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III.
Ogni mattina, con la sua lunga vesta da camera di drappo tessuto, una riga rossa, una riga gialla, una riga azzurro cupo, tenuta ferma alla vita da un cordoncino d’oro e rialzata sopra un fianco, le maniche rimboc- cate sui polsi nudi, un immenso fazzoletto di tela bianca come strofinaccio, Lucia Altimare, licenziata la cameriera, toglieva la polvere nel suo quartierino (una camera e un salottino), ove suo padre la lasciava vivere liberamente.
Quella pulizia che compiva metodicamente, sempre alla istessa ora, dopo essersi vestita e aver pregato, era per lei un godimento squisito. Prima di tutto le pareva di fare opera utile e pia, piegando il suo forte orgoglio e le sue deboli forze a un lavoro manuale. Al momento di tòrre la polvere dai mobili, ella diceva a Giulietta con un senso di condiscendenza:
— Andatevene pure: faccio da me.
— Ma signorina... — obbiettava l’altra.
— No, no, lasciatemi fare.
E le pareva ancora di essere umanamente buona con Giulietta risparmiandole una fatica e mostrandole che non disdegnava di scendere a quelle opere servili.
— Davanti a Dio siamo tutti uguali. Se potessi reggervi, io spazzerei e rifarei il letto; ma sono così malaticcia! Se mi curvo troppo, mi prende la palpitazione — pensava, annodando un grembiule nero e rialzando lo strascico della sua veste da camera di stoffa turca.
Ma il piacere più fine, quello che più scuoteva i suoi nervi vibranti, che più faceva fremere la sua sensibilità squisita, era quel fermarsi lungamente a ogni oggetto che entrasse nella sua vita, a riandare così sui giorni passati, a misurare l’avvenire, a passare da un sogno all’altro, a fantasticare.
A Lucia Altimare l’aspetto freddo, rigido, quasi monacale della sua camera, faceva ritornare in mente il suo sogno di diventar monaca, di ammalarsi nel misticismo come santa Teresa, di morire nella follìa della croce come santa Teresa. La camera non aveva tappeto e i mattoni lucidi avevano qualche cosa di glaciale. Il letto, di cui Lucia Altimare strofinava a lungo i bastoni di ferro ricurvo, era senza cortine, con una semplice coperta di dobletto bianco, un solo cuscino magro e piccolo: il letticciuolo di una vergine ascetica. Accanto al letto, avvolta in una cornice di velo crespo nero annodata in un angolo, era una Madonna bizantina col bambino, dipinta sul legno, il fondo d’oro, la veste d’indaco, il manto rosso, gli occhi stranamente aperti, le mani che stringevano il bambino Gesù: pittura balbettante: il primo alfabeto dell’arte. Prima di pulirla, Lucia la baciava, e il crespo di lutto la faceva fantasiare di sua. madre che aveva appena conosciuta e da cui aveva ereditato quella Madonna. Spesso sulla mano sottile e diafana della Vergine, dipinta nel color della cera, ella cercava con le labbra le tracce dei baci materni.
Sotto la Madonna, accanto al letto, era un inginocchiatoio di legno, scolpito alla foggia medioevale. Lucia lo aveva comperato da un rigattiere. Dallo scudo di legno era raschiato l’arme di famiglia — e Lucia, invece di farvi scolpire le alte onde in tempesta e la stella polare sul cielo sereno di casa Altimare, vi aveva fatto incidere il teschio e il motto Nihil, che aveva adottato per sua divisa. Per pulirlo, s’inginocchiava sul cuscino di velluto rosso e macchinalmente pregava ancora. Si staccava di là con dispiacere, e andava a passare il fazzoletto di tela sul piccolo cassettone del collegio, il comoncino che aveva portato seco e per cui una parte della vita anteriore le ricompariva: i libri nascosti tra le pieghe delle camicie, le imaginette di Lourdes mescolate coi nastrini, i confetti che ella non mangiava. Sul piccolo cassettone era un cuscinetto da spilli, di seta rossa, coperto di trina finissima che Ginevra Avigliana, la più paziente merlettaia del collegio, le aveva donato — e una Imitazione di Tommaso da Kempis, fittamente annotata al margine con inchiostro rosso come il sangue: ella, passando il fazzoletto sulla copertina del libro, ne leggeva qualche parola.
Ma mutavano le fantasie quando si trovava innanzi al grande specchio del uso armadio, dove si poteva mirare tutta. Si guardava, vedendo quante pieghe facesse l’abito sul petto, pensando di essere diventata molto più magra in poco tempo. Stringeva fra le dita il tenue giro della cintura, pensando che, se avesse voluto, avrebbe potuto renderla sottile come un giunco. Posava di profilo, con lo strascico buttato di fianco, la testa un po’ inclinata sulla spalla destra. Era un ritratto fantastico che aveva visto una volta, in quella posizione, nella vetrina di un fotografo: una donna incognita, scarna, e vestita di bianco. Lucia immaginava che quella sconosciuta avesse molto sofferto e poi fosse morta, ignota, nella tenebra dell’ignoto.
Non mutavano le fantasie vicino allo specchio della pettiniera, ovale, coperto da un velo bianco, poiché di sera è cattivo augurio guardare lo specchio scoperto. Ella aveva gittato in un angolo il grande fazzoletto, già sporco: ne aveva preso un altro e lo passava sulla lastra, lentamente. Stanca, sedeva innanzi allo specchio, appoggiava la testa a una mano e si mirava minutamente la fronte, gli occhi, le labbra, come se volesse scoprirvi qualche cosa. Ogni tanto prendeva dalla tavoletta la bottiglia del profumo di ambra gialla e la fiutava, rimirandosi sempre per vedere il pallore intenso e le lagrime che le faceva sgorgare quell’odore troppo acuto. Aveva nel cassetto anche una scatolina di rossetto, con lo zampino di lepre per spanderlo; ma non lo adoperava. Una mattina che si tinse una guancia sola, ne rimase disgustata. Preferiva il pallore, quel caldo pallore d’avorio, quella passione bianca, come la chiamava un poeta tanto stravagante quanto inedito. Sulla cornice dello specchio era inchiodata con uno spillo, ma libere le ali, una farfalla di cotillon, azzurro e argento, ricordo del primo ballo a cui l’aveva condotta, l’anno innanzi, suo padre. Ogni mattina con un soffio la faceva ondeggiare nelle sue ali leggiere, mentre il corpicciuolo restava fermo. Quella farfalla artificiale, immobile, che ella faceva muovere lievemente, la faceva fantasticare di certe vite posticce, piene di nobili aspirazioni, ma senza volontà, ma senza modo di levarsi in alto. Lucia diceva tra se: quando sono triste, sono io molto interessante o molto brutta? E innanzi allo specchio prendeva la sua grande aria malinconica, calcolava l’effetto di quella fronte bianca seminascosta dai capelli pioventi e arruffati, la profondità dello sguardo tutto pregno di tristezza, la tinta di bistro che sottolineava gli occhi, la linea inclinata del profilo, l’angolo del sorriso amaro che assottigliava lei labbra. Un sospiro di soddisfazione le sollevava il petto. Nella sua mesta apparenza poteva destare interesse. Amore, no. Essa non ne voleva, amore. Per che farne? Non le era dato amare.
Poi ripuliva le boccettine della tavoletta. Dentro vi stavano le medicine fantastiche che una scienza quasi romantica ha dato per rimedio alla falsa nevrosi moderna. In una bottiglina il cloralio per l’insonnia, il cloralio che procura un sonno pieno di penose e deliziose allucinazioni, in cui la fantasia si ammorba, si esalta, si arroventa per poi cadere esaurita. In un’altra la digitalina per calmare le palpitazioni frequenti del cuore. In una, smerigliata, dal tappo d’oro, i sali inglesi per ricondurre gli spiriti smarriti. E in una, finalmente, un’acqua bianca, limpida: morfina in gocce. Il sonno..... il sonno..... fantasticava Lucia, passando in rassegna la sua piccola farmacia.
Dopo lo specchio dava un colpo di mano al secondo armadio, quello della biancheria, spazzolava le tre sedie. Poi, sulla porta della camera, finita la pulizia, dato uno sguardo intorno, le pareva che la sua cella, come la chiamava, avesse assunto quell’apparenza nitida, glaciale, che ella le voleva dare. La fantasia si appagava; parlava tra sé, alla sua camera: sii tranquilla, sii calma, dormi inerta e disanimata sino a questa sera, in cui la travagliata anima mia verrà ad empirti di angoscia.
Se ne andava nel salotto. Era quella la stanza della sua vita, dove più si compiaceva di stare. Si fermava prima alla scrivania, tutta nera, in palissandro, a cinque cassetti larghi e profondi. La sua immaginazione gliela faceva sembrare una bara. Essa puliva con delicatezza il calamaio d’argento ossidato, che rappresentava una barchetta sommersa in un laghetto d’inchiostro. Passava il fazzoletto sul portaritratti di acciaio niellato, a porticine, chiuso ermeticamente, perchè non si vedesse mai quale ritratto vi fosse nascosto. In verità non vi era nulla dentro; ma quella carta bianca, quel vuoto che solo ella conosceva, la faceva pensare all’amante sconosciuto, al mistico cavaliere del San-Graal, al biondo Lohengrin che Elsa non seppe amare, ma che ella avrebbe saputo trattenere. Con leggerezza soffiava sull’idoletto egiziano di creta azzurra, a cui era attaccata una collanina di frammenti azzurri: era una mummietta che si reggeva in piedi, statuina-ritratto di un Cheope qualunque. Serviva di augurio, poiché questi ricordi egiziani combattono le fatalità. Lucia toccava con rispetto la Bibbia legata in marocchino nero, sulla cui prima pagina essa aveva scritto certe date memorabili della sua vita, con un segno misterioso accanto per indicare a che si riferissero. Toccava con rispetto la piccola edizioncina diamante del Leopardi, legata in cuoio rosso, su cui a lettere d’argento, di traverso, era scritto: Lucia. Essa li leggeva ogni giorno quei libri e baciava piamente la Bibbia come il Leopardi. La penna di avorio dalla puntina d’oro, la stecca in legno di sandal su cui era scolpita la parola spagnuola Nada, il suggello di cornalina sul quale si ripeteva il motto dell’inginocchiatoio, il ferma-carte che era un bambinetto di porcellana, in camicia, il nettapenne fatto di panno nero ricamato di bianco come se fosse un mezzo-lutto: tutti questi gingilli fantasiosi, che ella aveva raccolti sulla scrivania, erano oggetto delle sue cure. Perdeva mezz’ora intorno alla scrivania, con le dita che si rallentavano nel loro lavorìo, con le spalle che si curvavano nella contemplazione, con la immaginazione che volava, volava pei cieli.
Poi, dopo la scrivania, veniva un ritratto in fotografia, in una cornice di felpa rossa, sospeso al muro: il ritratto di Caterina. Sotto, in una mensoletta a coppa, come una piletta d’acqua santa, un mazzettino di fiori, ogni giorno rinnovato. Caterina guardava l’amica coi suoi occhi buoni e sereni: tutta la fisionomia aveva quella sua espressione di riflessione un po’ fredda. Lucia salutava Caterina ogni mattina strisciando con la tela sul cristallo e mormorando: beata te, che non sogni, beata te, che non sognerai mai! Appresso, sopra un piedestallo piccolo, attaccato al muro, un gruppo di terra cotta, piccino, di Mefistofele e Margherita. La innamorata e colpevole fanciulla è inginocchiata, in una posizione convulsa, le braccia irrigidite, le mani che stringono il libro di preghiera senza poterlo aprire, il petto anelante, le spalle che affogano il collo, la faccia stravolta, la bocca storta pel grido di orrore che ne sgorga: Mefistofele le è alle spalle, alto, scarno, diabolico, possente nel sogghigno, tenendole la mano magnetizzatrice sospesa sul capo, scagliandole l’anatema: un Mefistofele bello, grande, schiacciante. Ogni volta che guardava Margherita, Lucia si sentiva arrossire di desiderio. Ogni volta che guardava Mefistofele, Lucia impallidiva di paura. Desiderio vago e indistinto del peccato: paura vaga del castigo: lotta misteriosa che avveniva nelle profondità dello spirito. Era la mano di Lucia che aveva inciso, un po’ storto, un po’ tremante, col temperino, nel legno del piedestallo, lo scongiuro: et ne nos inducas in tentationem.
Al tavolino basso, dove posavano gli albums, Lucia si sedeva, poichè la stanchezza era crescente. Apriva l’album delle fotografie, poche, di amiche, di parenti, di amici, tre o quattro giovinotti. Tra questi, per singolarità, era una vecchia e ingiallita fotografia di Petöfì Sandor, il poeta ungherese che s’innamorò di una fanciulla morta. Lucia non lo poteva guardare senza che le venissero le lagrime negli occhi, sognando quell’amore così strano, così doloroso, e così funebre. Chiudeva il libro, lo ripuliva, lo metteva al posto. Apriva quello delle confessioni, dove varie pagine erano scritte, da Lucia, dal poeta inedito, dalla maestra di tedesco, da Caterina, dal professore di storia, da un grand’uomo di passaggio, da Giovanna Casacalenda, da Alberto Sanna e da pochi altri. Alle domande stravaganti erano scritte di contro le più stupide risposte — e le più stravaganti. Quelle di Giovanna erano sciocche, quelle di Lucia fantasiose e folli, quelle di Caterina posate e oneste, quelle del professore fantasiose e folli, quelle del grand’uomo insolenti, quelle della maestra sentimentali, quelle di Alberto Sanna incerte e fluttuanti. Qua e là Lucia ne rileggeva qualcuna. L’album andava a prendere il suo posto. Apriva l’album suo, il più bello, il caro, l’amato: sopra una pagina era incollata una rosellina appassita, e sotto scrittovi un verso di Byron: sopra un’altra, una coroncina di violette mammole, e nel centro bianco una data, una fila di puntini sospensivi: altrove un profilo di donna, disegnato appena, nebuloso, accanto a cui era scritto: Clara. E alla rinfusa, fiori secchi, versi, pensieri, paesaggi, teste, un francobollo americano, uno scarabeo schiacciato contro la carta, due parole scritte con l’inchiostro dorato. Lei sorrideva o s’immalinconiva, sfogliandolo. Si staccava da quel tavolino con rammarico, non senza aver carezzato con le dita una tortuosa lucertolina di bronzo, dalla testina rizzata. Lucia aveva una grande inclinazione per le lucertole, i serpentelli e i rospi: li trovava belli, affascinanti e infelici.
Una bisogna lunga era il pianoforte verticale, carico di carte di musica. Passava lo strofinaccio sul piano lucido, socchiudendo gli occhi come se carezzasse il raso: passava lo strofinaccio sui tasti bianchi e neri, traendone suoni discordanti, quasi lamentosi, una musica informe che si dilettava di variare infinitamente. Lucia suonava mediocremente e poco; ma quando trovava qualche amica filarmonica, la metteva al pianoforte, si distendeva in una poltrona viennese a dondolo, inclinava il capo, socchiudeva gli occhi e ascoltava. Era una delle migliori e più estatiche ascoltatrici di musica, assorbita, senza voce. Teneva sul pianoforte musica tedesca specialmente; più specialmente quella sacra di Bach e di Haydn. L’Aìda era sempre spalancata sul leggìo.
Poi, il telaio da ricamo, una stola per la chiesa della Madonna, la sua Madonna, quella dei sette Dolori. Accanto, il tavolino da lavoro, minuscolo, su cui una stella di frivolità incominciata, una tela inutile di ragno. Poi le seggiole, le poltroncine, i pouffs, tutti di colori diversi, di stile differente, poichè ella odiava la regolarità. Sul muro, in una cornice di raso bianco, la medaglia d’oro avuta in collegio nell’esame di letteratura: sotto, il primo saggio di calligrafia, puerile. Infine, uno scaffale di libri, pochissimi scolastici, consumati, qualche romanzo, le Vite dei santi. E in ultimo, incollata sopra un quadro di velluto, una grande rosa thea macchiettata di rosso come se fossero stille di sangue: la Rosa Mystica.
Quando aveva finito, Lucia gettava via lo strofinaccio, si spazzolava, si lavava le mani, beveva qualche goccia di melissa diffusa nell’acqua, per sciacquarsi la gola dalla polvere, rientrava nel salotto, si stendeva sul divano, e lasciava che tutte le fantasie venissero a lei.