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II.
Di quel salotto circolare avevano fatto un boschetto di camelie, dal fogliame verde-cupo, denso, fitto, su cui sbocciavano grossi e sfrontati i fiori senza odore, nella loro polputa bellezza bianca, rossa, macchiata di rosso sul bianco. Questi fiori si aprivano, grassi, freddamente carnosi, senza profumi, glacialmente voluttuosi: i bottoni si gonfiavano nell’involucro verde, come se volessero scoppiare. Era una vegetazione profonda e ricca che covriva le pareti, che covriva il soffitto, vegetazione piena di succo, di una ricchezza incantatrice e silenziosa. In mezzo al boschetto una musa paradisiaca sorgeva molto alta, lasciando ricadere, spioventi a ombrello, le sue larghe foglie, di un verde intenso. Intorno alla musa girava un divano, di legno rustico, scolpito grossolanamente; qua e là certi sgabelli rustici, molto bassi. Semi-nascoste, due porte tra i rami fronzuti delle camelie. Una luce tenue e diffusa. Le lampade erano coperte di globi di cristallo opaco, rosei.
Tre o quattro volte, da che la festa era cominciata, il salotto, negl’intervalli fra due balli, si era empito di gente. Le signorine e le signore, entrando, gettavano piccoli gridi di gioia, prese da una tenerezza campagnola, incantate dalla luce mite, dalla freschezza, dal silenzio — pel contrasto con la luce dura e bianca, del salone da ballo, con l’atmosfera rossa, pesante, calda, con la musica stridula dell’orchestra. Esse prendevano delle pose languide e pensierose. Gli uomini si guardavano attorno con un’aria di soddisfazione contenuta, come se anche essi fossero sensibili alla bellezza della natura. Qualche bocciuolo staccato timidamente era offerto in dono. Una signorina vestita di giallo-pallido, con una pioggia di mughetti nei capelli bruni, diceva dei versi, a voce sommessa. Le signore più tranquille si facevano vento, soavemente, con quelli aleggianti ventagli di piume grigie. Ma appena giungeva quello sbuffante appello del waltzer, che sembrava uno strillo di richiamo, appena arrivavano le note morbidamente malinconiche della mazurka, tutta quella gente si buttava alla complicata follìa del ballo e le coppie fuggivano via. Il boschetto rimaneva vuoto e silenzioso, con le camelie rosse boccheggianti, come labbra avide di baci.
Mentre di là si ballava, Giovanna Casacalenda, la figliuola di casa, venne nel boschetto, a braccio di un giovanotto. Ella era più alta di lui, e pareva dominarlo nella regale magnificenza della sua bellezza. Era drappeggiata strettamente in un lunghissimo abito di crespo avorio che le si attaccava addosso come se fosse bagnato, e si discioglieva in uno strascico leggero, morbido e fluttuante. Meravigliosa era una corazza di raso rosso così attillata da non fare una piega, scollata profondamente con un piccolo riccio di tulle bianco alla scollatura. Nude le braccia sino alle spalle. Un filo di perle intorno al collo nudo, che si ergeva libero, palpitante, dalla scollatura. Sui capelli bruni, stretti, sollevati dalla nuca, una corona di rose rosse, molto bassa sulla fronte. Era un’acconciatura tranquillamente sfacciata, con la splendida noncuranza di chi si sa bella, seducente e difesa contro i troppi ardenti desiderii: un’acconciatura come solo le fanciulle possono avere nella superba licenza della verginità.
Ella ascoltava il suo cavaliere, sorridendo appena, come la Erigone dalle labbra arcuate. Era un giovanotto magro e piccolo, con la faccia di un pallido bilioso, l’occhio tirato verso la tempia, e i capelli un po’ radi sulla fronte: corretto, elegante e meschino nella marsina.
— Eppure mi avevi promesso, Giovanna.... — brontolò lui.
— È inutile darmi del tu ad alta voce — osservò lei.
— Scusa.... scusatemi, mi tradisco sempre — mormorò. — È chiaro che tu mi abbandoni, Giovanna.
— Se è chiaro, perchè me lo domandate?
— Ma.... per essere smentito! Che t’ho fatto?
— Nulla: datemi del voi. Poi, ho fretta.
— Dunque è stato un sogno.
— Un sogno, un capriccio, una follìa chiamatela come volete. Voi dovete persuadervene: non possiamo sposarci. Voi avete solo ottomila lire di rendita: io sei. Con quattordicimila lire non si fa nulla.
Diceva queste cose sorridendo, con una posa disinvolta, col braccio arrotondato che agitava il ventaglio, guardandolo col suo sguardo dominatore.
— Ma se muore mio zio.... — piagnucolò l’infelice.
— Vostro zio non muore per ora. L’ho osservato bene: è solidissimo.
— Siete malvagia, Giovanna.... ricordatevi....
— Di che volete che mi ricordi? Vi prego, siate uomo di spirito. Andiamo di là.
Partirono. Nulla mormorarono fra loro le camelie vivide, carnose e magnifiche, a cui Giovanna rassomigliava.
— Bello, bello — diceva Andrea Lieti, osservando tutto attorno e facendo scricchiolare il divano rustico sotto il peso del suo corpo. — Ma preferisco Centurano.
— La campagna vera dev’essere più bella di sicuro — mormorò timidamente Galimberti, il professore di storia. — Ma questi Casacalenda intendono il lusso.
— Bah! egregio professore. Essi vogliono maritare la figliuola, e ci riesciranno.
— .... credete?
— Io non li biasimo. Quella creatura lì è troppo splendida per rimanere in casa. Era tanto bella anche in collegio?
— .... bella e pericolosa, anche in collegio....mi ricordo.... — mormorò Galimberti come distratto, passandosi una mano sulla fronte.
Andrea Lieti spalancava su Galimberti i suoi occhioni azzurri, vivamente bonarii. Il professore restò ritto, in una posa stentata, un po’ curvo, impacciato nel suo abito nero. I calzoni gli stavano troppo larghi, troppo lunghi, e gli facevano molte pieghe alle gambe. Il colletto della marsina saliva troppo, coi risvolti all’antica. Invece della lucida camicia che pare un muro tirato a scagliola, coi bottoncini impercettibili di oro, portava una camicia ricamata, con larghi bottoni di mosaico romano: un pezzo del Colosseo, la Grecostasi, la piazza S. Pietro. Rimaneva lì con le braccia penzoloni, con la testa mostruosa e pensosa, la cui fronte pareva diventata più gialla, più alta, e gli occhi dallo sguardo obliquo e fuggente, imbarazzato, distratto.
— Certo voi vi annoiate molto in questi balli, professore! — esclamò Andrea, alzandosi e passeggiando con la disinvoltura del signore, a cui le spalle larghe squadrano bene la marsina.
— Così.... un poco.... mi ci trovo un po’ isolato — disse Galimberti confuso.
— Ci venite volentieri?
— Due o tre delle mie alunne hanno la bontà d’invitarmi.... ci vengo per sollievo.... studio troppo....
Di nuovo quel gesto stanco di chi vuol liberare la fronte da un pensiero, e l’occhio vagante di chi cerca qualche cosa che abbia smarrito.
— Verrete anche da noi, professore — disse Andrea, pieno di compassione per quel nanetto meschino. — Caterina mi ha spesso parlato di voi.
— Era una buona creatura. Una così buona creatura. Tanto buona, assennata, savia. Faceste un’ottima scelta.
— Lo credo io — disse Andrea, ridendo forte. — È vero che le rimproveravate sempre di non aver fantasia?
— Vi ha detto anche questo? Sì.... qualche volta.... un po’ di aridità....
— Eh! non ha fisime sentimentali, Caterina. Ma così mi piace. L’avete veduta com’è bella, questa sera? Se non fosse mia moglie, ballerei con lei.
— Era con.... era con la sua amica....
— Con Lucia Altimare, sicuro.
— Con la signorina Altimare — soggiunse il professore, facendo uno sforzo come per inghiottire.
— Anche quella è stata alunna vostra. Ve ne ha dovuto fare delle belle coi compiti, a giudicare dalle noiose e fantastiche lettere che scrive a mia moglie.
— La signorina Altimare scriveva divinamente — disse il professore seccamente.
— Eh! può darsi — mormorò Andrea, scegliendo una sigaretta. — Ne prendete? no? vi assicuro che non sono cattive. Dicevo — soggiunse, stendendosi di nuovo sul divano e mandando in aria il fumo — che vi doveva contristare lo spirito.
— La signorina Altimare è una figura interessante e sofferente. Ella è molto infelice — insistette il professore, tutto pallido e con la cravatta di traverso per l’ardore della difesa.
Andrea lo guardò curiosamente: poi un lieve sorriso gli sfiorò le labbra.
— Viene al ballo però — aggiunse, ostinandosi, dilettandosi solitariamente a studiare il professore.
— Ci viene, ma trascinata, per divertire le sue pene. Vedete che non balla un giro.
— Bah! perchè niuno insiste. Scommetto che se vado io a pregarla, le faccio fare un lungo giro di waltzer.
— Non lo farà: teme sempre delle sue palpitazioni: potrebbe coglierla uno svenimento.
— Che! se la fo’ girare io, vedrete che trottola! Nessuna donna mi è svenuta mai nelle braccia....
Ma si fermò, preso da un senso di pietà. Galimberti diventava giallo, rosso, girava fra le mani il gibus, guardava Andrea con tale un’espressione di pena e di collera che l’altro si pentì di averlo troppo tormentato.
— Ma già è troppo magra, troppo angolosa. Non ne faremo niente. Piuttosto fate una cosa, professore, ballateci voi — e se lo prese amichevolmente a braccetto per condurlo via.
— Io non ballo — mormorò Galimberti, abbassando il testone sul petto. — Io non so ballare.
Giovanna Casacalenda tornava, appoggiata al braccio di un ufficiale di cavalleria, abbandonandosi un poco, sfiorandogli col braccio la giubba, sollevando il volto verso di lui. Egli sorrideva sotto i suoi baffi biondi, pavoneggiandosi nell’uniforme nuova, vero ufficiale di salone che depone la sua sciabola in anticamera.
— Ebbene, Giovanna, si risolve il vecchio?
— Ci è qualche cosa in aria, ma niente di positivo — disse lei, con un’aria di sconforto. — Ti assicuro che è un duro mestiere.
— Mah! tutto sta a guardare il fine. Fatti coraggio, Giovanna. Stasera sei incantevole.
— Ti piaccio, eh? — mormorò lei, parlandogli nel volto.
— Immensamente.... quando penso che quel vecchio....
— Non ci pensare, Roberto.... è necessario — soggiunse lei, ridiventata seria.
— Lo so che è necessario. Se te l’ho consigliato io! Tanto, tuo padre non mi ti darebbe: non ci si può pensare. Quel vecchio che è poi ancora presentabile....
— Oh! presentabile....
— Bah! col collare di commendatore sotto la marsina, le calvizie e le basette bianche, ha un’aria molto dignitosa di marito. Allora....
— Sinallora ci è tanto tempo, Roberto.... — e lo fissava con gli occhi illanguiditi, la bocca chiusa e una lunga lassezza della persona.
— Dipende da te. Sbrigati....
— Non mi dimenticherai, è vero, Roberto, Roberto mio bello?
— Dimenticare te, Giovanna, così splendida, così affascinante? Ma sai che mi sacrifico, lasciandoti a Gabrielli? Sai che cosa perdo?
— Non tutto perdi — disse Giovanna, fremente.
Egli si chinò e le baciò il braccio, lungamente: lei lasciava fare, con gli occhi socchiusi, pronta a cadergli fra le braccia, a dieci passi dal salone. L’ufficiale rialzò il capo, e più prudente che amante:
— Restar qui è pericoloso — disse: — la gelosia del vecchio potrebbe svegliarsi.
— Dio mio, che noia! Basta.... per te....
— Se tu cantassi, stasera?
— Mamma non vuole....
E si allontanarono.
Le due amiche si diressero al divano di legno rustico: vi si sedettero l’una accanto all’altra, badando ad acconciare bene gli strascichi. Lucia Altimare vi si lasciò cadere, come stanca. Portava uno strano vestito di stoffa verde chiaro, un colore glauco e smorto, la gonna a pieghe ampie e lunghe, senza ornamenti di balze, come un peplo. Attillata la basquina che le formava un busto sottile. Sulla scollatura delle spalle e delle braccia un velo verdognolo, pallidissimo, come una nuvola, che celava la magrezza, sfumava i contorni quasi addolcendoli. Disciolti i capelli bruni sulle spalle; e mezzo sepolta fra i capelli una corona di roselline bianche, fresche, ma già divorate dalla ruggine dell’appassimento. Sul seno, fermando il velo, un gruppo di roselline bianche, semi-appassite. Nell’insieme una forma singolare, di cui il corpo pareva di un’ondina esile; la testa, dagli occhi ardenti e dai pomelli scarni, quella di una Saffo pensante al suicidio.
Accanto a lei, Caterina Lieti, tutta fresca e serena nel suo abito di amoerro rosa che le prendeva bene la piccola persona, portando al collo un filo fulgido di brillanti e nei capelli un piumino di brillanti che tremolavano, le parlava, inchinandosi, premurosa, mentre Lucia pareva fosse lontana con lo spirito.
— Sono venuta per forza, sai — diceva Lucia, con la sua voce strascicata, quasi le pesassero le parole — sapevo di trovarti. Poi mio padre ci si diverte, lui. È giovane, balla. Perchè non hai risposto alla mia ultima lettera?
— Dovevo venire.... e, capisci....
— Spero che tu non faccia leggere le mie lettere a tuo marito — soggiunse l’altra, con una lieve smorfia di sdegno.
Caterina arrossì accennando di no.
— È un buon giovane tuo marito — concesse Lucia, con tono indulgente. — Ti conviene, credo. Sei bella questa sera. Hai troppi gioielli.
— Sono un dono di Andrea — e respirò, orgogliosa.
— Io odio i gioielli. Non ne avrò mai.
— Se ti mariti, Lucia....
— Maritarmi? Sai quello che ti ho scritto.
— Eppure, senti, quel Galimberti che ti va dietro dappertutto, che ti ammira da lontano, che ti ama senza osare di dirtelo mi fa pena.
— Ahimè! io non ci ho colpa, Caterina.
— Sai, forse è povero, forse soffre in queste case ricche dove ti segue. Tu sei buona, risparmialo. Mi pare turbato molto.
— Che vuoi? egli è, come me, una vittima della fatalità.
— Quale fatalità?
— È uno spostato: meriterebbe di essere ricco, bello.... e non è. Io avrei dovuto nascere o contadina ignorante o regina di un popolo di cui avrei fatto la felicità. Siamo due miserabili. Ci consoliamo con una corrispondenza dove le nostre anime esulcerate si espandono.
— Ma egli s’innamora!
— Io non posso amare nessuno: non mi è dato.— e prese un aspetto rigido, quasi statuario, come un’eroina greca colpita dal fato.
Caterina non le chiese nè il come nè il perchè. Accanto a Lucia subiva il fascino bizzarro che hanno sopra una creatura tranquilla e ragionatrice le divagazioni fantasiose.
— Caterina, ora visito i poveri nelle loro case. Una occupazione interessante e umanitaria. Ci si provano emozioni dolcissime. Vuoi venire?
— Ne parlerò ad Andrea.
— Hai bisogno di chiedergli sempre permesso. Hai così perduto la tua libertà?
— Sai, una moglie....
— Dimmi, Caterina, che vi è di singolare, di felice nel matrimonio?
— Io non capisco.
— Narrami come l’amore vi si estingua.
— Non so, Lucia.
— Il matrimonio sarà dunque l’eterno mistero della vita?
— Chi ti dice queste cose?
— Il mio cuore, Caterina — disse l’altra, alzandosi.
E con aria solenne soggiunse, levando la mano, trinciando l’aria:
— Ed esiste una sola cosa.
— Che cosa?
— Esiste la passione.
— Sempre un giovanotto è prediletto — disse il commendatore Gabrielli a Giovanna, storcendo un po’ la bocca per quella nervosità di cui soffriva.
— Ma non sono questi i miei ideali — rispose Giovanna, posatamente, con la sua voce incantevole. — Io ho avuto sempre un tacito disprezzo per questi sfaccendati, senza ingegno e senza carattere, che passano la loro gioventù a giuocare, a cavalcare, a spendere per le donne....
E finse di arrossire, dietro il ventaglio spiegato.
— Ecco, signorina Giovanna, forse avete ragione. Ma un giovanotto dissipatore diventa un buon marito.
— Non mi pare, commendatore. Salvo il rispetto che vi debbo, l’opinione mia è diversa. Vedete il marito di Angelina Toraldo, che perla di marito! Quando lei piange e si lagna, dicono che lui la schiaffeggi. Un orrore. Questi mariti giovani sono brutali. Vedete Andrea Lieti: come dev’essere grossolano con quella piccola Caterina! Invece un uomo maturo....
— Avete fatto qualche volta questo paragone, signorina Giovanna?
— Sempre. Un uomo posato, grave, che ha delle idee serie intorno alle cose della vita, che ha un ideale politico....
— Voi dovreste tener bene un salone politico — mormorò lui, guardandola.
Ella abbassò il ventaglio e fece un gesto con le spalle, come se il bel corpo volesse slanciarsi dalla corazza. Dietro gli occhiali d’oro, gli occhi di gatto del commendatore rifulsero. Poi, dopo essersi offerta per un momento, Giovanna spiegò di nuovo il ventaglio, si fece carezzevole, si fece piccina.
— Oh! io non ho merito! Egli rifulgerebbe e io modestamente mi lascierei irradiare dalla sua luce. Noi donne amiamo di essere le ispiratrici segrete de’ grandi uomini. Se conosceste il nostro cuore....
E si appoggiava a quel braccio, sfiorandogli la spalla, sorridendo perennemente, sorridendo sino alla stanchezza, mentre il cranio calvo del commendatore Gabrielli diventava di un rosso lucido.
— È stata una follìa — susurrò Lucia Altimare, buttandosi sul divano. — Una vera follìa che mi avete fatto commettere. Non avrei mai dovuto ballare il valtzer....
— Perdonatemi — disse Andrea, apparentemente imbarazzato e segretamente seccato, restando in piedi innanzi a lei.
— Voi non ci avete colpa — disse ella, guardandolo di sotto in su. — Siete robusto, siete gagliardo, vi è passata un’idea bizzarra pel capo. Io non doveva accettare. Sentite; sul principio tutto andava benissimo, quel waltzer era delizioso.... voi mi sollevavate come una piuma, poi la testa mi è cominciata a girare.... la sala volteggiava intorno a me.... i lumi mi ballavano nel cervello.... affogavo....
— Vorreste bere qualcosa?
— No — rispose lei duramente, vedendo spezzata la sua divagazione.
— Un ponce? un ponce è ottimo per lo stomaco — continuò lui come uno stordito. — Riscalda, ritempra. Io lo berrò. Vi prego, bevete qualche cosa se non volete farmi avere rimorsi. Tutt’i nostri mali vengono dallo stomaco. Volete che vada a chiamar Caterina, per farvelo dire?
— Caterina non ci ha visti venire qui?
— Non credo. Ballava con Federico Passalancia, mio cognato. Com’è bella Caterina, questa sera, nevvero?
Ma Lucia Altimare non gli rispose. Diventò pallidissima, respirò forte, poi scivolò dal divano a terra svenuta.
Andrea Lieti bestemmiò energicamente in cuor suo quante donne ballavano il waltzer e quanti uomini le fanno ballare.