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◄ | Parte quinta - IV |
V.
— Sarebbe meglio se vi metteste a letto, signora — disse pietosamente Giulietta — non vi siete neppure spogliata.
— Non avevo sonno — rispose semplicemente Caterina.
— Volete da colazione?
— No.
— Vi porto almeno il caffè — Portami il caffè.
Le lagrime erano finite, ma gli occhi le abbruciavano vivamente. Passò nello spogliatoio e se li lavò con l’acqua fresca. Anzi immerse tutta la testa nella catinella, provando un grande refrigerio in quella impressione di freschezza. Giulietta, col caffè, la trovò ancora a prendere quel bagno.
— È venuta la cameriera del signor Sanna. Il povero signore ha farneticato tutta la notte: questa mattina, in salute vostra, ha buttato un’altra volta il sangue. Dice la cameriera che è uno spettacolo da piangere. Come ha potuto succedere, Madonna mia, questo brutto fatto!
Caterina le alzò in volto gli occhi freddi e severi e la guardò. Giulietta, intimidita, tacque.
In cucina, poi, essa disse al servitore, al cocchiere e al cuoco:
— La signora è femmina, come ce ne stanno poche. Vedrete che sopporterà questa disgrazia con coraggio.
— E che ha da fare? — soggiunse il servitore. — Se stava bene il signor Sanna, era ben fatto se fosse andata a stare con lui.
— Sst! zittì il cuoco — la signora non è femmina da questo. La conosco io, che l’ho in pratica. Non lo farebbe.
— Io dico che il signore non torna più... — soggiunse, poi, il cuoco. — Ci scherzate? Quella donna Lucia è una femmina fina assai.
Caterina, in camera sua, andava e veniva, riponendo in ordine certi oggetti sparsi, il cappello, lo scialle, aprendo e chiudendo gli armadi: si trattenne qualche tempo ritta innanzi ad essi, passando in rivista gli scaffali della biancheria, contando la roba, come se la volesse catalogare. Si fermava a pensare, ogni tanto, quasi verificasse le cifre che aveva in mente. Questo esame lungo e minuto le fece perdere molto tempo. La roba di suo marito era tutta lì; in un angolo il fucile da caccia, la carniera e la cartucciera. In camera era tutto in ordine. Passò nel salotto, dove la sera prima aveva letto quella lettera. I cassetti della scrivania di suo marito erano aperti, ad uno stava la chiave: li rovistò, carta per carta, lettera per lettera. Erano tutte carte di affari, contratti, donazioni, affitti, fatture, le lettere di amicizia, le lettere che lei, Caterina, gli scriveva quando egli era assente: tutto l’incartamento della Esposizione era là, verbali, rapporti, relazioni, comunicazioni. Ella sfogliò pazientemente questa roba. Lesse tutto, seduta, tenendo il cassetto sulle ginocchia, appoggiando il gomito sulla scrivania, e reggendosi la fronte con la mano. Avvertiva solo un grande stordimento, sentendosi la testa vuota e le orecchie ronzanti. Ma le passava, e ricuperava tutta la lucidità della sua attenzione. Dopo, finita la lettura, impacchettò tutte le lettere, attaccandole con lo spago, riunì in tanti fasci le carte che concernevano gli affari, e vi scrisse, con la sua calligrafia rotonda e chiara, il titolo dell’affare, la data, il nome. Non le tremava la mano, scrivendo, e quando ebbe finita questa lunga faccenda, ripulì la penna sul nettapenne e abbassò il coperchio del calamaio. Ma in fondo al grande cassetto trovò un altro fascio di carte: erano i capitoli matrimoniali, dieci fogli di carta bollata: li lesse tutti, ma li ripose al loro posto, senza scrivervi nulla sopra.
Chiuse i cassetti e riunì la chiave al mazzo delle altre, che serbava in tasca.
— È mezzogiorno — disse Giulietta. — Volete fare colazione o vi volete consumare così?
Ella osava, con la padrona, quell’affettuosa e brusca famigliarità che hanno i servi napoletani, quando vi è una sventura in casa.
— Portami un’altra tazza di caffè.
— Almeno bagnateci una pagnottina dentro. Digiuna non ci potete stare.
Caterina si era seduta sulla poltrona, aspettando che Giulietta le portasse il caffè. Stava così, senza pensare, contando le rose del tappeto, osservando che piegavano una a destra e una a sinistra, cosa a cui non aveva mai badato. Prese l’altro caffè, poi andò a sedersi alla sua scrivanietta, dove conservava tutte le proprie lettere. Queste erano già classificate, per quella costante abitudine di ordine, che l’accompagnava in tutte le sue cose. Ve ne erano di sua zia, di Giuditta, delle sue maestre, di Andrea. Il pacchetto più grosso era quello su cui stava scritto: Lucia. Questo pacchetto era profumato di ambra; ella lo disciolse — e una per una, con un’attenzione tranquilla, rilesse quei fogli di carta velina, scritti di traverso, di su, di giù. Non sorrideva, non impallidiva, non le tremavano le mani, non le tremavano le labbra. La lettura fu lunga, tanto che alla fine una stanchezza le apparve sul viso. Richiuse la scrivanietta, ne tirò la chiavettina che andò a raggiungere le altre, in tasca. Le erano rimaste in grembo, disordinate, aperte, fuori delle buste, le lettere di Lucia: raccolse il suo abito come un grembiale, andò a inginocchiarsi presso il caminetto acceso, e una per una, foglio per foglio, le lettere furono bruciate. La carta velina faceva una fiammetta alta e breve, poi si spegneva, riducendosi in una cenerina biancastra ed evanescente. Più forte si sentiva il profumo dell’ambra gialla, a cui si mischiava l’odore della ceralacca liquefatta dei suggelli e il puzzo di bruciaticcio. Ella, inginocchiata, il capo inclinato, sorvegliava il rogo. Quando fu consumato, mischiò quelle ceneri a quelle della legna, e si rialzò, ripulendosi macchinalmente la veste alle ginocchia.
La cassa forte, in ferro, era là, accanto al camino. Come la scrivania, Andrea l’aveva lasciata aperta e con la chiave vicino. Ella aperse addirittura e passò in rivista quello che vi era. Andrea aveva portato via centomila lire in cuponi di rendita al latore e in azioni della Banca Nazionale. Rimanevano i titoli intestati, quelli della dote di Caterina, e un fascio di altre azioni. Vi era in un cantuccio gli astucci dei gioielli di Caterina. Ella contò il denaro, classificò le gemme, e sopra un pezzetto di carta scrisse quelle cifre; lasciò quella noticina nella scrivania; prese dalla moneta spicciola una carta da dieci lire, la ripose nel suo piccolo portamonete di bulgaro, e chiuse la cassa forte. Così l’ordine di quello scrittoio era completo. Ella si riposò sopra una poltroncina, presa dalla stanchezza.
Ma un nuovo impulso di volontà la fece alzare: passò in un altro salotto, poi nel salone, di cui spalancò le finestre. La giornata splendida di dicembre entrò col suo cielo di un azzurro profondo, col suo bagliore di sole, con la sua aria tiepida. Caterina non aveva nulla da fare nel salone: solo, passando accanto a un balcone, accomodò armoniosamente le pieghe di una cortina; portò da una mensola all’altra due coppe di Murano, e si allontanò un momento, per giudicarne l’effetto. Come ebbe guardato tutto, con la gaia luce che illuminava il mobiglio di broccato grigio-perla a fiori rosso-corallo, i cristalli, le statuine, i gingilli delle mensole, essa richiuse le finestre, ribattè le imposte, e lasciò dietro di sè il salone e il salotto giallo immersi nell’oscurità.
Quando fu nella stanza da pranzo, Giulietta accorse, credendo che Caterina volesse prendere qualche cosa. Invece Caterina considerava le grandi credenze, calcolando mentalmente:
— Dal servizio di Baccarat, quanti bicchieri mancano, Giulietta?
— Manca uno di quei grandi per l’acqua e uno col peduccio, pel vino di Francia.
— Va bene: e di questo qui di Boemia?
— Uno solo: ma fu Monzù, con una gomitata, che lo buttò in aria.
— Capisco. Credo che vi sia una forchetta coi rebbi storti.
— Sì, signorina.
— Va bene; potete andare. Oggi ci è da stirare, mi sembra.
Giulietta se ne andò, tutta consolata. Poichè la signorina aveva il tempo e la voglia di occuparsi così minutamente della casa, è segno che si era già persuasa della disgrazia. E quando gli uomini sono birboni, perchè prendersi tanta collera? Il signore, prima, era buono, poi si era fatto tutt’altro. Giulietta, innanzi a un grande tavolone dove aveva ammucchiata la biancheria, prendeva col cavo della mano dell’acqua, da una scodella e la spruzzava sui panni di bucato. Accanto a lei passò lentamente Caterina, si fermò un istante.
— Badate ai petti delle camicie, Giulietta. La settimana scorsa due erano abbronzati.
— Dipende che feci troppo riscaldare il ferro. Oggi starò attenta.
Caterina entrò in cucina. Monzù, che chiacchierava vivamente con Gaspare il servitore, si tacque. Ella girò intorno il suo sguardo freddo e indagatore, lo sguardo della padrona severa, ma giusta.
— Monzù, raccomandate al garzone di far arrivare l’acqua negli angoli, quando lava. Pulire solo in mezzo non serve a nulla.
— Gliel’ho detto tante volte a quel garzone, ma signora mia, è uno scansafatiche. Quando viene oggi, lo sgriderò.
— I conti sono in regola, Monzù?
— Dovremmo farli lunedì, dopodomani.
— Facciamoli oggi.
E sopra un angolo della tavola, nel gran libro di servizio, legato in pelle rossa, Caterina fece i conti con Monzù. Gli rimaneva il denaro per un’altra settimana almeno.
— Debbo preparare per la signora sola? — chiese lui.
— Non preparate per me, oggi. Io pranzo fuori. Pensate ai servi.
Girando sui tacchi, se ne andò. Il cuoco rivolse uno sguardo trionfante al servitore: egli lo sapeva che la signora era femmina di coraggio e che non si sarebbe disperata.
Caterina rientrò in camera, guardò l’orologio. Erano circa le tre: non aveva che il tempo di vestirsi. Cavò fuori il suo abito di casimiro nero e la pelliccia. Lentamente, portando alla sua acconciatura le cure più minuziose, si rivestì da capo a piedi. Aveva già stretto i capelli alla nuca, in un grosso nodo, tenuto fermo dal pettine biondo di tartaruga. Si guardò bene nello specchio. Era un po’ pallida, con due striscie rosse sotto gli occhi: del resto aveva la sua fisonomia abituale. Prese il fazzoletto, il portamonete, e se li mise in tasca: calzandosi i guanti neri, chiamò Giulietta.
— Fate attaccare — disse.
Aspettò in camera l’avviso che la carrozza era pronta. Non aveva dimenticato nulla? No, nulla. La casa era assestata da cima a fondo, nulla che trascinasse, nulla che non fosse al suo posto: tutto chiuso, le chiavi passate nell’anello. Vediamo, si era scordata di niente? No. Si palpò nella tasca per sentire se vi era un oggetto che le serviva, e lo sentì sotto le dita. Non aveva scordato nulla. Aspettava, senza impazienza: aveva il tempo, poichè s’era vestita presto, al suo solito.
Quando Giulietta ritornò, ella si alzò, si fece aiutare a mettere la pelliccia nera e, passandole innanzi:
— Giulietta, io vado a Centurano per affari.
— Ma a Centurano non vi è che Matteo!
— Basterà: voi state attenta qui.
— Non potrei venire io?
— Io rimarrò a Centurano una notte sola.
— Allora ritornate domani?
— Naturalmente. A rivederci, Giulietta.
— La Madonna vi accompagni, signorina. Non dubitate, che qui tutto andrà bene.
L’accompagnò sino alla scala. Caterina se ne andava, senza guardarsi attorno, col suo passo eguale, con la veletta calata sugli occhi.
— La Madonna vi accompagni e fate buon viaggio e presto ritorno.
— A rivederci, Giulietta.
Quella lì però s’era messa alla finestra dell’anticamera, che dava sul cortile. Caterina montò in carrozza, non voltò il capo, e disse al cocchiere:
— Alla stazione, alla partenza.
Per la via di Foria incontrò in una daumont Giovanna Casacalenda, con suo marito, il commendatore Gabrielli. Giovanna si ergeva, bella, con gli occhi fieramente voluttuosi sotto la falda nera e piumata del suo cappellone Rubens: il commendatore aveva la sua aria composta di vecchio, la collana di barba ben disegnata dal barbiere, il suo sguardo obliquo dietro gli occhiali d’oro, e il moto stirato del labbro, la sua convulsione apoplettica. Marito e moglie non si parlavano, non si guardavano. Dietro, sul carrozzino alto ed elegante, dalle ruote coi raggi sottili, Roberto Gentile, nel suo pomposo costume di cavalleria, guidava, superbo, inarcando la gamba, sviluppando il torace. Egli guidava, seguendo la daumont, senza che Giovanna Casacalenda fingesse di accorgersene, mentre il commendatore Gabrielli serbava il suo contegno di marito posato e sicuro. Giovanna salutò sorridendo Caterina, il marito fece una scappellata. Era evidente che le amiche non sapevano ancora nulla.
Nel vagone di prima classe dove viaggiava questa piccola signora, sola, vestita di nero, chiusa nella pelliccia, con le mani finemente inguantate di capretto, non vi era che una coppia di viaggiatori tedeschi, marito e moglie, o fratello e sorella, o zio e nipote, o padre e figlia, da non potersi distinguere, tanto erano biondi di capelli, rossi in viso, rassomiglianti e senza età. Erano pieni di scialli, di coperte, di sacchetti, di Baedeker, e parlottavano continuamente, sogguardando ogni tanto la piccola signora che, seduta nell’angolo, guardava la campagna napoletana nel tramonto invernale. Quando si giunse a Caserta, la giovine donnina, traversò il vagone, chinando il capo a un saluto, e discese; i due viaggiatori dettero un sospiro di sollievo.
— Alza il mantice e portami a Centurano — disse ella al cocchiere, salendo in una carrozzella da nolo.
Soltanto, dinanzi al palazzo reale, solenne, silenzioso, tutto chiuso, quasi diventato pallido nella solitudine onde era stato colto di nuovo, ella si chinò a contemplarlo, vedendo sotto l’arco del grande portone una distesa di parco, e lontano lontano un nastro bianco che era la cascata. Ma subito si rigettò indietro e non cavò più fuori la testa per tutta la via. Cresceva il crepuscolo invernale, breve, intenso: una brezza freschissima passava sui campi seminati e fra gli alberi nudi.
Le ville di Centurano erano quasi tutte chiuse, salvo due o tre, dove i proprietarii abitavano di estate e di inverno. Le case dei coloni erano solamente illuminate. La sera veniva, d’un colpo solo. Matteo, che fumava la sua pipa, appoggiato all’arco del portone, non riconobbe Caterina che quando costei ebbe pagato il cocchiere e che costui voltò per andarsene dopo aver augurato la santa notte...
— O signorina... o signorina... — balbettava Matteo, tutto confuso, nascondendo dietro il dorso la sua pipa.
— Buona sera, Matteo. È aperto su?
— Ho qui le chiavi, signorina.
— Si può passarvi una notte?
— Certamente, signorina. È sempre tutto pronto, letti rifatti, stanze spazzate.
Preso un lume a olio dalla sua stanza a terreno, egli l’accompagnò per le scale, facendo tintinnare le chiavi.
— E il signore, arriverà fra poco?
— No, il signore non viene. Basterò io.
— Gli volevo far vedere come stavano bene Diana e Fox: ingrassano tanto, non hanno nulla da fare.
— Glielo dirò io, domani.
— Rimanete sola questa notte, signorina?
— Sola: ho da ritrovare certe carte interessanti e non potevo mandare nessuno.
— Ma per il pranzo, signorina? Se vi adattate, quattro vermicelli al sugo di pomidoro e una frittata, Carmela la sa fare. Non è roba per voi, certamente, ma per una sera solamente...
— Ho pranzato a Napoli. Non mi serve nulla.
Malgrado le cure di Matteo, l’appartamento del primo piano aveva l’aspetto triste, l’aria fredda delle case disabitate. Ella rabbrividì, entrando nel salotto, dove aveva passata quasi tutta la sua vita di villeggiatura.
— Ora facciamo un po’ di fuoco nel caminetto.
E mentre, inginocchiato, egli soffiava sotto le legna, ella si toglieva i guanti, li stirava, li posava sul tavolino.
— Scusate, signorina, come sta la signora donna Lucia?
— Sta bene.
— Meno male: povera figlia, stava sempre così malatuccia. Con quel marito che non aveva un tornese di salute! E il signor don Alberto, come sta?
— Sta male.
— La cattiva stagione, eh! Ma quando il Signore ci vuole, non si può disubbidire.
— È vero, Matteo. Dunque, in casa tutto è in ordine?
— Tutto, signorina mia. Come mi avete detto di fare, così ho fatto. La stanza della signora donna Lucia sta tale e quale. Volete vederla?
— Vediamola.
Matteo col lume, lei dietro, visitarono quella stanza: ella si trattenne sulla soglia, provando di nuovo quella sensazione di freddo.
— Ogni mattina apro e ci faccio entrare il sole. Carmela spazza, io spolvero. Vedete, vedete, signorina, che polvere non ce n’è. Ditelo al signore.
— Sì, glielo dirò. Chiudete la camera, Matteo. Andiamo nella mia.
Vi andarono: lì dentro ella si mise a battere i denti.
— Accendiamo il fuoco anche qui, signorina?
— Sì, accendetelo: ci vuole anche un altro lume. Smise la sua pelliccia e la buttò sul letto. La camera era piena di ombre, che non diradava la scarsa luce della lampada a beccuccio, che usano i contadini. Matteo ritornò con un lume più grande.
Ella si era seduta sul sofà. Matteo rimaneva ritto innanzi a lei, come se dovesse farle un rapporto.
— Dunque ci sono novità? — chiese Caterina comprendendo che Matteo voleva essere interrogato.
— Ci sta che una settimana fa venne un grande vento, e per la dimenticanza di Carmela che aveva lasciato le finestre aperte, si ruppero quattro vetri nella stanza da pranzo.
— Li avete fatti rimettere?
— Sicuramente.
— Li porterete a conto.
— È venuto il parrocchiano, don Claudio, perchè vogliono rifare il tetto della chiesa e contano sulla carità dei fedeli, e dice che voi, signorina, che fate tante elemosine, non vi scorderete della chiesa.
— Che gli avete risposto?
— Che scriva a voi a Napoli.
— Avete fatto bene. E poi?
— E poi il figlio di Mariagrazia è morto.
— Quel bel bambino?
— Gnorsì: Mariagrazia è stata per morirsene anche lei, in salvamento vostro.
— Direte a Mariagrazia che m’è dispiaciuto il suo caso. Che farà lei?
— Andrà a servire a Napoli. Povera femmina! E Peppe Guardico ci è venuto in Napoli?
— Sì: ci è venuto.
— Allora avrà fatto a voi l’ambasciata della pietra del molino, che s’era spaccata. Vi ho detto tutto? Sì... così mi pare. No... mi scordavo di meglio. Un giorno, levando la polvere, Carmela ha trovato una carta scritta, sotto l’orologio. Sempre volevo metterla dentro una busta e mandarla a voi, signorina. Poi, siccome io dovevo venire a Napoli, ho detto: gliela porto io. Vado a prenderla?
— Andate — disse ella.
Una lieve espressione di stanchezza si diffondeva di nuovo sul suo volto; le palpebre appesantite si richiudevano, pel bisogno del riposo. Il calore che veniva dal caminetto aveva diradato e vinta quella impressione di freddo. Ella si scosse due o tre volte per vincere quel torpore. Matteo rientrò, portando un foglietto di carta velina, piegato sino a divenire microscopico.
— Siccome nè io nè Carmela sappiamo leggere, ci poteva essere scritta la sorte vostra, che non ne sapremmo niente.
Ella aprì il foglio e lo lesse. Niente apparve sul suo volto. Lo ripose in tasca.
— È un conto di certa roba, che io ho dimenticato. Potete andare a letto, Matteo.
— Non vi serve altro?
— Niente altro.
— Non abbiate paura di nulla, signorina. Io sto abbasso: il campanello arriva nella stanza mia. Se vi serve qualche cosa, chiamate.
— Vi chiamerò, ma non mi servirà niente.
— Domani mattina, a che ora il caffè? Carmela lo sa fare, il caffè.
— Alle nove. Io partirò col treno delle dodici.
— La carrozzella quindi alle undici abbasso al portone.
— Sì.
— Vi serve niente altro, signorina?
— No.
— Volete scrivere, forse?
— Io non ho da scrivere a nessuno.
— Io me ne vado a cena, due foglie d’insalata e un pezzo di formaggio e poi a letto; ma sempre pronto ai servizi di vostra eccellenza. Per caso, vorreste far riscaldare il letto?
— No.
— Non ci sarebbe che da fare un po’ di fuoco in cucina.
— No.
— Buonanotte, signorina. Dormite bene.
— Buonanotte, Matteo.
Se ne andò, col suo lume, tirandosi le porte dietro. Ella intese allontanarsi il rumore dei passi e chiudersi l’ultima porta. In quel momento suonavano le otto e mezzo. Si abbandonò sul sofà, gli occhi chiusi, impallidita, come svenuta.
Aveva aspettato due ore intiere, senza alzarsi da divano, immersa in quella specie di stanchezza che le spezzava le membra. Sentiva scoccare i quarti d’ora, contandoli. Il fuoco del caminetto si era lentamente coperto di cenere, ma nella stanza rimaneva un tepore, un fiato caldo. Ella voltava le spalle al lume. Quando sentì suonare le undici, s’alzò in piedi. La vigorìa era ritornata dopo quelle due ore di riposo. Andò presso i vetri, ma non vide nulla. Poi, senza prendere il lume, in punta di piedi, andò nel salotto che aveva una finestra sul cortile. La stanza di Matteo era oscura: sicuramente Matteo dormiva da due ore. Il silenzio profondo premeva sulla casa.
Allora pensò che l’ora era giunta. Ritornò in camera sua, prese il lume, e con precauzioni infinite attraversò la sua stanza, il salotto, la sala di bigliardo, la stanza da pranzo, l’anticamera. Riparava con la mano il lume quasi volesse diminuirne il chiarore: passava nelle stanze, scivolando, come se non camminasse, e la sua piccola ombra nera si proiettava sulle pareti, diventata immensa. Uscì nel pianerottolo, scese due scalini ed entrò nella cucina.
Aveva posato il lume sulla tavola di marmo bianco. Sempre camminando in punta di piedi, traversò la cucina, appoggiò una sedia alla parete, vi salì sopra e staccò dal muro, dove era sospeso fra le casseruole lucide e le forme dei pasticci, il braciere di rame dai piedi di ottone, foggiati a zampe di gatto. Pesava: per poco ella non si arrovesciò indietro. Lo posò a terra vicino al focolare. Poi, chinandosi innanzi all’arco dove si riponeva il carbone, con la paletta, senza raspare, senza far rumore, empì il braciere di grossi e piccoli pezzi di carbone. Si soffiò sulle dita, per toglierne via la polvere di carbone. Ma quando andò a sollevare il braciere, vide che aveva bisogno di tenerlo con le due mani e che non avrebbe mai potuto portare il lume. Lasciò il braciere e riportò il lume in camera sua. Poi ritornò in cucina all’oscuro, a tentoni, Prese il braciere: a ogni porta lo deponeva e chiudeva la porta. Attraversò così tutta la casa, portandosi con sè quel fardello che le stancava le mani. Nel salotto aveva visto un giornale vecchio; lo prese e se lo portò in camera. Chiuse la porta della sua camera a chiave.
Guardandole vicino al lume, si trovò le mani sporche di carbone e se le lavò nella catinella, asciugandole accuratamente. Andò al balcone, come per chiudere le imposte: nella notte cupa brillavano le altissime stelle, e la fontanella della via cantava la sua eterna e fresca canzoncina. Ella preferì lasciare aperte le imposte. Ritornò al caminetto e vi abbruciò la lettera in cui Lucia le chiedeva pietà, annunciandole che partiva — e il biglietto d’amore ad Andrea trovato da Matteo. Mescolò le ceneri, come aveva fatto a Napoli: così non rimaneva più traccia di nulla. Tolse la pelliccia dal letto e la posò sul divano. Doveva fare più nulla? Sì: le chiavi. Le cavò di tasca e le pose sul piano del caminetto, bene in vista. Non doveva fare più altro.
Allora prese una sedia, la trasportò vicino al letto, la pose sotto l’immagine della Madonna, s’inginocchiò sul tappeto, appoggiando il corpo alla sedia, come al collegio. Lì, con la fronte fra le mani, senza guardare l’immagine, pregò. Le labbra si muovevano lentamente ma nessun sibilo usciva da esse. Non piangeva, non singhiozzava, non sospirava neppure. Non si capiva se ripetesse a mente le preghiere solite o se parlasse alla Vergine, dicendole quello che pensava. Era una preghiera muta, lunga, tranquilla: non un sussulto, non un trasalimento, non un brivido. Si segnò due volte, guardò un istante il quadro della Madonna, e si rialzò. Poi mise la sedia al suo posto.
Prese il giornale e lacerò una striscia che piegò a quattro doppi e che mise sotto la porta, otturandone perfettamente la fissura. Con un turaccioletto di carta tappò il buco della serratura, da cui aveva tolta la chiave. Lacerò un’altra striscia e andò a metterla sotto il balcone: otturò il bucherello, dove passava l’acqua piovana. Mise la testa alla chiusura del balcone per sentire se entrava aria: no, le imposte combaciavano perfettamente, non entrava aria. Guardò attorno, pensando se potesse entrare aria da qualche altra parte. No.
Tirò il braciere in mezzo alla stanza: con un pezzetto di carta infiammato al lume accese un paio di carboncini. Soffiò sul fuoco, per farlo dilatare. Poi si rialzò, portò il lume presso il letto, sciolse le tendine bianche del letto; stette immobile un istante, come se pensasse. Si voltò al braciere dove l’un carbone accendeva l’altro e il mucchio acceso si dilatava: sentì una pesantezza percettibile alla testa. D’un colpo soffiò sul lume e si coricò sul letto, tirandosi la tendina, stendendosi al posto dove dormiva sempre.
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Quel bel sole d’inverno illuminò una camera, dove una nebbiolina avvolgeva tutto. Dietro le tendine bianche era distesa la piccola morta. Vestiva di nero, i piedi distesi e uniti, la testa appoggiata ai cuscini: pareva diventata più piccola, una bambina. La faccia era terrea. Non si erano scomposti i capelli: la bocca schiusa come in cerca d’aria, le labbra violacee, il petto lievemente sollevato, il resto del corpo affondato. Gli occhi di questa piccola morta erano spalancati, ma vitrei, come nella stupefazione di qualche spettacolo incredibile. E intorno alle mani terree, dalle dita violacee, azzurreggiava un rosario di lapislazzuli, per metà spezzato.
Fine.