< Fantasia (Serao) < Parte seconda
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VI.

Durante tutto il pranzo, nella sala del palazzo in via Costantinopoli, dove i Lieti abitavano, vi era stato un lieve imbarazzo, celato con cura, ma che ogni tanto trapelava. Per sei giorni, in casa, Caterina non aveva osato parlare di Lucia. Solo, al sabato, visto che Andrea aveva riacquistato tutto il suo buonumore, lo aveva pregato di non uscire il domani. Egli aveva fatto prima una spallata di noncuranza, poi aveva detto quietamente:

— Resterò: sarebbe una sconvenienza escire.

Ma Andrea era venuto a casa un po’ freddo. Lucia era molto nervosa: bella, del resto, nel suo molle abito di casimiro bianco che si drappeggiava nobilmente, con un grosso gruppo di violette sul petto. La conversazione era stata glaciale. Caterina, che aveva condotto Giuditta in carrozza su e giù, era un po’ turbata. Temeva che Lucia non si accorgesse della freddezza di Andrea. Si pentiva di averla invitata. Parlava più dell’usato, rivolgendosi a Lucia, ad Andrea, a Giuditta, cercando di rianimare il discorso, facendo sforzi inauditi per mettere di buonumore i suoi cari. Per un momento sperò che il pranzo portasse allegria, e sospirò di sollievo quando il servo annunziò che la signora era servita.

Ma la gaiezza della stanza da pranzo a nulla valse. Andrea, seduto accanto a Lucia, la serviva distrattamente. Egli mangiava e beveva molto, come al solito, divorando in silenzio, come di solito non faceva. Lucia mangiava poco, bevendo dei bicchieri di acqua, appena coloriti di vino, un color di ametista chiarissima. Quando Andrea le parlava, Lucia lo ascoltava con gli occhi intenti, che non si abbassavano: egli chinava i suoi e si rimetteva a mangiare. Caterina era sgomenta, poiché vedeva che quell’avversione cresceva. Cercava di tirare Giuditta nella conversazione, ma la bambina era tutta presa dall’impeto di quella fame taciturna delle collegiali, avvezze a mangiar male.

Solo verso la fine del pranzo il gelo si sciolse. Andrea prese a chiacchierare speditamente, volubilmente, rivolgendosi alle due donne, alla bambina, ridendo, parlando a se stesso. Lucia ebbe la bontà di rispondere due o tre volte col sorriso. Per la crema méringue si dissero delle cortesie: Lucia la paragonò a un fiocco di neve immacolata; Andrea trovò il paragone poetico ed efficace. Caterina diventò rosea, da pallida che era stata, vedendo quell’apparenza di buon accordo. Ma capiva che Lucia era in una delle sue serate cattive: di quelle famose del collegio, che finivano sempre male, con le convulsioni, con qualche scena di lagrime. La faccia si contraeva ogni tanto, nervosamente: l’occhio spalancato, nerissimo, il petto anelante che sollevava il gruppo di violette. Due o tre volte le chiese, come in collegio:

— Che hai?

— Niente — diceva l’altra, seccamente, come in collegio.

— Ma non vedi che non ha nulla? — osservò finalmente Andrea. — Sta meglio del solito, anzi. Signorina Lucia, questa sera sembrate un’altra: siete colorita.

— Vorrei.

— Siete voi coraggiosa?

— Perchè me lo domandate?

— Per saperlo.

— Ebbene, sì.

— E allora bevete un bicchierino di cognac, tutto d’un fiato.

— No, Andrea, no: non glielo lasciar bere. Le farebbe male.

— Sarebbe grazioso. Non ne avete la tentazione, signorina Lucia?

— Io... sì — disse, dopo una lieve esitanza.

— Brava, brava! Anche tu, Caterina: a te non ti fa nulla. E a Giuditta...

— No, alla bambina: si ubbriacherebbe.

— Ma che! una gocciolina, un fondo di bicchierino.

Lucia bevve d’un fiato, imperterrita: poi impallidì. Giuditta bevve, tossì, starnutò, rossa, con le lagrime agli occhi. Attorno alla tavola si rideva, mentre Caterina le dava dei colpetti sulla schiena.

— Credo che tu beva troppo cognac stasera, Andrea — gli mormorò all’orecchio.

— Non bevo più: hai ragione.

Levandosi per andare nel salotto, offerse il braccio a Lucia: cosa che non aveva fatta, entrando. Caterina si chetava. Quando li vide nel salotto giallo, seduti l’una sul canapè, l’altro sulla poltrona, discorrendo placidamente, ella se ne andò dentro a lavare il viso e le mani della bambina.

— Avete smesso l’ambra, signorina Lucia?

— Sì, signor Lieti.

— Perchè?

— Non so.

— Me ne rallegro con voi.

— Grazie.

— I fiori vi stanno meglio. Chi vi ha dato quelle violette?

— Siete curioso, signor Lieti.

Egli la guardava sorridente, l’occhio lucido. Invero gli pareva un’altra; forse per l’abito bianco, tutto morbido, tutto curve. Era preso dalla bonarietà soddisfatta del dopopranzo, da quel senso di beatitudine tenera che gli metteva dell’affetto nella voce.

— Io mi chiamo Andrea — susurrò.

— Lo so — disse lei, duramente.

— Ditemi Andrea. Non dite Caterina, forse? Io e Caterina siamo la stessa cosa.

— Non per me.

— Capisco. Ma se Caterina vi è tanto amica, vi posso essere amico anch’io. Mi proibite di diventarlo?

— ... Forse l’amicizia non esiste.

— Sì, ch’esiste. Non siate pessimista. Sentite, cara signorina, che ve lo dica piano in un orecchio.

Ella si curvò sino a toccargli le labbra con la guancia. Egli le disse:

— Qui siamo in due a volervi bene. Credetelo... Lucia si riversò indietro, abbandonò il capo sulla spalliera, chiuse gli occhi.

— Ma è dunque un’altra donna, col collo così bianco e così palpitante nel riccio di trina? — pensava Andrea.

— Andrea, Andrea — chiamò dalla camera Caterina.

Egli si scosse, crollò le spalle come se le scaricasse di un peso, dette un’occhiata a Lucia che pensava, chiusi gli occhi, e andò di là. Per qualche tempo parlottarono a bassa voce marito e moglie, discutendo. Di botto, ridendo silenziosamente, egli afferrò sua moglie e la baciò nell’orecchio. Caterina si schermì, accennandogli a Giuditta che si metteva il cappello innanzi allo specchio e che vedeva tutto.

— Tutto dipende da lei — mormorava lui, rientrando in salotto. — Signorina Lucia, dormite?

— No, non dormo mai.

— Caterina vi vorrebbe un minuto di là.

— Che vuole?

— Lo so, ma ho avuto ordine di non vi dire niente.

— Ci vado, allora.

E ci andò, lasciando scorrere sinuosamente il suo strascico bianco per terra. Senza pensarci, Andrea sedette sul divano e appoggiò il capo dove ella aveva appoggiato il suo. Un odore selvaggio di capigliatura gli sfiorò le nari. Si alzò e passeggiò per diradare i vapori che gli annebbiavano il cervello.

Di là, Caterina era impacciata per spiegare la cosa a Lucia. Non trovava le parole, intimidita da quella alta fanciulla, vestita di lana bianca come una dama romana, che aspettava ritta, senza battere palpebra.

— Credo... credo che tu ti annoi di venire con me al collegio.

— Per far che?

— Per accompagnare Giuditta.

— No, non vengo. Il collegio mi fa cattiva impressione. Va tu.

— Andrei... se non temessi di lasciarti sola. Ma ritorno presto, sai. Il tempo di andare e venire in carrozza.

— Va pure. Io rimango sola volentieri.

— Gli è che... volevo...

— Portar teco Andrea? È naturale.

— No, no... il contrario.

— Lasciarmelo in compagnia? Si annoierà.

— Ma che dici!

— Si annoierà, Caterina.

— Se è lui che non vuol restare per paura di annoiarti. Se non ti dispiace...

— Ti pare? era tutto questo? Io rimango sola, con tuo marito, come tu vuoi. Purché tu venga presto.

— O non dubitare, cara — e l’abbracciò rizzandosi sulla punta dei piedi, tutta contenta di aver accomodata quella grossa quistione.

— Vestiti dunque e va.

Quando Giuditta e Caterina passarono pel salotto, trovarono Andrea e Lucia seduti come prima, senza parlare.

— Va pure, Caterina. Io leggerò un libro, tuo marito leggerà il Piccolo. Hai un Leopardi?

— No, mi dispiace...

— Bene, penserò. Va, cara, va.

Andrea ascoltava senza parlare.

— Se vuoi, puoi addormentarti — gli disse sottovoce sua moglie, salutandolo.

Ma non si baciarono per causa della bambina. Lei se ne andò, leggiera, felice, poiché aveva provveduto a tutto. Quelli che restavano, la seguirono coll’occhio. Poi, senza parlare, Lucia offrì il Piccolo ad Andrea che lo spiegò.

Fingendo di leggere, egli sbirciava Lucia con la coda dell’occhio. Lucia lo guardava con un sorrisetto così buono, così seducente, che di nuovo gli parve un’altra donna, tutta serena, tutta giovane nel suo abito bianco.

— Non vi annoiate, signorina?

— No, penso.

— Ditemi a che cosa pensate.

— Che v’importa? Penso alle cose lontane.

— È una malattia pensare troppo. A volte, ma raramente, succede anche a me di pensare.

— Pensate voi, ora, signor... Andrea?

La mano di lei pendeva, abbandonata. Egli scherzando, intrecciò un momento il mignolo suo col mignolo di lei. Un silenzio si prolungò.

— Che pensavate, ora? — chiese di nuovo Lucia, con quella voce bassa dove si effondeva tanta tenerezza.

— Non vorrei dirvelo. Come avete la mano bianca, lunga, sottile. Vedete che specie di manona ho io!

— Quel giorno, al torneo di scherma, la vostra mano fece miracoli.

— Credete, eh? — e diventò rosso dal piacere.

Di nuovo tacquero. Ella ritirò la mano e si mise a scherzare con le violette che aveva sul petto. Egli socchiuse gli occhi, non perdendo mai di vista quel viso puro, pallido, delicatamente colorito di roseo, quegli occhioni magnetici, quelle sopracciglia sottili, quella bocca rossa e schiusa come un fiore di melagrano. Si perdeva in una contemplazione vaga, vedendo sopra un fondo nebuloso spiccare quella figura affascinante di donna.

— Ditemi qualche cosa, signorina Lucia.

— Perchè?

— Voglio sentirvi parlare. Avete una voce incantevole.

— Anche Caterina me lo ha detto stasera.

A quel nome egli si alzò improvvisamente, fece due o tre giri nella stanza, come un leone irrequieto. Ella trasse una seggiola innanzi, vi appoggiò i piedi, chiuse gli occhi.

— Vi addormentate? — domandò Andrea, fermandosi davanti a Lucia.

— No, sogno — rispose lei, con tanta dolcezza, che Andrea le sedette di nuovo accanto, sulla poltrona.

— Ditemi che pensavate poc’anzi — soggiunse Lucia, mettendogli una mano sul braccio.

Andrea restò immobile per non far rimuovere quella mano.

— Pensavo a una cosa cattiva, ma vera.

— Di me?

— Di voi, Lucia.

— Ditela.

— No, vi farebbe dispiacere.

— ... da voi, no.

— Lasciate che non ve la dica.

— Mi siete scortese.

Tacquero. Un senso di pena adombrava il volto di Lucia: ella respirò affannosamente due o tre volte, come se fosse oppressa.

— Che avete?

— Niente: sto bene. E voi, signor Andrea?

Egli non rispose. Si sentiva bene lui? Lui che ogni tanto era vinto da una molle sensazione di dolcezza, come se il sangue gli si rinfrescasse nelle vene; che respirava piano e la veste di Lucia gli pareva come una larga falda nevosa; e che era preso da un desiderio pazzo di buttarsi per terra ai piedi di quella donna, appoggiarle il capo sulle ginocchia, e chiudere gli occhi come un bambino? Stava bene egli che ogni tanto era preso da certi sbuffi di ferocia, per cui avrebbe voluto stringere le braccia intorno a quella vita sottile per sentirla fremere, divincolarsi, flessuosa come una tigre? Cercava di non pensare, ecco tutto.

— Che stoffa è questa, signorina Lucia? — domandò dopo un poco, strisciandole pian piano un dito sulla manica.

— È lana.

— Una lana morbida.

Cachemire.

— Vi sta tanto bene. Perchè non la portate sempre?

— Vi piace?

— Sì, molto — e seguitava a carezzarle il braccio macchinalmente.

Ella s’inchinò verso lui, molto da presso.

— Fatene fare una a Caterina.

Questa volta Andrea non si alzò, ma trasalì vivamente, ritirò la mano e la passò nei capelli per rigettarli indietro.

— Pensavo poc’anzi — esclamò — e non volevo dirvelo, che l’uomo il quale s’innamorasse di voi sarebbe molto infelice.

Lucia si rigettò indietro fredda, silenziosa, il viso indurito in una espressione di collera.

— Ecco che siete andata in collera — disse egli a voce più bassa, un po’ umiliato.

— No — e il monosillabo fischiò tra i denti.

— Sì, siete in collera. Io sono brutale.

E cercò aprirle il pugno che ella teneva nervosamente chiuso. Non vi riesciva, temendo di farle male, pregandola di non ficcarsi le unghie nella palma della mano. Ella lasciava fare con un’aria di sofferenza che le rialzava gli angoli delle labbra, con la guancia appoggiata sulla spalliera del divano.

— Lucia, Lucia... — mormorava. — Siate buona con chi è stato cattivo.

Finalmente, con un sospiro di trionfo, aprì quella mano: quattro segni rossi macchiavano la palma bianca. Andrea guardava, senza osar di baciare quella mano martoriata. Vi soffiò sopra, come un bambino.

— È passata la bua?

Ella si degnò di sorridere, ma non di rispondere. Andrea cercò di placarla, parlandole piano, dicendole delle puerilità, imitando la voce dei bimbi che chieggono scusa alla mamma, che giurano di non farlo più, che non vogliono andare nella stanzetta buia dove hanno paura — e su quel viso forte di uomo era tale espressione infantile, egli faceva così bene le spallate, le scrollate di testa, il brontolio piagnoloso, i movimenti felini dei fanciulli, che ella finì per ridere un po’ nervosamente, ma con un riversamento della testa che mostrava il collo bianco e palpitante.

— Mammina ha perdonato? — finì lui.

— Sì, sì — e gli dette un colpetto sulla spalla, ridendo ancora.

Di nuovo egli resistette al desiderio di baciare quella mano.

— Sapete che siete più grassa questa sera?

— Vi pare? — disse lei, languidamente, come spossata dal riso.

— Sicuro.

— Sarà l’abito bianco.

— O sarete voi. Voi fate miracoli strani. Sembrate quello che volete sembrare.

— Che sembro questa sera? — soggiunse Lucia, con una stanchezza voluttuosa.

— Sembrate una strega — rispose Andrea, con profondo accento di convinzione.

Lei lo guardò, interrogandolo, parlandogli con gli occhi, volendo sapere ancora.

— Una strega... una strega... — ripetette lui, come se rispondesse a una voce interiore.

Suonarono le nove all’orologio, ma niuno dei due trasalì. Una calma era nel salotto, dove si diffondeva la luce di una sola lampada, temperata dal paralume. Rumori non ne giungevano. Nulla. Due, soli, vicini; guardantisi. Quelle pause sembravano piene di significato e piene di dolcezza: non ricominciavano a parlare che con uno sforzo. Parlavano sottovoce, lenti lenti, senza un gesto. Egli non si avanzava, ma lei non tirava indietro il capo.

— Che profumo portate nei capelli? — chiese egli.

— Nessuno.

— Oh! ci avete certo un profumo. Poco fa l’ho sentito...

— Eppure non ci metto nulla.

— L’ho sentito, appoggiandomi dove si era appoggiata la vostra testa.

— Sentite — disse lei, con un abbandono audace, mettendogli la testa vicino alla faccia per fargli odorare i capelli.

Allora lui, abbarbagliato, affogato, afferrò Lucia per la vita e la baciò sul collo, rudemente, grossolanamente. Ella si sciolse, balzò in piedi, furiosa, viperea, fulminandolo. Non si scambiarono una parola. Egli guardava, sbalordito, confuso, lei che correva per la stanza, cercando il mantello, il cappello, i guanti, non trovandoli, fremendo di rabbia. Ogni tanto ella si passava la mano sul collo, come se le bruciasse. S’infilò il mantello, abbottonandolo frettolosamente; le mani tremanti non potevano annodare presto i nastri del cappello nero. L’abito bianco era scomparso: era tutta nera, ora, pallidissima, un cerchio bistrato sotto gli occhi: si faceva livida.

— Dove andate?

— Me ne vado.

— Sola?

— Sola.

— No. Piuttosto me ne vado io..

Le fece un saluto profondo e scomparve dentro la stanza da letto, chiudendo la porta.

Quando Caterina rientrò, tutt’ansante, trovò Lucia sola, sdraiata sul divano, tranquilla.

— Ho tardato troppo, forse? E Andrea?

— Non so. È di là, credo.

— Tu che facevi sola sola?

— Pregavo: sai, col rosario di lapislazzuli.

Caterina passò nella stanza da letto. Una forma nera era buttata, bocconi, di traverso sul letto, senza cuscino, con le braccia aperte, come un Cristo arrovesciato.

— Andrea? — chiamò ella, sottovoce.

— Che è? — disse lui, bruscamente.

— Dormi?

— Mi seccavo e sono venuto qui. Lasciami dormire.

— E Lucia, chi l’accompagna?

— Tu. Lasciami in pace.

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