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III.
Annottava da mezz’ora: nel crepuscolo di dicembre, l’aria si era fatta più rigida. Sotto il lume acceso, Caterina scriveva a sua cugina Giuditta, al collegio, che per l’altra domenica sarebbe andata a prenderla. L’orologio suonò le sei e mezzo.
— Andrea non viene — pensò Caterina — ho fatto proprio bene a dirgli di prendere il paletôt: queste sere si fanno fredde.
Finì la lettera, la chiuse, poi battè sul timbro. Venne Giulietta.
— Farete impostare questa lettera, col francobollo da un soldo.
— Debbo far preparare il pranzo?
— Sì: a momenti il signore verrà.
Ma il signore tardò sino alle sette, sino alle sette e mezzo. Caterina non s’impazientiva, solo aveva un segreto dispetto per questa lite del muro divisorio, che prendeva tutte le giornate di Andrea. Diceva anche fra sé che questa casa di Costantinopoli era un po’ fredda e che ci sarebbero voluti dei caminetti. Quanto tempo ci vuole per costruire un caminetto? Andrea ne avrebbe avuto piacere.
Suonarono alla porta. Certo doveva essere Andrea. Invece entrò Giulietta.
— Questa lettera da casa Sanna e questa dalla piccola posta.
— Va bene. Andate pure: fate tener caldo il pranzo.
Sebbene fosse un po’ disillusa, perchè Andrea non era giunto — ed erano quasi le otto — Caterina aprì con premura la lettera di casa Sanna:
«Signora Caterina, per carità, venite un momento. — Alberto».
Il carattere era tutto tremolante, a sgorbi, di penna che vacilla fra le dita di chi scrive. La soprascritta era di un’altra calligrafia. Caterina ne fu sgomentata. Che poteva essere accaduto? Male ad Alberto, no, poichè avrebbe scritto Lucia: male a Lucia, allora, sicuramente. Chi sa che male, chi sa che cosa! Bisognava andare. Suonò il timbro:
— Fate attaccare, Giulietta.
Quella la guardò meravigliata ed escì. D’un tratto Caterina, che andava a prendere un cappello e uno scialle, si fermò. E Andrea? S’era scordata di Andrea? Se Andrea ritornava e non la trovava, sarebbe andato in collera. Che fare? Sedette un momento, raccogliendo le sue idee: non era abituata a queste posizioni difficili, ella che non aveva volontà a sè. Finalmente si decise a scrivere due righe ad Andrea, chiedendogli scusa se usciva, per una mezz’ora, lasciandogli la lettera di Alberto come giustificazione; sarebbe tornata subito: egli pranzasse. Mise questa carta bene in vista sulla scrivania e vi posò il fermacarte.
Dopo si trovò ancora fra le mani la lettera della piccola posta. — Sarà Giuditta — pensò.
L’aprì, distratta, pensando a quello che era potuto accadere a Lucia. Lesse:
«O Caterina, pietà di me, o Caterina, abbi compassione, pietà, pietà, pietà! Sono una infelice. Parto con Andrea. Sono una creatura sventurata, non mi vedrai più. Soffro, spasimo, parto, muoio. Abbi pietà! — Lucia».
Lesse un’altra volta, rilesse, lesse per la quarta volta. Si sedette, accanto alla scrivania, con la lettera fra le mani. Era stupefatta.
— È attaccato — entrò a dire Giulietta.
Caterina chinò il capo, come se dicesse di avere inteso. Poi si rizzò: sotto i piedi sentì roteare il pavimento.
— Se mi muovo, cado — pensò.
Stette ferma: il capogiro crebbe, i mobili girarono attorno a lei, gli orecchi le fischiarono, una luce abbagliante le colpì gli occhi.
— Muoio, mi pare — pensò.
Ma il capogiro decrebbe, i giri diventarono sempre più larghi, sempre più lenti. Finì. Allora tornò a leggere la lettera. La ripose nella busta, se la mise in tasca, e vi tenne la mano sopra. Poi andò in camera, all’oscuro, prese il cappello, prese lo scialle, ma non se li mise. Li portava in mano, anche in anticamera.
— Tornate presto, signora? — domandò Giulietta.
Ella la guardò, trasognata.
— ... sì, credo.
— Al signore che gli dico?
— Vi è... sì, vi è un biglietto.
Discese le scale, entrò nella carrozza chiusa. Il cocchiere doveva essere stato avvisato da Giulietta, perchè non chiese indirizzo e si avviò per san Sebastiano. Caterina aveva posato lo scialle e il cappello dirimpetto a lei e, seduta in punta al cuscino, senza appoggiarsi, teneva ancora la mano sulla lettera, in saccoccia. Dai cristalli abbassati delle portiere entrava l’aria rigida: ella ne provava impressione, al collo, di malessere. Poi, non potette resistere e, al chiarore fugace dei lampioni a gas, rilesse, per la sesta volta, le parole di Lucia. Pel moto della carrozza, per le ombre subitanee che succedevano alle luci, le parole scritte balzavano avanti, indietro, sotto, sopra — e Caterina se le sentiva balzare dentro la testa, urtando la fronte, urtando la nuca, battendo alla tempia destra, battendo alla tempia sinistra.
Era un tempestìo di colpetti rapidi, un battito di tamburello sotto il cranio: ella crollava il capo, ogni tanto, come per vincere questa impressione. Piegò il foglio: l’impressione si attenuò, scomparve, e la stupefazione avvolse di nuovo quel cervello.
Ella salì lentamente le scale, portandosi bene stretto il suo scialle, per un moto macchinale. Trovò la porta aperta, spalancata: nell’anticamera la cameriera parlottava vivamente col servitore, puntando il suo discorso di gesti espressivi. Quando la videro entrare, pian piano, vestita da casa, senza cappello, senza guanti, tacquero. Poi, come ella si fermava, presa da una indecisione, non comprendendo dove fosse, non sapendo che cosa fosse venuta a fare, la cameriera le disse sottovoce:
— Il signore l’aspettava.
Di quale signore parlava? Caterina guardava la cameriera, fisamente, senza batter palpebra.
— Il povero signore ha di nuovo fatto il sangue, verso le tre. Se ne è accorto questa volta: stasera, quando ha ricevuto la lettera della signora, si è fatto rosso, ha strillato, si è riscaldato, ha tossito, e ha buttato di nuovo il sangue, in salute vostra...
La signora, il sangue? Di che le parlavano?
— Ora vi accompagno di là, signorina. Ma fatevi capaci tutti e due: era una cosa che così doveva succedere.
A queste parole Caterina tremò tutta, da capo a piedi: uno sconvolgimento le attraversò il volto. Inchiodata al suo posto, guardava con gli occhi pieni di dolore la cameriera.
— E che ci volete fare, signora mia? Andiamo da quel povero signore.
La precedette: ella andò dietro, docilmente. Nel salotto di Lucia vi era un grande disordine. Arrovesciate le poltroncine; sfogliati, sparpagliati i quaderni di musica sul pianoforte; il cestello da lavoro capovolto, vuoto, rotolati i gomitoli, disperse le lane, giacente per terra, come un cencio, il grosso canevaccio che Lucia ricamava; il tavolinetto da scrivere con la cartella aperta, i cassetti vuotati, le lettere cadute sul tappeto: un campo di battaglia.
— È il signore che ha fatto questo. Pareva un pazzo — spiegò la cameriera.
Lasciarono a destra il salone, oscuro; entrarono nella camera. Una penombra vi regnava: vi era solo accesa una lampada da notte, dietro un cristallo opaco, posta in modo che il letto rimanesse in ombra. Silenzio profondo. Solitudine. Un acuto odore di medicina saliva nell’aria, insieme a quel puzzo speciale delle stanze degli ammalati. Caterina, istintivamente, aguzzò gli occhi e si avanzò verso il letto. Alberto vi giaceva, lungo disteso, supino, appoggiando la testa e le spalle a una pila digradante di cuscini. Era vestito, ma aveva la camicia lacera sul petto e le gambe avvolte in uno scialle da donna. Accanto a lui, sul tavolino da notte, boccette, fiale, bicchieri, ostie, scatoline rosse di pillole, pacchetti di cartelline di medicamenti sventrate. Di sotto il cuscino spuntava un fazzoletto, il fazzoletto bianco dove lui sputava. Dalla parte dove Lucia dormiva, nella viottola, era arrovesciato l’inginocchiatoio.
Caterina si chinò sul letto. Egli aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, donde usciva un respiro corto e lieve: appena appena si sollevava il petto. Egli aprì gli occhi e, vedendola, gli si gonfiarono di lagrime. Le lagrime discesero, lente, per le guance sparute, caddero sul collo: la cameriera cavò il fazzoletto dal taschino del grembiule, e glielo passò sulla faccia. Egli le fece un cenno con la mano, come per ringraziarla e per licenziarla.
— Volete un pezzetto di neve, ancora?
— Sì — fu un soffio fievole.
La cameriera lo prese da una scodella e glielo mise in bocca.
— La cartellina... non è ora ancora?
— No: vattene.
Ella se ne andò pian piano, dopo aver fatto un giro per la stanza. Caterina era rimasta ritta, stringendo al petto il suo scialle. — Ora capiva tutto quello che vedeva e che sentiva: anzi la sensazione diventava così acuta che ella soffriva al rumore delle parole, che la luce le acciecava gli occhi, che quell’ammalato le appariva in tutta l’anatomia di un corpo etico, dal profilo a lama di coltello, al mento saliente e magro, al petto scheletrito, alle gambe miserabili. Ella sentiva troppo, vedeva troppo, capiva troppo.
— Venite più vicino e sedetevi. Io non posso alzar la voce, nè voltarmi. Potrebbe prodursi una nuova emottisi.
Ella prese una sedia, sedette di contro il letto, in modo da veder Alberto in viso, incrociò le mani in grembo e aspettò. Egli inghiottì con difficoltà il pezzetto di neve, poi, con quanta desolazione può esservi in una voce rauca e bassa, le disse:
— Avete saputo, eh?
A lei batterono le palpebre due o tre volte, ma non trovò nulla da dirgli. Alberto con gli occhi socchiusi, il mento sollevato e il capo affondato nei cuscini, non la guardava, fissava vagamente la tendina bianca del letto.
— Non me lo sarei mai aspettato, un tradimento simile. Ve lo sareste aspettato voi? No, è vero?
Ella accennò di no. Assolutamente non trovava la forza di parlare: pareva che la sua volontà, inerte, non giungesse più sino ai nervi.
— Lucia pareva che mi volesse tanto bene! Era così buona, non pensava che a me. Voi lo vedevate, come lo vedevano gli altri, quanto ella mi volesse bene. Come ha potuto farmi questo?
Egli si lamentava a bassa voce, risparmiando il fiato, non rivolgendosi a Caterina, lagnandosi alla stanza, al letto, alle cortine.
— Anche stamattina mi ha baciato, tre volte. Io doveva capirlo che ella se ne andava, non dovevo lasciarla escire.
Una tossettina agra gli raspò la gola.
— Datemi, datemi un pezzetto di neve.
Ella gli porse la scodella: Alberto, senza guardare, si mise un pezzetto di neve in bocca e tacque, ripigliando fiato.
— Vi ha scritto lei? — domandò poi.
Caterina cavò di tasca la lettera e gliela porse.
Alberto l’alzò all’altezza degli occhi e lesse, ansiosamente.
— Qui non vi è niente, nè dove vanno, nè a che ora partono. Ma io l’ho saputo, a che ora sono partiti. Sono partiti col treno delle due e mezzo, col diretto Torino-Parigi. Hanno impostate le lettere alla ferrovia. Andrea che vi ha scritto? Che dice lui? Perchè mi ha fatto questo? Che vi scrive?
— Nulla — rispose Caterina, e le cadde la testa sul petto.
— Nulla? Ma sono proprio due infami? Sono proprio due assassini? Sentite, sentite: è certo che essi mi hanno ucciso.
Si era quasi levato sul letto, strangolato da una rabbia impotente, stringendo il piccolo pugno, schiudendo la bocca per respirare, per poter gridare. Ella lo guardava, con gli occhi spalancati, colta di nuovo dallo stupore, che ogni tanto le immobilizzava il cervello.
— Voi dunque non avete ricevuto che questa lettera, voi dunque non sapete niente di quello che hanno fatto? Sapete solamente che se ne sono andati? Per questo siete così fredda? Dovreste sapere, dovreste sapere... che infamia, che infamia...
Ella fece uno sforzo di volontà, rialzò il capo, si avvicinò a lui, lo interrogò con lo sguardo.
— Ve lo racconterò pian piano. Il medico mi ha raccomandato di non sprecare il fiato. Quando mi vedete troppo eccitato, fermatemi. Un tradimento orribile. Durava da un pezzo, sapete, dalla villeggiatura di Centurano. O Dio, eravamo così felici a Centurano...
Uno smarrimento si dipinse sul volto della donna che lo ascoltava: ma egli non ci pensava.
—... invece quegli infami assassini ci tradivano. Anzi, che Centurano! È stato anche prima del mio matrimonio. Una sera che rimasero soli, a casa vostra, Andrea baciò Lucia, sul collo...
Caterina si contorse le mani, in grembo, come per una convulsione che non potesse espandersi.
— ... dopo, hanno fatto l’amore sotto i nostri occhi, scrivendosi, parlandosi, dandosi appuntamenti, con una sfacciataggine!... Non ci siamo accorti di niente. Tutto per quella dannata Esposizione! E che ne potevo sapere io, che mi avrebbero fatto questo? Sapete, si sono ancora baciati...
Egli stringeva i denti, narrando queste cose, gettando intorno intorno occhiate feroci, provando un piacere rabbioso, un’ebbrezza di collera, a ricordare tutti i particolari voluttuosi di quell’amore. Caterina, invece, tendendo il capo verso lui, conservava sul viso la sua espressione di sorpresa dolorosa.
— ... si sono baciati, i maledetti assassini. Egli me le ha morsicate le labbra umide e rosse della mia Lucia; quelle labbra che erano mie, solamente mie, egli me le ha prese, mettendoci i suoi grossi baci brutali, che le avranno fatte appassire. Vorrei che tu avessi respirato l’arsenico, la stricnina, in quei baci, e che ti avessero avvelenato nella loro dolcezza, brutto ladro, traditore. Ah! erano buoni i baci di Lucia, neh? Ah! ti son piaciuti e te li sei presi e te li sei portati via, ladrone di campagna, brigante, brigante...
Un colpo di tosse lo affogò: tossì lungamente, con la testa che sbalzava sul cuscino, col petto che palpitava, con un sonito rôco, come di membrana che si laceri. Tremante tutto, prese il fazzoletto e vi sputò entro. Con un gesto frettoloso e spaventato, si sollevò per vedere che avesse sputato, guardò con cura.
— È bianco — disse con un filo di voce, ricadendo sui cuscini, fiaccato, pallido ancora d’ansietà, il petto anelante come un mantice.
Si riposò per un pezzo, poichè l’accesso era stato forte. Ella aspettava, seguendo tutti i suoi movimenti. Quando egli aveva sputato, un piccolo moto di nausea le aveva fatto voltare la testa in là.
— Datemi un cucchiarino di codeina. È la bottiglina azzurra, che ha il cucchiaio accanto.
Caterina errò un poco con le mani sul tavolino da notte, non trovando quello che cercava. Quando gli versò la cucchiaiata, le sue dita tremavano. Egli bevette, la ringraziò, la guardò fiso, forse perchè quel tremore, quel silenzio e quella immobilità di lei cominciavano a colpirlo.
— Vi ha dovuto fare una grande impressione — mormorò. — Io era già sconvolto, mezzo morto, perchè avevo sputato certi fili di sangue. Subito avevo mandato pel medico, per Lucia, alla chiesa di santa Chiara.. Viene il medico, Lucia non viene. Non l’hanno trovata in chiesa. Mi dispero sempre più, vado, vengo, disordino tutta la casa. Quando ecco, arriva una lettera portata da un fattorino. L’apro, grido, cado per terra, mi mordo le mani e rompo un cristallo. Butto in aria mobili, tutto quanto ha appartenuto a Lucia. Se l’avessi potuta avere un minuto innanzi a me, ammalato, debole come sono, l’avrei strangolata. Dopo mi è venuto un impeto di tosse. Non ho sputato nulla. Poi un piccolo raschio: era rosso, rosso, rosso vivo, rosso fiammante. M’hanno ucciso, mi hanno ucciso...
La febbre della polmonite, che lo aveva accasciato in un sopore, sino al momento in cui era venuta Caterina, ora passava allo stadio acuto, crescendo di calore, salendogli dal petto infiammato alla testa, facendogli avvampare il cervello. Le sue idee, divenute incoerenti, si scomponevano.
— ... che è accaduto dopo? Non mi ricordo più. Vi ho mandata a chiamare, è venuto di nuovo il medico. Vedete che ho gittato a terra l’inginocchiatoio volevo sfondarlo con un calcio, ma non ho potuto. Ella si è portata via la sua Madonnina bizantina. Ella era pia, era religiosa, si confessava, si comunicava: che poteva sapere io, che facesse questo e poi commettesse quell’orribile peccato! Ma sapete, come amanti non si erano presi ancora, aspettavano la luna di miele come due sposi... infami, assassini... si prenderanno stanotte, domani, mentre io agonizzo qui, solo, come un disperato, come un cane...
Ella ebbe un movimento di terrore, di faccia a quel piccolo energumeno, avvolto in uno scialle da donna.
— ... io le aveva sempre voluto bene — riprese lui, dopo una lunga pausa, parlando piano — l’ho sposata per amore, perchè era bella, perchè era buona, perchè era istruita, perchè parlava poeticamente, perchè era infelice in casa di suo padre. Della dote non mi sono curato, se era scarsa. Qualche amico mi disse allora che le donne sposano sempre per un interesse. Io non ci ho creduto. Ella mi scriveva certe lettere così belle! Oh, ella era famosa per scrivere lettere! Ne ha scritte a Galimberti che è impazzito, ne ha scritte a me, ne ha scritte a voi, ne ha scritte ad Andrea. Glie le dava nei libri, le metteva sotto l’orologio, dappertutto. Io doveva capire, che lei mi sposava per interesse. Sapete che cosa ha portato via, insieme con la Madonna? I suoi brillanti, i brillanti che le avevo dato io!
E un ghigno d’ironia apparve sulle livide labbra dell’ammalato.
— ... i brillanti, capite? Quelli di mamma mia, che era una donna onesta. Ella li porterà alle orecchie, per lui che le bacerà il collo; li metterà fra i capelli, ed egli bacerà quei capelli; li metterà sul petto, e lui dormirà su quel petto. O Dio, se ci siete, Dio ingiusto, Dio spietato, fatemi schiattare un’ora prima del tempo!
Un silenzio tetro regnò nella stanza, dopo questa imprecazione. Ella, un momento si era fatta indietro, riparandosi con le mani, quasi che temesse di quel delirante, a cui la febbre del sangue e la febbre del cervello ingarbugliava le idee, eccitava le forze, e dava loro la vigorìa fittizia di un uomo sano.
— ... ci hanno traditi dappertutto. In casa, all’Esposizione, in carrozza, dappertutto, dappertutto ce l’hanno fatta, come due babbei che siamo. Nel bosco, nel giardino inglese, si sono distesi l’uno accanto all’altro, in un letto di verdura! Si sono data la mano: per le scale, al primo pianerottolo, si sono baciati, mentre noi salivamo avanti. Sul terrazzino, all’angolo, si sono baciati di nuovo. È un orrore, è una vergogna quello che hanno fatto. Credo che i servitori se ne siano accorti a Centurano. Si saranno burlati di noi: quella canaglia avrà riso sulle nostre spalle...
Ansava, con due macchie di un rosso-mattone sui pomelli.
— E sapete perchè li chiamo assassini, perchè dico che mi hanno ucciso? Ne ho ragione, per Dio! Il più odioso, il più crudele di tutto questo, è che per essi, pel loro dannato amore, io mi son preso questo malanno, che mi sarebbe stato risparmiato. In una notte fresca, per una notte intiera, Lucia è stata fuori al balcone e Andrea pure: io ho dormito una notte intiera col balcone aperto, con l’aria fredda che mi entrava nei polmoni, che me li ha infiammati, che me li ha fatti ammalare. Essi si guardavano, si chiamavano, si buttavano baci: io pigliava la tosse, che mi è durata due mesi e oggi mi ha fatto sputare rosso...
La guardò: ella si nascondeva la faccia fra le mani, inorridita.
— Voi non capite, è vero, come io so tutto questo? Ve lo ricordate quel romanzo che stava scrivendo Lucia, ogni notte? Un’altra falsità. Non era un romanzo: era il suo giornale. Ogni giorno vi scriveva tutto quello che le accadeva, con tanti pensieri, con tante fantasie. Tutto l’amore vi è per filo e per segno, ogni sguardo, ogni bacio, ogni fatto. Oh vi sono brani magnifici di descrizione, vi sono cose bellissime, narrate lì dentro. È una lettura istruttiva, e interessante. Voi ne profitterete, se volete. Leggete, leggete, che vi divertirete.
E allora, sogghignando come un Mefistofele scarno e tisico, cavò di sotto il cuscino un grosso manoscritto, coperto di carta azzurra. Lo gittò in grembo a Caterina; ella lo lasciò là, senza toccarlo, quasi temendo di scottarsi.
— Sì — disse lui, giunto al colmo dell’amarezza — Lucia ha voluto che io sapessi come andò il fatto. Ha preso la Madonna, ha preso i brillanti, ha preso le lettere di Andrea, ma s’è voluta benignamente scordare il giornale. Leggetevelo dunque. È un bel romanzo, un bel dramma.
Era esausto. Lo sforzo febbrile lo abbatteva ora in una sonnolenza, con gli occhi socchiusi, le mani abbandonate e gialle quale la cera, su cui si gonfiavano le vene violacee. Caterina, nella penombra, sfogliava, sfogliava il giornale, macchinalmente, prima senza leggerlo, poi leggendo una frase qua e là, afferrando un’idea in mezzo alle lamentazioni fantastiche, trovando un fatto in mezzo alle divagazioni rettoriche, di cui era pieno quel manoscritto. A qualche punto trasaliva e smetteva di leggere, gittando il capo indietro. Egli, nel torpore, tossicchiava senza forza, senza aprire gli occhi. A un tratto, uno scoppio violento di tosse gli lacerò il petto: la tosse cominciava piano, strideva, si abbassava, pareva finita, ma ricominciava insistente, dura: nei brevi intervalli egli si lamentava, con un piccolo gemito, quasi non ne potesse più, tenendosi le costole. Poi sputò di nuovo: di nuovo fece quel gesto precipitoso per vedere. S’abbandonò, con un grido debole di dolore. Aveva sputato rosso. Ella aveva assistito a questa scena: quando vide il sangue, trasalì e chiuse gli occhi, come se svenisse.
— Dunque, non mi giovano queste medicine? Questo medico mi conta delle frottole, dunque? Perchè non la ristagna questa emottisi? Ho mangiato tanta neve, ho preso tanto sciroppo di codeina, tanto acido gallico, per ristagnare il sangue! L’ho da sputare tutto il sangue? Perchè non mi ha dato questa sera l’ergotina, invece di domani, se è una medicina più possente?
I suoi gemiti di ammalato empivano la stanza, assidui, rôchi, tormentosi: egli aveva quella intonazione speciale degli infermi, a cui pare si usi la più grave ingiustizia, non guarendoli. Seguitava a prendersela col medico, con le medicine, con lo sciroppo che non gli calmava la tosse, con la neve inefficace, che non stagnava l’emottisi. Poi, brontolando ancora, finì per dire a Caterina:
— Scusate, datemi quella cartellina di acido gallico e un’ostia.
Con la pazienza di chi è abituato a queste cose, egli si fece la pillola, la ingoiò, facendo un atto di rassegnazione. Ella aveva chiuso il giornale.
— Non lo leggete più? Ne avete abbastanza, è vero? Invece io l’ho letto tutto e lo rileggerò, per imparare come si commettano queste cose spaventose. Eppure io era incapace di fare una cosa simile a Lucia: mi pareva la più bella, la più cara fra le donne. Io n’era innamorato, via, diciamolo, innamorato come una bestia. Non doveva farmelo, quello che m’ha fatto. Sapeva che ero ammalato, doveva risparmiarmi. Sapeva che sono solo, non doveva abbandonarmi...
Egli considerava la stanza deserta, l’inginocchiatoio arrovesciato, il posto della Madonna vuoto, i cassetti del cassettone aperti, e di nuovo gli cadevano le lagrime lungo le gote. Erano lagrime scarse e rare, che gli arrossivano la pelle stirata.
— Che contate di fare, voi, signora Caterina?
Ella si riscosse, lo interrogò, meravigliata.
— Vi chiedevo, che cosa farete voi?
— Niente — pronunziò ella, gravemente.
La parola desolata si allargò nella stanza, e la fece parere immensa nella sua vacuità.
— Niente; è vero. Che s’ha a fare? Niente. Quelli si amano, si sono presi, se ne sono andati, e buonanotte a chi resta. Seguirli? Sarebbe inutile: inutile raggiungerli. Già chi ci va? M’hanno assassinato. Eppure io sono tanto debole, tanto vile, tanto ridicolo, tanto inetto che, malgrado tutto, sento che voglio bene ancora a Lucia. Le voglio bene, non ci è che dire, malgrado la sua malvagità, malgrado il tradimento, malgrado la bugia continua: le voglio bene, perchè gliene voglio, ecco. Sono così legato a lei, così avvinghiato, che la sua mancanza mi farà morire, se questa emottisi non lo fa. Oh che donna, che donna è mai quella, come vi prende, come vi porta via, come non vi lascia mai più...
Spalancava gli occhi, quasi la vedesse apparire, visione seducente, le tendeva le braccia, le tendeva le labbra, chiamandola, delirando per uno di quei trasporti d’amore che hanno gli ammalati giovani.
— Oh ritornasse per un sol giorno, per un sol momento! Ritornasse per una sola volta, per poi andarsene di nuovo! Oh ritornasse, che le perdonerei! Ritornasse, ritornasse per vedermi morire! Non mi lasciasse morire qui, in questo grande letto gelido, che la mia febbre non riscalda, in questa larga camera, dove ho paura di stare solo!
Vaneggiava. Frugò di nuovo sotto il cuscino, ne cavò una lettera e un involtino di carta.
— ... sentite, m’ha mandato questo, insieme alla lettera. Sono gli anelli nuziali. Ecco quello che io le detti, ecco quello che voi deste ad Andrea. Credete voi che essa ritorni, mai?
— No — disse Caterina, rizzandosi in piedi — essi non ritorneranno mai più.
E preso l’anello suo se ne andò, mentre Alberto vaneggiava ancora.
— ... almeno avesse mentito un po’ di più, almeno avesse aspettata la mia morte! Non doveva aspettare tanto, la sciagurata...