< Fantasia (Serao) < Parte seconda
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V.

— Siete voi, Galimberti? Venite pure avanti.

— Non vi disturbo? — e al solito inciampò nel tappeto, sedette col cappello in mano, un guanto non messo, l’altro infilato, ma non abbottonato.

— Non mi disturbate mai — ed era il tono monotono e freddo dei giorni di malumore.

— ... pensavate? — soggiunse il nano, dopo qualche tempo di silenzio.

— Sì, pensavo... ma non ricordo più quello che pensavo.

— Siete uscita stamane? È una bellissima giornata.

— Invece io ho freddo. Ho sempre caldo quando fa freddo io, e viceversa.

— Creatura strana!

— Eh?

— Perdonatemi.

— E voi, Galimberti, siete andato stamane a dar lezione al collegio?

— Sì... sono andato, sebbene fossi molto triste e non avessi punto voglia d’insegnare...

— Molto triste... e perchè? — Ma la indifferenza era in quella domanda.

Egli si passò una mano sulla fronte e restò pensoso. Mentre ella voltava le spalle al balcone, egli vi si trovava di fronte: era giallo alla luce mite di un giorno di febbraio. Gli occhi pareva ogni tanto che loscheggiassero.

— Ieri — riprese lui — ieri non mi beneficaste di una lettera.

— Ieri... che feci ieri?... mi ricordo, non vi scrissi perchè venne Alberto Sanna.

— Viene... spesso... mi pare?

— È mio cugino — disse lei freddamente.

Di nuovo la conversazione cadde. Lui contava macchinalmente le dita del guanto che non aveva messo, parendogli qualche volta di trovarne sei. Lucia sfilacciava la frangia di seta della sua poltroncina, la faccia in aria.

— Volete che vi dia oggi la lezione di storia?

— No. La storia è inutile. Tutto è inutile.

— Siete anche voi triste?

— Non sono neppure triste, sono indifferente. Vorrei non pensare.

— Sicchè, scusatemi, nemmeno domani avrò una vostra lettera?

— Non so... credo che non potrò scrivervi.

— Eppure quelle lettere erano la mia consolazione — gemette il nano.

— Fugace consolazione.

— Sono così infelice, così infelice...

— Tutti siamo infelici — sentenziò lei, senza guardarlo.

— Temo che al collegio non mi amino più — egli riprese come se parlasse a se stesso. — Trovo sempre certe facce glaciali: quella Cherubina Friscia deve odiarmi. È una ipocrita beghina che misura le mie parole. Essa nota sul libro di presenza, quando arrivo più tardi. Non so come, talvolta dimentico l’ora: la mia memoria è diventata molto debole.

— Beato voi. E io che non posso dimenticare...

— ... poi le tricolori di quest’anno sono svogliate e insolenti. Mi contraddicono, si rifiutano di fare i compiti, mi fanno certe domande impertinenti. Ogni tanto perdo il filo del discorso e non mi raccapezzo più... esse ridono...

····················

— È finita, signorina Lucia, è finita. Io non trovo più diletto nell’insegnamento. Credo... credo che nel collegio abbiano montata una cabala contro me... una cabala spaventosa, terribile, segreta, che finirà per distruggermi.

Volse intorno l’occhio inferocito e pauroso, iniettato di sangue e di bile, come se volesse misurare i nemici contro cui difendersi.

— Il rimedio è molto breve, caro Galimberti — disse con semplicità Lucia.

— Ditelo, ditelo: siete il mio buon angelo: vi ubbidirò.

— Scuotere la polvere dai calzari e partire. Date le vostre dimissioni.

Galimberti restò interdetto, meravigliato. Esitava a rispondere.

— Non vi è cara la vostra libertà? — aggiunse lei. — Non vi nausea l’ambiente troppo meschino dove siete costretto a vivere? Vi è un mezzo per riacquistare la vostra indipendenza. Date le vostre dimissioni.

— È vero... — mormorò lui.

Non avrebbe mai osato confessarle che uscire dal nobile educandato per lui era la rovina e la miseria. Di là ricavava il più forte dei suoi guadagni, di là qualche lezione privata di fanciulle che uscivano, con cui aumentava il gruzzolo per poter vivere, egli in Napoli, sua madre e sua sorella in provincia. Mancato questo, gli restava soltanto una classe serale, di scuola operaia, da cui ritraeva sessanta lire al mese: il mezzo per morire di fame in tre. Era già vergognoso di essere brutto, sgraziato, e quasi vecchio; si vergognava di confessarle che era anche povero.

— È vero... — ripeteva tutto desolato.

— Perchè non ne scrivete alla direttrice? Se vi è una cabala, dovete prevenirla.

— Una cabala vi è... la sento attorno a me... scriverò, sì, scriverò... uno di questi giorni.

Tacquero. Lucia carezzava le pieghe della sua vestaglia turca. Prese l’album dei ricordi e vi scrisse questi versi del Boito:

     . . . . . . . . l’ebete
Vita che c’innamora,
Lunga che pare un secolo,
Breve che pare un’ora.

Ripose l’album sulla tavola e il porta-lapis d’oro in tasca.

— Credereste una cosa, signorina Lucia?

— ... Così...

— Oh a questa credeteci, che è una verità sacrosanta. L’unico tempo felice della mia vita è quello che passo qui.

— Ah sì? — fece lei, senza guardarlo.

— Ve lo giuro. Prima di venirci sono addentato da un’ansia, ho in mente tante cose svariate e pressanti da dirvi. Qui alla porta le dimentico tutte. Perchè? Temo di aver la testa debole. Poi questo tempo vola via, voi mi parlate, odo la vostra voce, sto qui con voi, nella stanza dove vivete, rimango troppo, credo. Perchè non mi scacciate? Quando me ne vado, alla soglia del portone il primo colpo d’aria mi porta via tutte le idee, e resto col cervello vuoto, tentando invano di riafferrare il mio pensiero.

— Ecco il signor Sanna, signorina — entrò ad avvisare Giulietta.

— Me ne vado — disse esitante, turbato, alzandosi, il professore.

— Come volete — e si strinse nelle spalle.

Egli restò, non sapendo come accomiatarsi mentre l’altro entrava. Alberto Sanna, chiuso sino al collo nel soprabito, con un fazzolettino di seta rossa per difesa della gola, portava in mano un mazzetto di violette. Lucia si alzò, gli dette le due mani, lo trascinò presso il balcone per osservarlo bene in viso.

— Come stai, Alberto? Ti senti bene oggi?

— Sempre a un modo — disse lui, rassegnato — una debolezza indicibile mi ha rotto le giunture.

— E stanotte hai dormito?

— Sì, abbastanza bene.

— Non ti pare di aver avuta la febbre?

— Mi pare di no: almeno quei brividi di freddo, quegli avvampamenti non li ho sentiti.

— Dammi il polso. È debole, ma tranquillo, sai.

— Ho fatto colazione leggiera.

— Pure dovresti nutrirti bene.

— Che! il mio stomaco non digerisce più.

— Come il mio, Alberto. Che belle violette!

— Te le ho portate: credo che ti piacciano.

— Spero che non le abbi avute da una fioraia.

— Allora non te le avrei portate.

— Grazie — e gli strinse di nuovo la mano.

Questo dialogo avveniva presso il balcone, mentre Galimberti stava solo e dimenticato nella poltrona. Egli, senza alzare gli occhi, seccato dai suoi guanti, teneva sulle gambe l’album delle fotografie. Ma restava troppo tempo senza voltare il foglio, contemplando le immagini che dovevano essergli indifferenti. Finalmente Lucia ritornò alla sua seggiola viennese e Alberto sedette sopra uno sgabello accanto a lei.

— Alberto, tu conosci il professore?...

— Ebbi l’onore...

— Ci siamo conosciuti... — dissero insieme, il professore a bassa voce, il cugino seccamente.

Si squadravano, l’uno infastidito dell’altro, indovinandosi innamorati della stessa donna: il Galimberti sentendo la necessità di andarsene, ma non sapendo levarsi su, non trovando il modo e le parole per accomiatarsi: il Sanna fermo di restare, profittando del suo stato di parente. Lucia pareva non accorgersi di questo: odorava le sue violette, diceva qualche parola, specialmente con suo cugino. Ma la conversazione non filava. Il professore, alle domande di Lucia, rispondeva per monosillabi, trasalendo o facendo la faccia dell’uomo che non capisce e che risponde per cortesia. Sanna non si dirigeva mai a Galimberti, parlando. Poco a poco il terzetto divenne nuovamente dialogo.

— Sono entrato nelle stanze di tuo padre, prima di venire da te. Usciva, voleva condurmi seco.

— Egli esce sempre... e tu perchè non sei andato?

— Stamane ha piovuto e mi sento nelle ossa il ribrezzo dell’umidità. Qui da te si sta calduccio: ho preferito di restare.

— Non hai caminetto a casa tua?

— Sai, quei soliti caminetti napolitani dove il fuoco non può vivere, un caminetto di carta pesta. Poi dal servitore non si può aver mai una cosa a modo. Io ci gelo, malgrado il tappeto.

— Accendete mai fuoco in casa vostra, Galimberti?

— ... No, signorina. Veramente non vi è caminetto.

— Come fate a studiare?

— Ma... studiando, non ho freddo.

— Tu, Alberto, quando hai da lavorare, vientene qui. Io ricamo e tu scrivi.

— Io non ho nulla da scrivere, Lucia. Sai che i miei affari li cura tuo padre. Già lo scrivere mi fa male al petto.

— Allora tu leggerai.

— Il leggere mi secca: non vi sono che corbellerie nei libri.

— Allora chiacchiereremo.

— Questo sì: tu mi dirai quelle bellissime cose che pensi, che mi sbalordiscono, e che rapiscono d’ammirazione quelli che ti ascoltano. Dove le trovi, tu, Lucia, quelle strane cose?

— Nel paese dei sogni — diss’ella, sorridendo con indulgenza.

— Vedi, vedi, il paese dei sogni lo hai inventato tu! Le dovresti scrivere queste cose, Lucia. Saresti una scrittrice...

— A che serve? Io non ho vanità. Non è vero, professore, che non ho mai avuto vanità?

— Mai. Una modestia eccessiva congiunta a un merito...

— Basta, non vi chieggo complimenti... Pensavo, stanotte: ho avuto l’insonnia solita...

— Spero che non avrai preso il cloralio?

— Per contentarti, non l’ho preso. Ho sopportato l’insonnia per te.

— Grazie, bella mia.

Si guardarono come due innamorati soddisfatti. Galimberti stava ad ascoltare, fissando la cornice di felpa rossa dov’era il ritratto di Caterina.

— Me ne debbo andare, me ne debbo andare — pensava.

Si sentiva inchiodato sulla poltroncina come se non avesse più forza per andarsene: era infelice, poiché s’era accorto che uno dei suoi stivali era infangato. Gli sembrava che Lucia guardasse sempre quello stivale. Non osava trarlo indietro e ci si crucciava.

— Dunque ho pensato stanotte, fra tante altre cose, che tu, Alberto, avresti bisogno di una donna.

— Quale donna? Una donna di governo? Sono egoiste e odiose, non le posso soffrire.

— Ma no, una moglie.

— Tu pensi?... È singolare, io non ci avrei mai pensato.

— Ma sai: tu hai bisogno di una donna che non rassomigli alle altre. Tu hai bisogno di una donna eccezionale.

— È vero, è vero: io ho bisogno di una donna eccezionale — approvò Alberto, già convinto.

— Una donna eccezionale. Dico bene, professore?

Egli si scosse, scombussolato. Che voleva da lui, ora? Lei continuò senza aspettare la risposta:

— Tu sei un po’ cagionevole di salute, caro Alberto. Questa tua è una età difficile, con tanti svaghi che ti offre la gioventù, coi balli, coi teatri, con le cene...

— Io non vado in nessun posto — borbottò lui — ho troppa paura d’ammalarmi.

— Sia: fai bene a esser prudente. Del resto sono piaceri vani. Ma in casa tua, nella tua casa fredda e solitaria, ci vorrebbe una donnina dolce e affettuosa, capace di passare le giornate accanto a te, non annoiandosi mai, prodigandoti le cure più tenere. Ella sarebbe la tua moglie e la tua infermiera, la tua lettrice e il tuo segretario: ti amerebbe, ti curerebbe, ti sorriderebbe! Pensa: quanta luce, quanto amore, quanta dolcezza d’intimità nella casa tua! Pensa: la vita intiera di questa donna consacrata a te!

— E dove lo trovo questo angelo, Lucia, dove lo trovo? — esclamò Alberto, acceso da quel discorso, disperato di non aver sotto mano quella moglie.

— Ahimè! Alberto, tutti corriamo dietro a un ideale inarrivabile. Anche tu sarai della moltitudine dei sognatori.

— Io vorrei trovarlo quest’ideale — insisteva lui, nella sua ostinazione di creatura debole e capricciosa.

— Cerca — disse Lucia, levando gli occhi al soffitto della stanza.

— Senti, Lucia, mi fai un favore?

— Parla. Perdono, Galimberti, mi date quel ventaglio di piume di pavone?

— Avete caldo, signorina?

— Molto caldo. Ho la febbre, credo. Sapete voi che le piume di pavone sono di cattivo augurio?

— Lo imparo ora.

— Sì, sono iettatrici, come i pennacchi di brughiera sono di ottimo augurio. Me ne potreste procurare?

— Domani...

— Dicevo, Lucia — ricominciò Alberto, senza distogliersi dalla sua idea — che dovresti farmi un favore. Perchè non mi scrivi, sopra un po’ di carta, queste belle cose che mi hai dette? Ti stavo a sentire incantato. Tu parli benissimo. Se tu mi scrivi quelle cose sopra un pezzetto di carta, io, vedi, lo metto in questa divisione del portafoglio, e ogni volta che lo aprirò, mi ricorderò che ho da cercare il mio ideale, cioè una moglie.

— Sei un grazioso matto — disse Lucia, con la sua aria bonaria: — ma in cambio di questa idea peregrina io farò qualche cosa di più. Tutte queste cose e altre ancora che non pensi, io le scriverò in una lettera.

— Quando, quando?

— Oggi, stasera, domani.

— No, stasera.

— Bene, stasera. Ma tu non mi rispondere.

— Ti risponderò.

— No, Alberto. Tu hai il petto delicato, il curvarti ti stanca. Non voglio assolutamente.

Così il professore era perfettamente escluso dalla intimità di quel duettino, come una persona noiosa.

— Che ci fo qui, che ci fo qui, che ci fo qui? — domandava a se stesso. Ora aveva tratto indietro, goffamente, il piede calzato dallo stivale inzaccherato; ma lo rodeva un dubbio feroce, di aver la cravatta di traverso, come gli accadeva talvolta. Toccarla non osava. E il suo animo era doppiamente tormentato: da quella lettera che Lucia scriveva al cugino e da quella cravatta che non voleva mai starei a posto.

I due tacevano, guardandosi: sul volto tisico di Alberto vi era un punto interrogativo. Certo egli domandava tacitamente alla cugina: se ne va o non se ne va questo seccatore? E lei gli rispondeva con l’occhio: pazienza, se ne andrà, secca anche a me. Ma il più strano era che Galimberti presentiva confusamente tutto questo, voleva andarsene, ma le forze gli mancavano. Sentiva la schiena attaccata alla spalliera, la testa pesante insopportabilmente.

— Signorina, ecco il signor Andrea Lieti.

— Questo è un miracolo.

— Se mi rimproverate — disse lui, ridendo — non mi siedo neppure. Buongiorno, Alberto, buongiorno, Galimberti.

E la stanza parve piena di quel forte uomo, del suo riso espansivo, della sua bella salute; Galimberti, storto, basso, giallastro: Sanna, meschino, esile, tisicuzzo, pallido: Lucia, snella, magra, tutta cascante, sembravano una miseria umana. Galimberti si raggricchiava nella sua poltroncina, curvando il testone d’idrocefalo; Alberto Sanna contemplava Andrea da sotto in su, con un’ammirazione profonda, facendosi più piccino, come un essere debole che si ripara all’ombra protettrice del gagliardo; Lucia, invece, si distendeva sopra la poltroncina, avvolta come un serpente flessuoso in quella stoffa turca, mostrando una babbuccia di velluto ricamata in oro, avendo quel suo sguardo affinato fra le palpebre, che pare distacchi una scintilla all’angolo dell’occhio. Ma tutti tre, in apparenza, erano dominati, soggiogati da quella umanità fisica, così sviluppata, così fiorente, nel suo largo e perfetto svolgimento. La stanza era sicuramente diventata più angusta, i mobili parevano più piccini, umiliati di fronte a quella grossezza; tutte le minute cianfrusaglie, le cosette strane di cui Lucia amava circondarsi, erano assorbite, scomparse. Andrea sedeva appoggiando le spalle al pianoforte — e sembrava che lo nascondesse. Egli scuoteva la testa riccioluta, mettendo un’aria di forza in quella stanza tutta morbosa: egli rideva un po’ troppo vivamente turbando il silenzio malinconico di quell’ambiente in cui non si osava parlare che a voce sommessa.

— Io sono qui come ambasciatore, signorina Lucia. Ho da presentare le mie credenziali al governo?

— Ecco le vostre credenziali — e indicò con la mano il ritratto di Caterina.

— Già, ecco Ninì. Il mio governo m’ha detto: va, sarai ricevuto bene, con gli onori che merita il rappresentante di una potenza amica.

— Caterina ha detto tutto questo?

— Tutto, no. È dinanzi alla vostra fantasia, signorina Lucia, che io fiorisco d’immagini le poche parole di mia moglie.

— Anche voi mi rimproverate la mia fantasia — disse con tono dolente la fanciulla, e guardò in giro i suoi amici, come per chiamarli a testimoni di tanta ingiustizia.

— No, per nulla. Non è permesso di scherzare? In breve, Caterina mi ha detto: alle tre andrai...

— Sono già le tre? — chiese, interrompendo male a proposito, Galimberti.

— Già le tre, caro professore. Potete vederlo anche al vostro orologio.

— Il mio è fermo — disse l’altro, imbarazzato di dover mostrare un largo orologio argentato, vecchio, di famiglia. — Ma io debbo andarmene.

— Per la vostra lezione, Galimberti? — domandò lei, noncurante.

— Veramente... l’ora è passata. Non credevo che fosse così tardi... del resto non sarà un gran male per le mie scolare. Domani, signorina, si ha a fare la lezione di storia?

— Domani... non potrò. Mi sento troppo stanca. Domani no.

— Mercoledì, allora.

— Ve lo farò sapere — disse infastidita.

Quando Galimberti uscì, con un rossore di mattone cotto sulle guancie gialle, un senso di pena durò in quelle tre persone del salotto. Ognuno pensava qualche cosa che credeva di dover tacere.

— Povero diavolo! — esclamò finalmente Andrea.

— Sì, ma un noioso — soggiunse Alberto.

— Che vuoi farci? Queste signore, per squisitezza d’animo, si scordano che egli è semplicemente un maestro; e lui anche, stordito, lo dimentica. Quando ritorna in sé, deve soffrire molto.

— Oh! è un infelice — mormorò Lucia. — Io lo sopporto per compassione. Ma quando sono di cattivo umore e sto male, questo povero sofferente diventa un incubo, non so come liberarmene.

— È dotto in istoria? — chiese Alberto, con la curiosità infantile dell’ignorante.

— Sì, così. Non mi parlate più di lui: oggi ha guastato la mia giornata. Che dicevate prima che egli uscisse, signor Lieti?

— Che dicevo? Non me ne rammento più...

— Dicevi che la tua signora ti aveva detto di venire qui alle tre — suggerì Alberto, come recitando la lezione..

— Ecco. E io, dopo colazione, sono andato prima al bersaglio, poi ho parlato col deputato di Caserta per la esposizione agraria regionale di settembre, poi sono venuto qui... per gravi comunicazioni, signorina Lucia.

— Io me ne vado — disse Alberto.

— Ti pare? per me? per quello che ho da dire? Ma se puoi benissimo ascoltar tutto.

— Gli è che con questo bel sole, prima che tramonti, vorrei fare un giro per la Villa — soggiunse Alberto, tutto impensierito: — mi farà bene alla salute. Vorrei aver appetito per l’ora del pranzo.

— Va, Alberto mio, va a passeggiare. Potessi venire anch’io! Dev’essere bello il sole: salutalo per me.

— Ti ricordi la promessa che mi hai fatta?

— La ricordo e non manco.

Quando furono soli, si guardarono in silenzio. Andrea Lieti era un po’ imbarazzato: pensava che sarebbe stato conveniente andarsene anche lui. Invece Lucia si era accomodata meglio nella poltrona, aveva ritirato il piede calzato nella pianella di velluto: la veste turca la copriva come un manto dalle pieghe larghe che chiudevano e celavano tutte le forme del corpo.

— Mi prendete quella Bibbia dal tavolino, signor Lieti?

— È venuta l’ora della preghiera, signorina? Io mi ritiro — disse lui, con una intonazione comica.

— No — rispose Lucia alzandogli in faccia gli occhi — no, poiché io prego sempre. Ma quando mi accade qualche cosa di strano, di molto strano, io apro la Bibbia a caso e leggo il primo versetto che mi capita sotto gli occhi. Vi è sempre un consiglio, una guida, un presentimento, una fatalità nelle parole scritte.

Quello che diceva, fece. Lesse a bassa voce, due o tre volte, il versetto come colpita da meraviglia; poi lo lesse ad alta voce:

«Io amo quelli che mi amano; e quelli che mi cercano mi troveranno» (Proverbi — capo 17).

Egli ascoltava stupito. Lo prendevano certi impeti di dispetto di fronte a quel singolare misticismo, lui che viveva nella bella indifferenza della buona salute. Taceva per buona creanza di gentiluomo che non vuole offendere una signorina; ma quella storiella gli pareva ridicola.

— Avete udito, signor Lieti?— soggiunse lei, come se lo provocasse.

— Ho udito: è una bellissima cosa. Parla dell’amore, mi pare. Per me, già, del Vecchio, e del Nuovo Testamento non mi piace che l’episodio amoroso fra Maddalena e Gesù.

— Signor Lieti!

Pardon, mi è sfuggito. Sono un po’ rude, signorina Altimare. Noi, che stiamo bene, vediamo le cose sotto un altro aspetto. Di nuovo, scusatemi.

— Infatti voi siete pieno di salute — disse sospirando. — Ricordo sempre, sempre quel waltzer che mi faceste ballare. Non lo farò più.

— Ma che! tornerà l’inverno, ci saranno altre feste, noi balleremo senza riposo.

— Io non ho più forza per ballare — Siete voi che volete ammalarvi. Perchè avete chiuso le finestre? È mite il tempo e qui si soffoca. Io apro.

— No — fece lei, mettendogli una mano sul braccio. Alla lievissima pressione egli cedette: ella sorrise.

— Non sognate mai, signor Lieti?

— Mai. Dormo profondamente, otto ore, coi pugni chiusi, come quando ero bambino.

— E a occhi aperti?

— Mai.

— Tal quale come Caterina, allora?

— Oh! tal quale.

— Voi siete felici — e l’accento era amaro.

Ci si sentiva il dolore. Egli la guardò turbato. Dopo tutto, gli sembrava di essere duro con quella fanciulla. Che gli aveva fatto? Era malaticcia e fantastica? Una ragione di più per compatirla. Doveva essere una creatura mal guidata, poco amata, che smarrisce la sua via attraverso la vita.

— Maritatevi — le disse brutalmente.

— Perchè? — disse ella, sbalordita.

— Per questo. Le fanciulle si debbono maritare, guariscono col matrimonio.

— Oh! — esclamò Lucia, e si nascose gli occhi con la mano.

— Di nuovo ho detto qualche sciocchezza? Ora vi dico quello che vuole Caterina e scappo via. Altrimenti voi mi scacciate.

— No, signor Lieti. Chissà, il vostro buon senso borghese ha forse ragione.

Egli capì il senso riposto della frase e ne fu ferito.

Quella magra creatura, con le sue arie vaporose, sapeva mordere nella carne dunque? Gli apparve sotto un aspetto nuovo. Si sentiva offeso, e un lieve sgomento lo prendeva di quella donna che aveva la difesa della debolezza. Cominciava a sentirsi male in quell’ambiente, in una stanzetta piccola dove pareva non potesse stirarsi le braccia senza dar dei pugni al muro, in quell’aria profumata che gli opprimeva i polmoni, con quella personcina sottile e lunga, avvolta in un pezzo di stoffa turca, una donna che aveva una bocca simile a una rosa rossa e gli occhi ora stralunati come se vedessero meravigliosi spettacoli, ora languidi come se l’anima morisse nella stretta di desiderii sconosciuti. Egli sentiva un peso nella testa, come un principio di emicrania. Avrebbe voluto aprir la finestra con un pugno nei vetri, gettare a terra i muri con una spallata, sollevare il pianoforte e buttarlo nella strada, fare un atto di vigore per scuotere l’intorpidimento che lo vinceva. Poi una voglia brutale lo afferrava alla gola, una voglia di stringere quella personcina sottile fra le sue braccia poderose per farle male, per sentirne scricchiolare le ossa, per stritolarla. Il sangue gli andava alla testa e la testa gli si faceva sempre più pesa. Ella lo guardava, esaminandolo, agitando il suo ventaglio di penne di pavone. Intese forse? Senza dir nulla si alzò e aprì i cristalli, restando là a vedere quelli che passavano. Poi ritornò un po’ colorita in volto.

— Dunque? — chiese, come se volesse sapere la conclusione di un discorso.

— Dunque i vostri profumi mi danno l’emicrania. Per poco non son caduto in deliquio, cosa che non mi è mai accaduta, cosa che proprio non mi farebbe piacere. Me ne posso andar via? Vi posso dire quello che vuole Caterina?

— Ascolto. Ma state meglio ora?

— Sto benissimo. Non sono Alberto Sanna.

— No, non siete Alberto Sanna — ripetette lei, piano. — Egli è ammalato. Mi fa pietà. Come vi sentite?

— Ma, benissimo. È stata una debolezza passeggiera. Il camminare mi farà bene. Caterina...

— Amate voi vostra moglie quanto io l’amo?

— Eh? che dimanda?

— Non ci badate: ho sbagliato. Io non credo all’amore nel matrimonio.

— Fate male.

— Siete irritato, signor Lieti? — e sorrise.

— No, vi assicuro. È stato un malessere fisico. Io non ho mai turbamenti morali. Già, mi pare che non esistano. Mia moglie...

— Siete materialista, voi?

— Signorina Lucia, voi mi farete andare in collera — esclamò lui, metà indispettito, metà ridendo. — Voi non mi lasciate parlare.

— Vi ascolto.

— Domenica ventura Caterina vi vorrebbe a pranzo con noi. Viene la sua cuginetta Giuditta dal collegio. La sera, la ricondurrete voi due insieme.

— Non so... — disse esitando — non so se venire. ...

— Caterina ve ne prega per mezzo mio. Mi ha mandato apposta. Venite. Abbiamo un cuoco eccellente: non pranzerete male.

Ella si strinse nelle spalle. Pensava, con le sopracciglia aggrottate, come se guardasse nel futuro.

— Sembrate una Sibilla, signorina Lucia. Via, decidetevi. Un pranzo non è una cosa molto grave. Vi farò fare della crema méringue, che deve piacervi perchè è leggiera e nebulosa.

— Scriverò a Caterina.

— No, non scrivete. Perchè scrivete tanto? Mi ha imposto di costringervi a dire di sì.

— Bene, verrò.

E gli mise la mano nella mano. Lui, con un atto cavalleresco, si chinò e vi depose un bacio, una lieve sfioratura. Ella lasciò la mano e gli alzò gli occhi in volto. Pareva più alta di lui, per una strana illusione ottica.


Quando tornò a casa, tutto sbuffante, dopo una corsa di due ore attraverso Napoli, Andrea Lieti gridò alla moglie che Lucia Altimare era una creatura falsa, rettorica, e antipatica; che nella sua casa ci si affogava e si correva il rischio di un’apoplessia; che ella era circondata di tisici e di rachitici, Galimberti, Sanna, e chi sa quali altri; che mai più vi sarebbe ritornato; che vi era andato per amor suo, ma che le aveva fatto un grande sacrificio; che egli detestava quella posatrice fanciulla che riceveva gli uomini come una vedova, liberamente; che non capiva come gli uomini e le donne s’innamorassero di quell’anemica, di quelle quattro ossa messe in croce. Questo gridò, e altro ancora. Non si fermò che quando vide il viso della moglie addolorato: ella non rispondeva, ma aveva volontà di piangere. Quel dissidio, quell’antipatia così aperta fra due persone che ella amava, veramente la crucciavano.

— Almeno — balbettò — almeno ha detto che verrebbe domenica a pranzo?

— Figurati, per conto tuo ho dovuto pregarla come si prega una santa. Non voleva, la stupida! Poi ha accettato. Ma ti avverto che domenica io non pranzo qui. Esco al mattino e ritorno a mezzanotte. Sopportala tu, la tua posatrice.

Questa volta Caterina si mise a piangere.

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