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IV.
Nella notte, nella sua camera oscura, seduta accanto al letto, Caterina pensava. Era rientrata in casa, senza parlare a nessuno: nessuno le aveva detto nulla, poichè tutti sapevano. La casa era in ordine, composta, fredda e silenziosa: sul tavolino era ancora il biglietto che ella aveva scritto a suo marito, per scusarsi di escire sola.
Lo lacerò e gettò i pezzettini nello stracciacarte. Giulietta che la seguiva a passi lenti, cercando sempre di dirle qualche parola di consolazione, fu licenziata da lei come ogni sera, con un saluto breve. La cameriera disse al cuoco e al cocchiere che la signora non aveva versato una lagrima, ma che aveva una faccia brutta assai. In fondo la compativano, ma era una cosa preveduta, tutti loro lo sapevano, da Centurano: bisognava essere ciechi per non averlo visto. Poi il conciliabolo si disciolse, e un profondo silenzio avvolse la casa.
Caterina, in camera sua, aveva smorzato il lume, ma non si era spogliata. Aveva un insistente bisogno di ombra in cui chinare la faccia e pensare. Malgrado l’oscurità, vedeva il biancore del letto, che le faceva spavento. Se ne stava seduta, l’una mano sull’altra, posando la punta delle dita sull’anulare, dove due anelli erano infilati. Ogni tanto, quando le arrivava la sensazione di quel secondo anello, sussultava e gemeva in se stessa.
Così ricordava tutto il passato. La sua vita, uniforme e pacata, le si svolgeva dinanzi con una nettezza di particolari come se la rivivesse. Aveva avuto la mamma sino a sette anni, il papà sino a nove, era stata con sua zia sino a undici anni. Una infanzia tranquilla, salvo il dolore indistinto, informe, di quelle due morti, un dolore senza gridi e senza pianti. Si era sempre vergognata di piangere, quando la gente la vedeva: aveva pianto per i morti, di notte, nel suo letticciuolo di bimba, tirandosi il lenzuolo sulla testa. Dopo, in casa di sua zia, aveva avuto una grande malattia, molto complicata, molto pericolosa, tutto lo sfogo di quelle malattie che l’infanzia deve avere. Si ricordava che le avevan fatto fare la prima comunione in fretta e in furia, temendo che morisse. Ella non aveva capito nulla e non aveva provato una forte impressione: così da quella prima volta le era rimasta una pietà religiosa molto calma, senza entusiasmi mistici, ma rigorosa come per lei erano rigorosi tutti i suoi doveri.
Quando s’era guarita, la zia l’aveva posta in collegio, il primo di Napoli, e le aveva amministrato la sua dote. Era una zia fredda e onesta, senza figliuoli, che non si effondeva in espansioni, ma veniva puntualmente il giovedì al parlatorio, e la domenica se la portava fuori, al passeggio, al teatro diurno. Caterina si ricordava di quel primo anno di collegio, dove si trovava meglio che in casa sua, dove si abbandonava al piacere interiore, tutto quieto, di starsene fra le altre fanciulle, senza giuocare, ma vedendole giuocare, senza parlare, ma udendole parlare. Invero lo studio era un po’ duro per lei, ed ella doveva applicarsi molto per imparare; le maestre della prima classe le davano sempre il massimo dei punti per la condotta, ma punti mediocri per lo studio. Non era stata mai in castigo quel primo anno, e all’esame finale, fra ventotto, era stata la quindicesima: aveva avuto una medaglia d’argento per la buona condotta.
A questo punto cominciava il dualismo nella sua vita di collegio, poiché appariva Lucia, che aveva trovata nella seconda classe. Alunna meravigliosa che superava tutte le altre, fanciulla sottile, magra, dalle lunghe trecce nere che le pendevano sulle spalle, che passava due giorni in iscuola e i tre giorni all’infermeria, che era la carità della maestra insegnante, la carità della maestra assistente, la carità di tutte le sue compagne. Era una bambina malaticcia e pensierosa, i cui grandi occhioni pareva divorassero tutto il viso, che riusciva a tutto, senza aprire i libri. Molte fanciulle ambivano di avere la sua amicizia, ma un giorno ella, con la sua voce esile, aveva detto a Caterina:
— M’han detto che non avete nè mamma nè babbo: anche a me è morta la mamma e porto questa fascia nera al braccio, pel suo lutto. Volete essere amica mia?
D’un tratto — si ricordava Caterina — ella si era messa ad amare col suo piccolo cuore, ma con tutte le sue forze, questa creatura malinconica e snella come un giunco, che non giuocava mai e parlava come una donnina di quindici anni, quando ne aveva undici. Si ricordava tutto questo amore infantile, fatto forte dalla convivenza. Nelle ore di ricreazione avevano passeggiato pei corridoi, tenendosi per mano senza parlare, andando su e giù, come le altre andavano: nelle ore di scuola s’erano sedute nello stesso banco, daccanto, prestandosi la penna, il pezzetto di carta, il lapis: a tavola sedevano dirimpetto, si guardavano, e Caterina passava la sua parte di dolce a Lucia, che mangiava solo quello: in cappella, pregavano daccanto: nel dormitorio erano poco lontane. In verità, per ingegno, per bellezza, per statura, Lucia era superiore a Caterina, e Caterina aveva riconosciuto tacitamente tutto questo. Anche nel collegio lo riconoscevano. In collegio distinguevano le coppie di amiche così: una che amava e l’altra che si lasciava amare. Quella che si lasciava amare era la bellezza; quella che amava era la capezza, le redini dell’asino, qualche cosa di umile, di devoto, di paziente, di servile. La bellezza aveva tutti i diritti; la capezza nessun diritto e tutti i doveri. Le si permetteva di amare, ecco tutto. Nella coppia Altimare e Spaccapietra, Lucia era la bellezza e Caterina la capezza.
Infatti ella si ricordava di essere andata varie volte in castigo per lei, o per averla seguita, quasi trascinata, in una capricciosa fantasia, o per averla difesa contro la maestra, o per averle fatti i compiti di aritmetica, troppo gravi per la testolina poetica di Lucia. Lucia piangeva, si disperava, cadeva in deliquio, quando Caterina era punita per colpa sua; e Caterina finiva per consolarla, per dirle che non era nulla, per pregarla di smettere, che lei in castigo ci andava volentieri. In verità, Lucia era una creatura profondamente affettuosa, espansiva sino all’entusiasmo, i cui baci avevano qualche cosa di frenetico, che offriva sempre il proprio sacrificio all’amicizia: Caterina, che non trovava parole per esprimersi, il cui affetto era tranquillo e muto, che non poteva entusiasmarsi mai e che non era mai svenuta, si vergognava talvolta di amar poco. In tutto, Lucia la superava.
Così erano passate di classe in classe, Caterina sempre fra le mediocri, prendendo qualche medaglia di bronzo, qualche menzione onorevole, non suonando mai alle premiazioni, alunna incolore, apprezzata poco dai professori, ma non trattata male. Non aveva neppure nulla d’interessante nel carattere, come Artemisia Minichini, che era insolente e scettica, come Giovanna Casacalenda, che era civetta e provocante: la direttrice non la sorvegliava neppure. Il maggiore suo pregio era l’amicizia per Lucia. Non la si conosceva per altro. — Dov’è Altimare? — Spaccapietra, dicci dov’è Altimare. — Come sta Altimare? — Spaccapietra, tu devi sapere come sta Altimare.
Invece Lucia faceva ogni anno un esame brillantissimo, prendeva la medaglia d’oro per la composizione, recitava nelle commediole delle premiazioni, scriveva gli indirizzi di congratulazione per l’onomastico della direttrice. I compiti suoi facevano impressione: una volta se ne lesse uno, davanti a tre classi riunite. Ma quello che più spiccava, era il suo strano carattere, che destava la curiosità dell’intero collegio. I suoi accessi di misticismo, le sue malinconie profonde, i suoi pianti negli angoli oscuri del collegio, la sua passione pei fiori, le sue nausee all’ora del refettorio, le sue convulsioni nervose, tenevano sempre desta l’attenzione del collegio. Quando ella passava, alta, sottile, gli occhi pensosi e vaganti, le braccia prosciolte, le alunne si voltavano, se la indicavano, ne parlavano sottovoce.
La direttrice la sorvegliava, Cherubina Friscia aveva speciali istruzioni che riguardavano Lucia Altimare, i professori la tenevano d’occhio. Al parlatorio le altre fanciulle la indicavano, pian piano, alle loro madri come un tipo strano. Ella lo sapeva; e girava occhiate languide e aveva i movimenti belli e malinconici della testa. In verità, il suo carattere era la sofferenza: sofferenza lenta, continua, assidua, che l’abbatteva per settimane intiere e poi la gettava in certe crisi dolorose che facevano pietà. Oh, Caterina ne aveva sempre avuto una compassione profonda che non sapeva troppo manifestare, ma che non era per questo meno sincera, meno intensa.
Poi, l’ultimo anno era stato agitato; era una meraviglia se Caterina, in mezzo a quelle fanciulle, che fremevano di andarsene, che anelavano di vivere, che avevano già gli innamorati, i fidanzati, i mariti, gli amanti in prospettiva, che odiavano il collegio, che s’impazientivano alle lezioni, che rispondevano impertinenze alle maestre, era una meraviglia che ella avesse conservata la sua tranquillità. Sua zia le aveva detto che Andrea Lieti sarebbe stato suo marito, ella era tranquilla sul proprio avvenire. Invece era inquieta sempre per Lucia, che in quest’ultimo anno era stata sempre più malaticcia, che aveva fatto innamorare Galimberti, che aveva deciso di farsi monaca, che aveva tentato di suicidarsi — Caterina l’aveva salvata.
E infine, come un sogno, nella memoria ricompariva l’ultima notte del collegio, in cui erano andate nella cappella, si erano inginocchiate e avevano giurato, innanzi alla Madonna, di amarsi sempre.
Scompariva Lucia, entrava Andrea in iscena. Andrea era stato buono e amabile con Caterina, nel tempo che le faceva la corte. Si era cominciato come per un matrimonio di convenienza, perchè il giovanotto voleva ammogliarsi e la dote gli conveniva, perchè la fanciulla, senza parenti, doveva maritarsi e guadagnava moltissimo, sposando Andrea; subito i due fidanzati si erano intesi perfettamente. Andrea aveva un temperamento forte, violento alle volte, scoppiante in certi sfoghi furiosi di collera; ma il temperamento di lei, mite e tranquillo, era fatto per calmarlo. Egli non le aveva scritto lettere nè donato fiori, nè era venuto più di due o tre volte alla settimana, nel tempo in cui erano fidanzati; ma Caterina non aveva sentito la mancanza di queste forme dell’amore. Essa trovava l’amore negli occhi onesti e allegri di Andrea, che si posavano su lei così vividi. Subito si era messa ad ammirarlo per la sua bellezza erculea, per la sua salute fiorente, per la sua vigorìa, per la sua grazia di atleta signorile che sta bene in giacca e in marsina.
Subito subito, si era messa ad amarlo, perchè lo trovava buono, perchè lo trovava onesto, perchè lo trovava giusto. Quel gagliardo che in certi momenti diventava un bambino, che in certi momenti trovava delicatezze femminili, la commuoveva. Come sempre, per difetto di forma, per timidità, ella non trovava il modo di manifestare questa commozione.
Anche dopo, nel matrimonio, essa era stata sempre un po’ riservata, facendosi piccola piccola innanzi a suo marito, non trovando frasi o pensieri eleganti o idee poetiche, per dirgli che gli voleva bene. Ma forse egli doveva intenderlo, perchè ella, dalla mattina alla sera, si occupava del suo benessere, della casa, del pranzo, prevedendo quello che egli desiderava, facendogli trovare il salotto fresco in estate, la camera calda in inverno, la vivanda che preferiva, e la moglie sempre elegante, sempre serena, sempre sorridente. No, ella non sapeva dirgli quanta felicità dilatasse il suo piccolo cuore quando Andrea la sollevava sul suo largo petto, la baciava sul collo, e la chiamava Ninì; ma ogni giorno ella gli provava la sua riconoscenza, non pensando che a lui, non occupandosi che di lui. Ella non gli diceva che nei giorni di caccia, quando restava sola, si annoiava lungamente, pensando sempre a lui che era lontano: al ritorno, egli era così felicemente stanco, così allegro, che ella non gli parlava di quelle ore solitarie. Se si dividevano per otto o dieci giorni, ella gli scriveva ogni giorno, ma brevemente, sugli andamenti della casa, su chi era venuto. Ella non sapeva far fiorire le sue lettere: cominciava caro Andrea e finiva, la tua affezionatissima moglie, Caterina. Internamente ella si doleva un poco di questa sua timidità e pensava talvolta di essere molto stupida. Già quel povero Galimberti glielo aveva detto, una volta:
— Spaccapietra, voi mancate assolutamente di fantasia.
Allora ella, per rincorarsi, pensava che Andrea doveva intenderlo quanto essa gli volesse bene, da tutte le azioni della sua vita, senza che ella glielo dicesse. Per fortuna, Andrea era un carattere aperto, franco, non gli piacevano le smorfie, non si sdilinquiva in frasi, sapeva amare robustamente, senza chiedere ogni momento alla moglie, nella luna di miele:
— Mi vuoi bene?
Tanto, ella non sapeva rispondere che questo:
— Sì.
Di nuovo veniva in campo Lucia, più bella, più nervosa, più sofferente, più fantastica. Si trovavano di fronte, nella sua vita, Lucia e Andrea. Oh si ricordava, si ricordava quanto aveva sofferto tacitamente per il dissidio profondo, per l’antipatia reciproca, che esisteva fra questi due esseri che amava. Il suo cuore era combattuto, in una segreta battaglia, fra l’amore per Andrea che trovava odiosa Lucia, e l’amore per Lucia che disprezzava Andrea. Ella non osava convincere nè l’uno nè l’altro: nè sapeva dividersi. Voleva bene ad ambedue, non egualmente, ma diversamente. Quando essi si avvicinarono e l’antipatia scomparve e nacque la cordialità, ella inneggiò nel suo cuore a questo miracolo, che aveva desiderato con tutte le sue forze. Non poteva esprimere nè all’uno nè all’altro quanto di più li amasse, perchè avevano voluto essere amici — ma tutto un anno ella aveva cercato di dimostrare loro la sua gratitudine. Era vissuta fra loro due, per loro due, pensando sempre al modo di render loro gradevole la vita, preoccupandosi del loro spirito e del loro corpo, non avendo in mente che il benessere di queste due persone, in cui si riassumeva la sua vita.
Così aveva vissuto Caterina Lieti, così la vita intiera le si svolgeva dinanzi, come una rappresentazione a cui assistesse, in quella notte d’inverno. I suoi ricordi erano chiari e precisi, come era stata chiara e precisa la sua esistenza. Ma con una pazienza tranquilla, ficcando gli occhi nel buio, volendo discernere meglio, ella ricercò qualche altro incidente, qualche cosa di singolare, di eccezionale che non rassomigliasse a quanto aveva ricordato sin’allora. Non vi era stato nulla, proprio nulla? Due volte rifece questo esame: non trovò niente. La sua coscienza era stata calma, tutta eguale, uniforme, riassunta in due costanti ed efficaci amori: Andrea, Lucia.
Ebbene, ora intendeva tutto. La scienza della vita era arrivata di un colpo solo, ma aveva subito scacciato la ingenuità e la fede del suo cuore. La sua intelligenza si era aperta alla lezione violenta e selvaggia, applicata come una martellata. Si sentiva un’altra donna, fatta più grande, più solida, col giudizio acuto e freddo, con l’occhio indagatore e la coscienza implacabile. Non trovava più in sè nè indulgenza, nè pietà, nè illusione, nè bontà, ma trovava una giustizia inflessibile che esaminava persone, cose, avvenimenti.
Ora intendeva tutto. La personalità di Lucia invadeva la vita intorno: Lucia protagonista, Lucia sovrana. Questa personalità saliva all’orizzonte, profilandosi nettamente, in un contorno rilevato, come scolpito, senza sfumature, senza nebulosità, senza illusioni ottiche, crudele nella sua verità. Invano Caterina chiudeva gli occhi abbarbagliati, per non vedere questa verità: la verità le filtrava attraverso le palpebre, come un raggio di sole. Questa figura così grande e così sviluppata attirava a sè tutte le altre, le affascinava, le seduceva, se le pigliava, se le incorporava — e giù, nel basso, non restavano che certe ombre piccole e dolenti, che si agitavano, facendo gesti vaghi e disperati, in una nebbia bigia. Lucia sovraneggiava, bella e feroce, senza chinare gli occhi su quelli che si torcevano le braccia, senza ascoltarne i gemiti, gli occhi socchiusi per non vedere, le orecchie insensibili: contemplando sè, adorando sè, idoleggiando sè.
Era dunque una creatura mostruosa, uno spirito guasto dall’infanzia, un egoismo che si gonfiava, si gonfiava, e assumeva la faccia bella e crudele della fantasia. Al fondo, il cuore freddo e arido, senza un palpito di entusiasmo, per nulla: e alla superficie una immaginazione pomposa, che ingrandiva ogni sensazione e ogni impressione. Dentro, nel cuore, la mancanza completa del sentimento: all’esterno tutte le forme del sentimentalismo. Dentro l’indifferenza per ogni essere umano; e fuori, il vaneggiamento sulle nobili utopìe dell’umanità, le aspirazioni fluttuanti intorno a un ideale incerto. Dentro, la pietra pomice che non si ammollisce, che non si commuove, che rimane dura, spugnosa e irta; e fuori, la dolcezza della voce e la soavità della parola. E l’artificio così profondamente radicato nell’anima, da sembrare natura; l’artificio così completo, che di notte, solo, dinanzi a se stesso, trova modo di ingannare se stesso e di credersi veramente innamorato, veramente infelice; l’artificio così diventato carattere, temperamento, sangue, nervi, da avere la profonda convinzione della propria bontà, della propria virtù, della propria eccellenza.
La figura si ergeva sempre più, rivelando cinicamente la falsità del suo carattere, mostrando la menzogna incastrata in tutte le sue linee. Dare la fantasia per errore, la fantasia per sentimento, la fantasia per amore, la fantasia per amicizia, la fantasia per dolore: non avere altro che fantasia smagliante, rovente e darla in cambio delle più soavi e placide cose. Fantasticare su Dio, fantasticare sulla Madonna, fantasticare sul mondo, fantasticare sull’affetto, fantasticare sempre; e mettere la falsità del sogno, nella realtà della vita. Avere la scienza della fantasia che rende provocante l’occhio, voluttuosa la voce, affascinante il sorriso, irresistibile il bacio; avere il gusto fantastico dei contrasti, stuzzicare i propri nervi col tormento altrui, creare il dramma per progetto, artificiale per sé, reale e terribile per gli altri. Così Lucia.
Questo mostro sorridente e piangente, dalle lagrime commoventi, dalla voce incantatrice, dalle flessuosità innamoranti, dalla poesia ammaliatrice della parola; questo egoismo profondo e femminile, aveva preso per sé tutto quanto aveva d’attorno. Caterina l’aveva compatita e amata, Galimberti l’aveva amata e compatita, Alberto l’aveva amata, Andrea l’aveva amata. Ella si era posta in mezzo a loro e ne aveva succhiato tutto l’amore. Al languore del suo volto, tutti avevano languito; ai suoi mistici abbattimenti, tutti avevano sofferto; alla sua passione posticcia, tutti s’erano bruciati profondamente nella carne. Il suo egoismo si era ingrassato di sacrifizi e di abnegazione: e con tutto questo, coloro che l’amavano, l’amavano sempre più. Chi aveva provato di avvicinarsi a lei, era stato attirato e assorbito. Coloro che essa prendeva, non li liberava più. Le anime s’incorporavano in lei, pensavano quello che essa voleva pensassero, fantasticavano le sue fantasie, sognavano i suoi sogni, trasalivano ai suoi sussulti. I corpi si attaccavano a lei, invincibilmente, senza scampo, ricevendo da lei la salute, da lei il morbo.
E per l’ingrandimento di questo egoismo altissimo, per la sua gloria, per il suo trionfo, per l’apoteosi di questo egoismo, Caterina vedeva l’infelicità di quanti avevano circondato Lucia: la sorte di Galimberti che moriva pazzo al manicomio, la miseria della madre e della sorella affamate e desolate, l’agonia disonorata e lugubre di Alberto abbandonato, il disonore di suo padre e del suo nome, la rovina di Andrea che lasciava casa, moglie, patria, per vivere accanto a Lucia una vita disperata — e infine l’ultima vittima, la più innocente, Caterina, a cui Lucia aveva tolto quanto aveva.
Tutto questo era irreparabile. Orribili le agonie dei morenti che chiamavano Lucia ancora e l’amavano: orribile la vita dei superstiti che la odiavano, la maledicevano, e l’amavano. Irreparabile quello che finiva, irreparabile quello che durava. Lucia assurgeva, troneggiante, gloriosa, sfacciata, formidabile, gittando l’ombra del suo egoismo immane sulla terra, ombreggiando col suo immane egoismo il cielo.
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L’alba spuntava bigia, livida, gelata. Caterina era ancora là, intirizzita sulla sua sedia, stringendo con le dita irrigidite l’anello nuziale restituito. Quando, alla luce scialba, vide il letto bianco, teso e freddo, ebbe un grido di terrore, un grido straziante, che non pareva umano. Si buttò a braccia aperte dove Andrea dormiva sempre — e pianse su quella tomba.