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VII.
Un mattino, prima di uscire, Andrea disse a sua moglie, baciandola:
— Prepara i bagagli per questa sera. Partiamo per Roma.
— Quanti giorni? — chiese lei, senza mostrare meraviglia, abituata a questi ordini improvvisi.
— Almeno quindici. La biancheria, gli abiti buoni: lascia i gioielli. E pronta al comando, sai, bimba!
Se n’erano andati a Roma, senza avvisare alcuno della loro partenza. Pareva un viaggetto di nozze: da un anno e mezzo del loro matrimonio, non avevano mai viaggiato che da Napoli a Centurano. Caterina aveva le piccole sorprese e le ingenuità di una novella sposa; ma si assuefaceva subito, come una creatura d’ordine, che nulla giunge a squilibrare. Andrea godeva, canzonandola, vedendo che sporgeva ansiosamente la testa dallo sportello, a ogni stazione, dicendole le cose più favolose sui paesi che rasentavano, ridendo perchè lei non le credeva, offrendole da bere, offrendole di scendere per far due passi: ed ella si schermiva, come una bambina timida, che non vuole essere canzonata. Andrea passeggiava nel vagone, urtava contro la vôlta, fumava, mangiava, metteva il grosso capo fuori dello sportello, parlava con gl’impiegati, discuteva col venditore di giornali, sgomentava gli altri viaggiatori con la sua statura erculea. Era insomma esuberante di vita, allegro e chiassoso. Caterina non l’aveva mai visto così, specialmente dopo il periodo di malumore furioso per quel pranzo malaugurato. Oh! era stato un malumore formidabile e spaventoso: la casa tremava per le porte sbatacchiate, per le sedie respinte con violenza, per i pugni battuti sulle scrivanìe, per gli arrabbiati scoppi di voce che tônavano per tutto. Una tempesta di tre giorni che ella aveva vinto col silenzio, con la placidezza, con l’obbedienza. Poi Andrea si era calmato, ma n’era rimasto un po’ nervoso, con certi impeti di collera, sempre più radi. Infine, non era ridiventato l’antico Andrea, l’Andrea fanciullo, ridanciano e clamoroso, che scoppiava di salute e di gioia, tranne che nel viaggio. Caterina non diceva nulla; ma, dentro, il piccolo cuore le si allargava, dilatato dal piacere.
A Roma Andrea fu preso da un’attività fenomenale. Si svegliava presto, sorridendo alla faccina rosea che spiava il suo risveglio, e cominciava a chiamare tutti i camerieri dell’Hôtel de Rome; prendevano il caffè in fretta e poi se ne andavano a visitare la città. Certo, Andrea non amava punto le antichità e Caterina non le intendeva affatto; ma era di obbligo visitarle, anche per acquistare l’appetito della colazione. Se ne andavano guardando, non risparmiando un angolo, nè tralasciando una pietra, da viaggiatori coscienziosi, dicendo, con un’estasi limitata:
— Bello, bello, molto bello!
Ma si divertivano perchè erano insieme, perchè Caterina non aveva mai visto nulla, perchè Andrea sapeva imitare la voce nasale dei ciceroni, dando una spiegazione confusa e imbrogliata, nella quale Caterina correggeva gli errori di storia romana. Ritornavano all’albergo, intronati, stanchi, facevano colazione lungamente. Poi Andrea usciva pel suo grande affare. Oggi doveva parlare col segretario generale, domani aveva un appuntamento col ministro, l’altro giorno si trattava di combinare tutto col direttore generale, sezione agricoltura.
Talvolta, nella stessa giornata, aveva due altri appuntamenti, col robusto, immenso deputato di Santamaria, coll’elegante e aristocratico deputato di Capua, col chiomato deputato di Teano; le conferenze col deputato-giornalista di Caserta, influente perchè amico del presidente del Consiglio, perchè direttore di un giornale napoletano molto diffuso, duravano eterne. Allora egli conduceva la moglie in carrozza a Villa Borghese o al Pincio, e la lasciava lì; o a San Pietro, un paio di volte, dove ci era un fresco ammirabile e sempre roba da vedere: due o tre volte la condusse alla Camera, nella tribuna delle signore, dove Caterina si annoiò moltissimo, intendendo poco della discussione, avendo caldo, morendo di sete, ma facendo finta di nulla. Ella aspettava paziente che egli venisse a riprenderla, con la sua calma di donnina che rimarrebbe un secolo ad attendere nel posto dove l’hanno lasciata. Andrea tornava, frettoloso, rosso, scalmanato, sbuffando come un torello, scusandosi di averla fatta troppo aspettare, narrandole quello che aveva fatto, le gite inutili, i funzionari inerti e molli, il segretario pieno di diffidenza, il ministro pieno di ardore, i deputati pieni di zelo, per far fare buona figura ai collegi che rappresentavano. Caterina stava a sentire il racconto, con quella bell’aria di attenzione che fa tanto piacere ai narratori, senza stancarsi mai. Poi, quella esposizione regionale agraria era il loro grande affare. Andrea era presidente del Comitato promotore: avrebbe esposto grano, granone, vino, una razza speciale di galline, una coltivazione perfezionata di zucche, una modificazione della trebbiatrice. Insieme vi era la mostra didattica, di cui Caterina era dama patronessa. Per l’aristocrazia vi era una mostra di floricoltura. Si sarebbe inaugurata sulla piazza principale di Caserta la statua di Vanvitelli. Infine tutti gli interessi suscitati, tutta la provincia posta in rivoluzione, feste da sbalordire, treni straordinari. Al 1O settembre, nella bella stagione, già fresca, ancora tepente. Tutto stava a ottenere per l’Esposizione la reggia storica, dove i Borboni avevano tanto amato di vivere. Caterina si univa al marito nel desiderare la reggia, nel pretendere la reggia, nel volere la reggia: a che serviva quel palazzone grave e vuoto? Per l’Esposizione sarebbe magnifico. Bisognava avere la reggia a ogni costo.
Detto e ripetuto questo molte volte, Andrea e Caterina se ne andavano a pranzo or qua, or là, trattenendosi molto, studiando la lista del giorno, scegliendo ognuno una cosa, ognuno assaggiando di quello che l’altro aveva scelto, Andrea ammiccando al cameriere, mettendo in tutto quello che facevano la loro soddisfazione di persone sane, giovani e felici. Niuno li disturbava, niuno li faceva andare in collera. Roma è umana, è materna, è sorridente a questi sposi che vengono a portare il loro amore per le sue vie aspramente selciate, nelle sue mura bigie e grandiose, sotto il suo cielo mite, di una dolcezza infinita.
Dopo una fermatina al Caffè del Parlamento o a quello di Roma, una breve passeggiata — e a nanna. Andrea era stanco, eppoi doveva alzarsi presto, alla mattina. Ma più spesso, in quelle ore fra la colazione e il pranzo, Caterina pregava Andrea che la lasciasse in casa. Preferiva starsene lì, in un minuscolo salotto che aveva accanto alla camera. Al ritorno Andrea le chiedeva che cosa avesse fatto. Lei rispondeva:
— Ho lavorato con la cameriera per ritoccare il mio abito grigio. Ella non sapeva, le ho insegnato. Sono andata qui presso, sino da Pontecorvo, per scegliere certe stoffe da portare a Napoli...
Qualche volta chinava gli occhi e diceva:
— Ho scritto.
— A chi, Ninì?
— A mia zia, a Giuditta nel collegio, a Giulietta la cameriera, a Matteo, il custode di Centurano.
— E ad altri?
— Anche.
Non la nominavano, ma s’intendevano subito. Per qualche tempo, fra loro, non ne avevano parlato: Caterina sentiva la profonda antipatia di Andrea, ma non osava lamentarsene, non osava contraddirlo. Era stata a trovare Lucia, sola. Costei l’aveva ricevuta con una grande espansione, coprendola di baci, facendole tante domande premurose, imbarazzandola con certe occhiate indagatrici: non una parola di Andrea, il che era stato un sollievo per Caterina. Internamente ella pativa per quella specie di odio fra due persone che amava. Neanche a Roma ne avevano più parlato. Finalmente un giorno, rientrando nell’albergo, Andrea trovò Caterina alquanto distratta. Ella accolse con un mediocre trasporto la notizia che il presidente del Consiglio sarebbe intervenuto all’inaugurazione dell’Esposizione agraria: disse di sì, a bassa voce, al marito che le proponeva di passare tre giorni a Firenze, per poi tornarsene direttamente a Napoli.
— Ohe, Ninì! E che hai?
— Niente.
— Non si dice la bugia, piccola Ninì. Si legge scritta sul naso. Eccola qui, cammina, ha le zampe corte, come quelle di un ragno. Oh è nera, è brutta! Che hai, Ninì?
— Nulla, nulla... — e si schermiva.
— Dillo, Caterina.
— Ti prego...
— Bah! streguccia innocente, io lo so.
— Che sai?... — e arrossiva.
— So perchè sei preoccupata. È la lettera di Napoli che t’ha impensierita.
Ella lo supplicò di perdonarle, con gli occhi timidi.
— Non te ne voglio — disse lui, lentamente. — Se quella ragazza non mi piace, è anche un’amica d’infanzia tua e io rispetto le tue affezioni. Tu non ami lei più di me, spero.
— No — disse lei, semplicemente.
— Ebbene, basta questo. Non pensare ad altro.
— E... la lettera è interessante?
— Molto.
— Vi era scritto urgente... è proprio urgente, o è una fantasia?
— Proprio urgente.
Egli girò per la stanza e guardò l’orologio.
— Vuoi che andiamo a pranzo? È presto, mi pare.
— Presto certamente.
— E che ti scrive? — domandò lui, dopo una pausa, senza annettere nessuna importanza a quello che chiedeva.
— È lungo a dirsi.
E tornò a pregarlo, con gli occhi.
— Ho capito, Ninì, ho capito — disse Andrea, crollando il capo — tu vuoi leggermi la lettera.
— No, no...
— Sì, che me la vuoi leggere. Non hai il coraggio di dirlo, ma io l’indovino. Ma che sono un orso, io? Vuoi fare accreditare la voce che io sia tiranno?
— Andrea!
— Su, piccola vittima d’un marito barbaro e spietato: poiché ci vuole un’ora pel pranzo e poiché la riuscita del nostro affare ne fa clementi, leggeteci questa lettera. Noi ci faremo portare del wermouth e dei sigari per tollerare, con una santa pazienza, questo tormento di nuovo genere. Dio mio, considerate voi questo Andrea infelice...
— Se continui così, non leggo.
— Ma che! Se muori dal desiderio di leggere! Su, raggiratrice, su, strega. Noi prestiamo la dovuta attenzione.
Caterina cavò la lettera dalla tasca dove la teneva con la mano, e lesse:
«Caterina mia!
«Questa lettera che io ti scrivo non rassomiglia alle altre, piene di fantasticherie, come mio padre le chiama. Questa lettera è grave. Caterina, raccogli quanto senno, quanta ragione possiedi: aggiungi l’esperienza: chiama in aiuto tutta la profonda amicizia che hai per me e siimi buona di consiglio, di soccorso. Caterina, io sono giunta all’ora più solenne della mia vita. Pellegrina, errante e senza guida, sono giunta al bivio. Debbo decidermi. Debbo rispondere alla domanda oscura dell’avvenire: il punto interrogativo mistico del futuro chiede un no, chiede un sì. O Caterina, quanto lo temevo questo momento decisivo! Come mi vi appressavo esitante, confusa, smarrita di forze! Ecco, esso mi ha sopraggiunta; mi è addosso come un incubo.
«Ascoltami con pazienza: cercherò di non dilungarmi. Ma ho bisogno di spiegarti chiaramente la mia posizione. Ti rammenti, sul terrazzo del collegio, quando parlavamo del nostro avvenire? Ti dissi che non mi sarei maritata mai, che avrei cercata qualche nobile, ma umile missione da compiere: qualche apostolato a cui consacrare le mie scarse forze, tutto il fervore di un’anima ardente, tutto l’impeto di un cuore innamorato del sacrificio. Ho cercato e avevo trovato, ma l’egoismo umano non me lo ha permesso: mio padre che non mi ama, ma che teme il giudizio del mondo, mi ha impedito di farmi suora di carità. Non voleva che si dicesse: Guardate, aveva una sola figlia, e l’ha resa tanto infelice, che si è fatta monaca! — Se questo era il mio destino, Dio gli perdoni di non avermelo fatto seguire. Altre missioni erano o troppo gravi per la mia salute o troppo meschine per la mia passione. Così ho passato il tempo pregando, facendo elemosine, cercando di consolare qualche afflitto, ma senza uno scopo chiaro, senza una meta: una vita quasi inutile agli altri, di grave peso a me. Finalmente, un giorno, come a san Paolo sulla via di Damasco, una grande luce mi ha ferito gli occhi e io sono stata atterrata dalla voce del Signore. Egli mi ha parlato: io ho inteso le sue parole e, ultima fra le ultime peccatrici che osino levare gli occhi al trono della Vergine, ho osato ripetere le parole di Lei: Signore, ecco la tua serva, la tua volontà sia fatta!
«Accanto a me, Caterina mia buona, vi era la missione da compiere, il sacrificio da consumare. Accanto a me vi è un essere sofferente, malaticcio, condannato da una fatalità fisiologica a una morte crudele, colpito da un feroce atavismo che gli avvelena il sangue. Egli non ha lunga vita: lo susurrano fra loro i medici. Il Cardarelli lo ha detto brutalmente: può vivere qualche tempo ma con molte precauzioni. Ma morirà di quella morte: è scritto. Ha il germe della tisi: morirà tisico. Tu sai chi è: è Alberto Sanna, mio cugino. Egli s’illude sul suo stato, ma noi sappiamo tutti la triste verità. Non può vivere.
«Ora immagina quale vita sia quella del povero Alberto. È molto ricco, ma è solo, affidato a cure mercenarie, in mano a servi che non lo amano e lo trascurano. Egli è sempre tormentato dal desiderio di divertirsi, e non può, non deve: gli amici lo consigliano male, non badano alla sua salute gli fanno perdere, in una notte vegliata, un mese di precauzioni. Quando cade ammalato, è solo, mal assistito, si dispera: è una pietà, mia dolce Caterina. Appena sta un po’ meglio, si alza di letto, si imbacucca e viene da me, che sono la sua consolatrice. Egli è triste perchè ammalato, perchè non ha nessuno che lo ami, perchè non avrà mai una famiglia, perchè gli sono proibite tutte le gioie, perchè al banchetto della vita egli appare solo un momento e scompare — come il tisico di Gilbert. Gli manca un’anima, gli manca un amore, gli manca una creatura: colei che prenda cura di lui, che lo ami, che si sacrifichi, che gli renda, se non felici, soavi questi pochi anni di esistenza che gli rimangono, egli non l’ha. Si volta intorno e si vede solitario, perduto in mezzo alla folla, indifferente a tutti. Vivo, nessuno lo amerà: morto, nessuno lo piangerà.
«Ebbene, quest’anima, questa creatura, questa donna, sarò io. Sì, Caterina, io sposerò Alberto Sanna. Sarà un sacrificio enorme di tutta la mia gioventù, di tutta la mia vita, di tutti i sogni di splendore e di gioia. Sarà un olocausto silenzioso che io offrirò a Dio. Per la felicità di un’altra creatura angosciata e dolente, io darò la mia felicità. Getterò la mia vita per quella di un essere piangente, che mi ringrazierà col sorriso della gioia. Io non amo Alberto Sanna di amore. Tu lo sai, questo sentimento terreno e carnale non è ancora sorto in me: non sorgerà. Io mi sento piena di pietà, colma di compassione per questo essere disgraziato — e per pietà lo sposo. Egli mi ama con una passione cieca, infantile, profonda — e crede di essere amato d’amore, e io voglio che lo creda. Talvolta l’inganno è una pietà. Io sarò accanto a lui la sposa fedele, la sorella pietosa, la madre previdente, la infermiera instancabile: egli non vedrà mai sul mio volto una traccia di noia o di stanchezza. Mi segregherò dal mondo che egli non può frequentare. Darò un addio alle relazioni mondane, che metterebbero un fastidioso romore nella nostra casa. Dimenticherò le mie sofferenze per alleviare le sue. Se qualcuno fra noi due dev’essere infelice, io sarò quella. Muta, sorridente, serena, nasconderò nel profondo del core quanto potrebbe essere di pena al povero Alberto. Io sarò il suo sorriso.
«È melanconico l’avvenire, ma è pieno di un nobile apostolato. Noi non avremo figli, Caterina. Sarebbe una infamia, una ferocia mettere al mondo creature deboli, dando loro polmoni infermi perchè crescano meschini e tristi, perchè nel più bello della gioventù sputino sangue e maledicano il seno che li ha concepiti, il latte che li ha nutriti, perchè agitino le braccia scarne e desolate in faccia al padre o alla madre, chiedendo loro conto della vita miserabile, della pena immeritata che li condannarono. Io ho letto Un giorno a Madera di Paolo Mantegazza. Vi è un’alta passione e un’alta saggezza. Quel libro mi ha fatto piangere e pensare. No, le teste bionde non si poseranno sulle mie ginocchia materne: gli occhioni bruni non si affisseranno nei miei, pieni di luce. Mi sarà negata la consolazione dei figli, o amica mia. Questa consolazione sarebbe un delitto, un atroce delitto.
«Melanconico è l’avvenire. Non so quello che sarà di me. Certo, Dio mi darà la forza per sorreggermi in tanta necessità di forza. È pel mio caro ammalato, è per quella povera anima trafitta che io debbo vivere. Non mi ammalerò, spero. Dio non vorrà darmi il dolore di farmi morire prima di Alberto: io gli servo, ha bisogno di me, gli sono necessaria. Dio non chiama a sé, prima del tempo, coloro che hanno una missione sulla terra. Mi sento così esaltata da questo pensiero, che le mie forze mi paiono triplicate.
«D’altra parte, Caterina, è necessario che io esca di casa mia. Mio padre male mi sopporta, e volentieri mi avrebbe lasciata in collegio, se non avesse temuto quella tal voce del mondo, di cui ti ho già detto. Egli è un egoista, indifferente a qualunque sofferenza umana. Egli trova modo, da mane a sera, di farmi osservazioni sulle mie fogge di vestire, sui mobili delle mie stanzucce, sugli amici che ricevo, sulle ore che essi restano da me, sulle mie pose di fanciulla fatale. Egli è crudele ogni giorno con me. È arrivato a dirmi cose orribili: che i suoi amici mi dicono troppo stravagante, che la mia condotta è pazza, che io sono la peggiore civetta di questo mondo. Quanto ho pianto, quanto ho spasimato, io, povera vittima che i borghesi crocifiggeranno sempre! Ho chinato il capo senza rispondere. Sono soverchia in casa mia, Caterina. Ho dovuto fare un grande sforzo e pregare Galimberti di diradare le sue visite, che davano all’occhio alla servitù volgare e maldicente, che si burlava di lui. — Povero e caro amico, io ho dovuto immolarti al mondo, proprio nel momento in cui tu più avevi bisogno della mia parola consolatrice, quando con la più crudele ingiustizia ti avevano licenziato dal collegio! — Però, gli scrivo ogni tanto, anche per non dare sospetto. Temo che sia molto avvilito e molto infelice: scrivendogli, io gli mando le più dolci parole che si possano dire. Ma vedi che cosa è stato per me mio padre! In fondo la verità è che io gli rattristo la casa, dove egli vuol ridere e scherzare: la verità, è che lui, a quarantadue anni, è più giovane di me che ne ho venti: la verità è che lui vuol maritarmi per liberarsi della mia presenza: la verità e che — orribile a dirsi — essendo vedovo da quindici anni, egli aspetta l’ora della liberazione, quella del mio matrimonio, per ammogliarsi di nuovo.
«Così tutto, tutto fatalmente mi spinge verso Alberto. Sposandolo, io do una soddisfazione a mio padre, io do la serenità al mio sposo, io quieto la mia coscienza nell’adempimento di un sacro dovere. Nessuna idea d’interesse mi anima: già è inutile dirlo a te che mi conosci. Alberto è molto più ricco di me, ma che ne ho da fare io delle sue ricchezze? Noi non avremo corte bandita, noi non avremo in scuderia che due cavalli, per le passeggiate dell’ammalato, io vestirò semplicemente di nero — il lutto dell’esistenza sfiorita — avremo un numero di servi ristretto, pei nostri pochi bisogni. Nè sfarzi, nè lusso, nè feste, nè balli: lo stato d’Alberto non lo consente. Basterà che egli mi dia qualche cosa per i miei poveri. Terrò io l’amministrazione, perchè lui non potrebbe. Mi sobbarcherò anche a questo compito arido, duro, ingrato. Beverò fino all’ultima stilla il calice amaro che io stessa mi sono apparecchiato. Così il Signore tenga lontana dal mio capo quella suprema ora di debolezza in cui Cristo stesso, esausto, vide tutto scomparire e mormorò: Se è possibile, o Padre, questo calice mi sia risparmiato.
«Ma dimmi tu, Caterina, se tutto questo non ti pare bello? Dimmi tu, serena apprezzatrice, se quello che io m’impongo non è santo? Non è sublime la mia missione? Non è quasi divino quello che io fo? Non corono, così, degnamente la mia vita col motto che oramai sarà il mio: Tutto per gli altri, nulla per se? Non do io agli uomini un grande esempio d’altruismo? Non voglio lodi, voglio compirlo umilmente, piamente, come una indegna creatura, ma prescelta per bontà divina.
«Scrivimi. Dimmi il tuo parere, netto, sincero, leale, come sempre me lo hai detto in tutte le gravi occasioni della vita. Niuna più grave di questa: lo ripeto. Scrivimi sopra un pezzo di carta: Tu fai bene, Lucia. O scrivi: Lucia, tu fai male.
«E ritorna, ritorna, Caterina: ritorna a chi t’ama come mai amica fu amata.
«Lucia».
La voce della lettrice, pura e sonora, verso l’ultimo si era affievolita, un po’ roca, come molto stanca.
Quando ebbe finito, piegò i fogli di carta velina, li ripose nella busta, e aspettò che suo marito parlasse.
Andrea aveva bevuto due bicchierini di wermouth, il terzo lo aveva lasciato a metà; il sigaro gli si era spento un paio di volte.
— Tu che ne pensi, Ninì? — domandò poi, con un tono di trasognato.
— Io? Non so, non ho idee, io, non ne ho mai avute.
— E che le scriverai?
— Quello che mi dirai tu.
— Ti fo osservare che l’Altimare — soggiunse lui freddamente — non ti ha detto nè di leggermi la lettera, nè di chiedermi consiglio. Io non sono nominato.
— Ma tu capisci... -— disse lei, umiliata.
— Sì, capisco e non capisco. A ogni modo mi pare uno sciagurato matrimonio.
— Anche a me.
— Tu sei sempre del mio parere. Quell’Alberto è così meschino, così miserabile, che non si merita una donna come Lucia.
— È vero, è vero. Le scriverò che fa male.
— Sì, scriviglielo. Non ti darà retta, ma tu l’avrai avvisata in tempo. O piuttosto... aspetta domani a scrivere.
Non ne parlarono più, ma durante tutta la sera furono preoccupati e distratti. Scambiarono rade parole. Andarono al teatro, ma non restarono sino all’ultimo atto.
Durante la notte Andrea fu agitato: Caterina, tra veglia e sonno, lo sentì voltarsi e rivoltarsi, sbuffare, scuotere la coltre. Insonnolita, avendogli chiesto che avesse:
— È il caffè! era troppo carico, — borbottò lui. Al mattino seguente egli la prese a parte, essendovi la cameriera — e le fece questo discorsetto:
— Senti, Ninì, non c’imbarazziamo nei fatti altrui. Forse possiamo ingannarci: non prendiamo responsabilità troppo serie. Lasciamo maritare l’Altimare come le piace. Forse sarà felice con Alberto. Non abbiamo carico d’anime, noi. Le daremmo forse un cattivo consiglio. Dopo tutto, i matrimoni non riescono mai quello che si prevede. Scrivile che fa bene Lei ubbidì, poichè l’incarico suo era di trovar saggio e onesto quanto suo marito faceva.