando conobbe il valoroso e malvagio Filippo Maria Visconti. Ella si fece nel volto pallida come la luna, quando si trascina, malaticcia, per le volte dell’empireo stellato. E lo amò con l’entusiasmo di tutta la sua gioventù, con l’onestà di un’anima pia, che sa adorare il Creatore nella creatura e unire l’amore divino all’amore umano. Beatrice, pura e bella, sposò Filippo Maria per amore: Filippo Maria, anima nera, sposò Beatrice per interesse. Per qualche tempo, sul trono ducale, l’augusta coppia fu felice, smentendo il detto popolare che nega la felicità ai principi. Ma erano attoscate quelle rose d’Imene; ma nell’erba molle di rugiada si celava il serpe, perfido emblema dei più perfidi Visconti. Ottenute le ricchezze di Beatrice, Filippo Maria, che altro non bramava, l’ebbe presto a noia, come ogni uomo di cuore arido e di costumi depravati ha costume di fare. Aveva anche annodato una turpe relazione con certa Agnese del Maino, donna quanto altra mai pessima; e vieppiù lo incalzava il desiderio di disfarsi della moglie. Eravi nella corte viscontea lo scudiero Michele Orombello, giovanetto trovatore, poeta, che aveva osato alzare gli occhi fino alla sua signora, di cui era perdutamente innamorato. Non corrispondeva l’onesta donna tale passione, sebbene la malafede e il tradimento di Filippo Maria infelicissima la rendessero, e quasi giustificassero un ricambio: solo si mostrava cortese allo sfortunato amadore. Di tutto accortosi Filippo Maria, fa subito incarcerare Michele Orombello e la casta sposa, accusandoli d’infedeltà. Sottoposta alla tortura, Beatrice resiste e si proclama innocente. Michele Orombello, o perchè più giovane e quindi più debole innanzi al dolore, o perchè consigliato perfidamente di confessare, per la salute di Beatrice, afferma.
«I giudici, servi vilissimi di Filippo Maria, e tremanti alla sua volontà, condannano al patibolo la più infelice fra le donne e il più sciagurato fra gli amanti. La pia donna sale al patibolo, rassegnata, baciando il crocifisso dove il Redentore agonizza e muore per i nostri peccati. Poi, visto il giovane scudiero che, piangente, disperato, sale con lei al supplizio, gli grida: io ti perdono, Michele Orombello! E lui: Ti proclamo la più innocente fra le spose! Ma a nulla vale: la volontà del prence deve eseguirsi. La mannaia recide il bruno capo dello scudiero; Beatrice grida: Jesu Maria! e la mannaia recide la bionda testa. Spettacolo miserando a cui tutti inorridiscono. Ma niuno osa proclamare infame il temuto Filippo Maria. Così sempre nella vita: la virtù è oppressa e il vizio trionfa. Solo dinanzi all’Eterno Giudice tutto è giustizia; solo dinanzi a quel Dio di misericordia che ha detto: Io sono la risurrezione e la vita».
Un silenzio profondo seguì la lettura. Fra loro le alunne si guardavano, sottecchi, tutte sconvolte. Caterina guardava Lucia con certi occhi spaventati e meravigliati. Lucia rimaneva in piedi, pallida, ansante, sdegnosa, con le labbra assottigliate. Taceva il professore, tutto pensoso.
— Il còmpito è lungo, Altimare — disse finalmente. — Voi avete troppo fantasia.
Di nuovo, silenzio. Poi la voce secca, maligna, fischiante di Cherubina Friscia:
— Date a me quel còmpito, Altimare.
Tutte tremarono, prese da un terrore ignoto.