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Parte terza Parte terza - II

I.


C
ome giungevano i treni da Roma e da Napoli, un’onda di gente traboccava dalla piccola, meschina, sporca stazione di Caserta e si avviava per la via larga e polverosa, senza riparo, perchè fiancheggiata da due prati dove vanno a pascolare i cavalli della guarnigione. Sotto il sole se ne andavano le marsine nere che incorniciavano i petti bianchi delle camicie da ballo: se ne andavano i costumi leggeri, estivi, di tela a righe bianche e azzurre, con cui gli eleganti napolitani si davano un’aria di cittadini della capitale che trattano con disinvoltura la provincia e che non vogliono andare nel salone d’inaugurazione: se ne andavano i soprabiti, mezza eleganza provinciale. Sotto le cupole

bianche dei larghi ombrellini si avanzavano le signore, in abiti chiari, freschi, leggeri, in tutte le gradazioni del lusso. Venivano da Napoli, da Santamaria, da Capua, da Maddaloni, da tutte le città piccole, dai casali grandi dei dintorni, ridendo, cinguettando: quelle di Napoli, disinvolte, odorando i grossi mazzi di fiori, armeggiando col ventaglio: quelle della provincia un po’ meno chiassose, spiando le cittadine, cercando di imitarle. Batteva il sole di quella gaia giornata di settembre e le signore mettevano allegramente nella polvere le loro scarpette lucide, dalla fibbia gemmata. Il viale formicolava di gente.

Di fronte il palazzo, il sogno poetico di Vanvitelli che è diventato una realtà architettonica, serbava la sua grande aria maestosa, creatagli dalla purezza delle linee, dalla semplicità squisita degli ornamenti, dall’armonia severa, da quel colore di legno-pallido, non sbiadito, ma su cui il tempo è passato leggermente. Le finestre del primo piano erano tutte aperte: i tre enormi portoni, i cui androni traversano tutta la mole dell’edificio, e da cui si scorge la lontana cascata spumante di acque, erano spalancati, inghiottendo continuamente gente. Lungo la via sventolavano i pennoni della provincia, la Campania Felice, col corno dell’abbondanza, da cui si riversano tutte le ricchezze della terra: sventolavano le bandiere nazionali.

La gente andava, andava, come se il suo maggior pensiero fosse l’agricoltura. Ma, in verità, era una scampagnata di settembre quella inaugurazione, un pretesto per scappar via in vagone, in carrozza, in drags, per godersi il fresco dei grandi saloni reali. Poi vi sarebbe stato il presidente del Consiglio dei ministri, venuto per attestare il suo affetto di settentrionale a una provincia meridionale. Molti non lo conoscevano e piaceva loro di vederlo, in pompa magna, coll’uniforme di ministro. Qualcuno che aveva gusti più sentimentali, sapendolo oratore eloquente, veniva per sentire il discorso. Le signore venivano per la stessa ignota, misteriosa ragione per cui vanno dappertutto, specialmente dove si annoiano.

Sul portone di mezzo, il guardaportone maggiore, in uniforme di casa reale, col pennacchio sul cappello di carabiniere, e una mazza altissima col pomo d’oro, non salutava la folla. La gente che entrava passando dalla luce fulgida, dal calore secco, nella penombra bigia e nella frescura umidiccia dell’androne, era presa da un senso di benessere. I volti si facevano composti, e le voci si abbassavano, rispettose, quasi comprese dalla maestà di quel palazzo reale. La gente rallentava il passo, ammirando la costruzione solidissima, l’arco elegante della vôlta, la fortezza dei quadruplici pilastri, la euritmia dei quattro cortili angolari che partivano dal centro.

— Pare una costruzione romana — sentenziò il sindaco di Arpino, un grassone, panciuto sotto la fascia, con gli occhiali d’oro, dietro cui si ammiccava continuamente, rivolto al sindaco di Aversa, piccolo, rattrappito e segaligno, un notaio malizioso come una volpe.

Ai piedi del grande scalone scoppiavano contestazioni e proteste, ma a voce sommessa; i camerieri erano cortesi, ma inflessibili. Senza marsina non si saliva al salone d’inaugurazione. Molti erano venuti in soprabito, non sapendo. Un espositore alto, grosso, biondo, rosso nel volto come un mattone cotto, con un brillante scintillante al dito mignolo, era venuto in giacca, addirittura.

— Io ho esposto un toro, due vacche, due montoni, dodici galline: voglio entrare — ripeteva. — Del resto ho mia moglie qui: debbo accompagnarla.

— Senza marsina non si entra — replicavano i camerieri.

— Io posso stare sola, Mimi — mormorò la moglie, una grossa provinciale, in lutto, ma con uno strascico immenso, un cappello piumato, e brillanti splendidi alle orecchie.

— Sali tu, Rosalia. Io me ne vado a guardare le galline. Mi troverai nel parco quando le chiacchiere in marsina saranno finite.

Così i soprabiti si sperdevano nel parco, pei cortili, mentre tutte le signore e tutti gli uomini in marsina salivano lentamente la scalea maestosa, ampia, a scalini alti due dita, tutta di marmi lattiginosi, con venature color di legno. Le signore sospiravano di soddisfazione, lasciando frusciare gli strascichi sul marmo, deliziandosi di quella ascensione molle, di quell’assurgere nella magnificenza regale, pel piacere del silenzio, ove il fruscio della seta si spandeva voluttuosamente. I maschi in marsina si affollavano, beati, trionfanti, celando i sorrisi di estasi dietro la placca schiacciata dei gibus. Pareva che quel vecchio palazzo che aveva visto gli splendori di Carlo III, le follìe di Maria Carolina, le feste militari di Murat, le feste popolari di Ferdinando I, rinascesse per un’ora al lusso degli abiti serici, al profumo delle carni giovani e belle, al folgorìo delle gemme fredde, alla pompa di una corte ricchissima e stravagante. Quella festa tutta popolare, più che popolare, contadinesca, quella festa della terra, delle frutta, dei cereali, degli animali, tutta umile, tutta prosaica, tutta bestiale, pareva una festa raffinata, aristocratica, la nascita di un principe ereditario, una cerimonia ufficiale del capodanno.

— È una vittoria per la democrazia insediarsi nella reggia dei tiranni a celebrare la festa rurale — disse l’avvocato Galante, di Cassino, occhio losco, pancia prominente, fronte calva, l’unico socialista della provincia, al cancelliere, monarchico, che se ne scandalizzò.

L’inaugurazione si faceva al primo piano, nel salone dei Farnese, ampio, con quattro finestre sulla facciata. Tra due finestre era il banco ministeriale sopra una piattaforma, coperto da un tappeto di velluto verde orlato d’un gallone d’oro, col campanello, il calamaio, tre bicchieri, la boccia dell’acqua, la zuccariera, apparato minaccioso. Intorno, cinque seggioloni in velluto rosso. Sul piano della sala, facendo gradazione col banco ministeriale, il banco della presidenza, col tappeto grigio e i seggioloni di vecchio cuoio. Poi a destra, a sinistra, dirimpetto, le file delle sedie per gli invitati. Tre file di poltrone per le signore: poi seggiole di paglia per gli uomini.

Quando Lucia Altimare-Sanna e Caterina Lieti comparvero sotto la porta, scortate da un solo cavaliere, Alberto Sanna, che veniva loro dietro con la sua faccia stanca, annoiata, Andrea Lieti si staccò precipitosamente dal banco presidenziale, attraversò la folla, e offrì il suo braccio a Lucia.

— Vienimi dietro, Alberto, con Caterina. Vi troverò un buon posto.

Mentre Andrea e Lucia passavano, un mormorio si levava nella folla. In verità lei era molto seducente e provocante nel suo abito lunghissimo di raso bianco, carico di merletti antichi, che la vestiva col busto come un guanto lucido, come una corazza di acciaio, lampeggiante alla luce — e colla gonna come una nuvola, senza contorni precisi, quasi i merletti dovessero involarsi al vento. Sui capelli bruni, intrecciati mollemente e arricciati sulla fronte, invece del cappello, per bizzarria, una sciarpa di merletto veneziano bianco, fine e prezioso, aggruppato all’egiziana, che scendeva fino alle sopracciglia, si avvolgeva al collo ed era sostenuto sotto l’orecchio da tre rose bianche, fresche, rugiadose, col seno roseo. Gioielli, no.

Una leggiera tinta di sangue coloriva le guance più piene; le labbra fatte più carnose, più umide, erano di carminio. Sorrideva al suo cavaliere, alto, forte, bello di vigoria, che si chinava su lei come per proteggerla.

— Chi è? — La moglie di Lieti? — No: una parente della moglie. — È bella. — È magra, ma piacente. — Troppo lusso. — Che! è una festa ufficiale. — È bella. — È bella. — È bella.

La coppia che veniva dietro, passava tra questo mormorìo, inavvertita, raccogliendolo. Caterina aveva un abito lillà, semplice. Sul piccolo cappellino chiuso svolazzava una piuma lillà che finiva in bianco. Agli orecchi portava i suoi enormi brillanti, che metteva per amore di Andrea. Ma ella era piccina, modesta, quasi appannata, quasi nascondentesi; ma il suo cavaliere era piccolo, meschino, senza croce di cavaliere, senza coccarda all’occhiello di membro dell’Esposizione. Lei e lui sentivano il bella, bella, bella, palpitante e sommesso sulle labbra della gente.

— Trovano bella Lucia — disse sottovoce Alberto, tutto ringalluzzito.

— Ma è bellissima come sempre — rispose Caterina, nella tranquilla e ostinata ammirazione per l’amica.

— Oh non come sempre. Prima del matrimonio era molto meno piacente. Adesso è un’altra.

— La felicità...

— Lucia è un angiolo — dichiarò gravemente Alberto. — Io non me la meritavo.

Erano giunti al posto, in prima fila, dirimpetto al banco. Vi erano due poltrone, sedettero le signore, gli uomini rimasero in piedi, Andrea accanto a Lucia, Alberto accanto a Caterina. Lucia aveva lasciato il suo strascico per terra, come un mucchio lieve di trina e di stoffa: si vedeva il piedino calzato della scarpetta di pelle bianca, ricamata in argento. Si faceva vento, poichè aveva caldo. Andrea si abbassava ogni tanto per dirle qualche cosa: ella, sollevando gli occhi gli parlava piano, con le labbra stirate che si rialzavano all’angolo, scoprendo i denti. Alberto si annoiava di già, non avendo una sedia, prevedendo che la stazione sarebbe lunga. Caterina era un po’ preoccupata: l’avevano messa nel giurì pei lavori donneschi, alla mostra didattica. Questo titolo di dama giurata le pareva molto serio e molto compromettente: chi sa che cosa pretenderebbero da lei! E se non fosse stata capace?

— Chi è quell’uomo immenso, con le lunghe basette nere, un po’ calvo, che entra ora? Come è alto! Chi è, signor Andrea?

— È il deputato di Santamaria.

— Dio mio, è più grande di voi. Non lo credevo possibile. È il paese di Gulliver questo. Parlerà?

— Non credo — Quanto mi dispiace che voi non parliate, Lieti. Se fossi stata vostra moglie, vi avrei obbligato a parlare.

Caterina trasalì.

— Non ho pensato a dirglielo — mormorò distratta, pensando alla riunione del giurì delle signore.

— Alberto mio, hai forse troppo caldo? Come ti senti? Vuoi il ventaglio?

— No, non ho caldo: solo vorrei sedermi. Grazie, cara.

— Lieti, cercate una sedia per Alberto. Si stanca così presto: non potrei più rimanere seduta io.

Andrea guardò, cercò, rovistò, tanto fece che trovò un posto ad Alberto, nella fila di dietro, fra due vecchie, alle spalle di Caterina. Alberto si accoccolò fra le gonne, tutto felice.

— Stai bene ora?

— Benissimo, cara.

— Vuoi una pastiglia?

— No, più tardi. Non pensare a me; guarda, parla, divertiti, Lucia.

— Questo mio povero Alberto — disse Lucia, facendosi udire solo da Andrea — è per me un cruccio continuo. Darei il mio sangue per arricchire il suo.

— Voi siete buona — disse Andrea.

Intanto la gente entrava, entrava a fiotti, dappertutto, sino nei vani delle finestre, sino sugli scalini della piattaforma. In un angolo, un gruppo di giovinotti, chiacchierava forte, uno di essi scriveva note sopra un taccuino, un altro sbadigliava, l’altro faceva segni telegrafici col segretario del Comitato: una donna era con loro, giovane, vestita di lutto, semplicemente, pallida e malaticcia sotto la falda nera del cappello.

— Quelli sono i giornalisti — indicò Andrea a Lucia. — Vi sono i corrispondenti dell’Opinione, del Diritto, della Libertà, del Popolo Romano, del Fanfulla, per Roma; del Pungolo e del Piccolo, per Napoli.

— Anche quella lì è una giornalista?

— Credo: non ne so il nome.

— Io la invidio, se è intelligente. Ha almeno un’ambizione.

— Bah! preferite sempre essere una donna.

— La gloria è bella.

— Ma l’amore è buono — ribattè lui, serio.

— ... l’amore?

Caterina non sentiva. Pensava alla casa dove le pareva di aver lasciato aperto lo scrigno dei gioielli: con quegli abiti moderni era impossibile portarsi dietro le chiavi. Quantunque fosse sicura dei servi di Centurano, pure si lasciava vincere da una lieve inquietudine.

— Per caso, Lucia, ti ricordi se ho chiuso lo scrigno? — domandò.

— No, cara; non me ne ricordo. Non sarà nulla, anche se l’hai lasciato aperto.

— Ve ne ricordate voi, signor Sanna?

— Sì, lo avete chiuso e avete messo la chiave sotto l’orologio.

— Grazie, grazie: mi sollevate da un dubbio.

— Signora Lucia, Caterina, vado a salutare il ministro — disse Andrea.

— Vi perdiamo?

— Sarò qui, rimpetto a voi; Caterina, non sbadigliare, sai. Pensa che sei la moglie di un vice-presidente di Comitato.

Ella sorrise vagamente, salutandolo. Lucia si alzò in piedi, a guardare la sala, assiepata: una triplice siepe di signore, poi una folla di abiti neri, su cui gli abiti chiari mettevano grandi macchie allegre: una folla ondeggiante, sotto le dorature del salone reale.

— O è bello, Caterina — diceva Lucia, già inebbriata dalla folla.

Poi, dallo scalone venne un soffocato romore di applausi. Tutta la sala si agitò, voltandosi verso la porta donde il presidente del Consiglio entrava, appoggiato al braccio del suo amico, l’onorevole di Caserta. La gamba ferita in battaglia lo faceva zoppicare: andava un po’ curvo. Aveva una robusta testa, dai capelli brizzolati, ma folti, duri e ben piantati sulla fronte quadrata: una robusta testa di cane fedele, dagli occhi fieri e onesti, dalle nari aperte, dalle mascelle solide. I mustacchi grigi coprivano una bocca bonaria, quasi infantile, a cui il pizzo napoleonico dava un carattere di uomo serio e meditativo. Salutava, molto contento, in fondo, di quegli applausi, assaporando con delizia una delle poche gioie della vita ufficiale. Salì al banco, sedette nel mezzo, dopo aver risposto al nuovo applauso con un saluto.

— È un valoroso: ha combattuto tutte le battaglie, è di una famiglia d’eroi — spiegò Lucia a Caterina.

Poi ci fu il coro di tosse, di raschiamenti, di raucedini dissipate che precede ogni discorso. A destra del ministro sedeva il deputato di Sora, un vecchio bianco e arzillo, dalla collana di barba bianca sotto il mento, dallo sguardo un po’ fuggente: un finanziere. A sinistra, freddo e contegnoso, più aristocratico che mai, il deputato di Capua. Due seggioloni vuoti. Il deputato di Caserta si mescolò alla folla: il Comitato prese posto. Il presidente del Consiglio parlava in mezzo a un silenzio profondo.

In verità, il collare dell’uniforme saliva troppo sulla nuca, dandogli un’aria di goffaggine. Egli parlava curvandosi un poco, fissando un punto vago della sala, distraendosi talvolta e perdendo la parola, talvolta facendo delle pause lunghe che parevano effetti oratorii, ma dovevano essere assenze di pensiero. Egli puntava una mano sul tavolino e con la destra faceva un gesto indefinito, come se segnasse un circolo in aria, una ruota, come se avviasse una sfera di orologio.

— Egli dà la corda all’eloquenza — susurrò Lucia vivamente commossa.

Egli diceva delle cose molto poetiche, qua e là sdrucciolando nella rettorica, nella frase fatta che romoreggia così bene, nella testa della folla che ascolta. Sì, era lieto di aver lasciato per un istante le gravi cure del governo e le asprezze della politica per accorrere a questa festa del lavoro, dell’umile lavoro, di quel lavoro che nobilita la mano callosa del contadino.

Non ci fu effetto: la sala era piena di proprietari in marsina, che non intendevano queste sentimentalità.

...Poichè — soggiunse — questa festa avrà anche un carattere storico. I romani, o signori, questi grandi nostri antichi che avevano la poesia nella parola, chiamavano questa provincia Campania Felice...

Qui la sala, intenerita, presa da una commozione tutta musicale, scoppiò in un grande applauso. I giornalisti scrivevano, tutti, nel taccuino, chi appoggiato al muro, chi sulle ginocchia, con un contegno di persone importanti.

... Noi l’abbiamo chiamata Terra di Lavoro, nome anche altamente poetico, che indica i più oscuri, ma più nobili sforzi, la richiesta quotidiana che l’uomo fa alla terra sua madre, a quella terra... quella terra... a quella Alma Demeter, cui i terrigeni inneggiavano. Salutiamola anche noi, questa madre benigna, inesauribile fonte di benessere sociale, seno benedetto che alimenta tutti noi senza mai sfinirsi, senza mai stancarsi.

Qui, stancato, bevve. Un movimento di soddisfazione percorse la sala che era contenta del suo ministro. Egli ricominciò, crollando le spalle, come se riprendesse, rassegnato, la soma. L’ambiente era ancora freddo: bisognava riscaldarlo. Allora la sonorità della parola si allargò nell’aria, la frase dagli orizzonti scialbi, ma larghi, fluttuò come una visione sul pubblico, un po’ stordito. Egli parlò confusamente dell’industria, delle nuove macchine che l’Inghilterra ci manda, del contadino, dell’avvenire vastissimo che ha l’agricoltura, di Bentham, di suffragio universale, d’istruzione primaria, del corno dell’abbondanza, del decentramento. Sdrucciolò un momento nel regionalismo, ma si rattenne: a quel punto s’impacciò, restò a pensare con la mano in aria, alla metà del circolo. Si riprese un po’ lentamente, parlando della patria e delle battaglie per l’indipendenza: la sala applaudì freneticamente.

... Questa splendida mostra dove, alla spica di granone che il misero contadino ha tirato su, si unisce l’animale domestico che la vecchierella ha allevato, il fiore che la gran dama ha coltivato, il compito che il bimbo dell’operaio ha scritto in iscuola, è una manifestazione felice di tutte le energie, di tutte le forze... sì di tutte le forze...

Ed esaltato dal romore delle proprie parole, quasi ubbriacato agitando la mano in circolo, come se la sfera dell’orologio dovesse correre a precipizio, buttò per terra il campanello, rovesciò un bicchiere vuoto.

Per cancellare questa impressione, parlò del Governo.

... Il Governo, o signori, e specialmente il ministro d’agricoltura, assente per lieve infermità, vi dice per mia bocca che questa festa, prova di prosperità feconda, e di attività utile, è festa nazionale. La ricchezza dei singoli Comuni nella ricchezza dello Stato: ecco il desiderio del Governo. Esso farà quello che può, nei limiti dei suoi mezzi e nella circoscrizione della sua possibilità, per venire in aiuto a questa valorosa e laboriosa contrada, dove Garibaldi ha combattuto...

— Viva Garibaldi! — gridò la sala.

... e dove i proprietari di terreni lavorano in compagnia dei coloni pel comune benessere. Il Governo è pieno di buone intenzioni che diverranno fatti, nella ragione del tempo. Ma quello che mi sembra più bello, più commovente, è questa festa domestica nel palazzo degli scacciati Borboni, è questo trionfo di popolo dove il popolo ha servito...

Beneeee!

... Solo in un regno costituzionale come il nostro, solo sotto la Casa di Savoia, fedele alle istituzioni, stirpe di soldati e di cavalieri, questo miracolo poteva accadere. Io v’invito a gridare: Viva il Re! Viva la Regina!

Ricadde stanco, l’occhio smorto sotto la palpebra floscia, il labbro inferiore un po’ pendente. Si asciugava il sudore della fronte, macchinalmente. Mentre la folla gridava e applaudiva, i deputati si accostarono al banco e gli strinsero la mano, felicitandolo. Egli ringraziava, premuroso, dando strette di mano ministeriali, cercando di rassodare la sua maggioranza che tentennava. Nel momento di confusione, Andrea era di nuovo accorso presso le signore.

— Vi è piaciuto, eh? Che bella voce!

— Egli ha detto delle cose stupende, che questa folla stupida non ha intese — disse con disprezzo Lucia.

E agitò il suo ventaglio, poichè nel gruppo dei giornalisti si parlava di lei: forse l’avrebbero nominata nelle corrispondenze.

— Ti secchi, Caterina? — domandò Andrea.

— No: è come alla Camera dei deputati — rispose lei, quietamente rassegnata.

In quanto ad Alberto, egli sbadigliava, spalancando ferocemente la sua larga bocca, dalle labbra pallide.

— Hai fame, Alberto? — domandò Andrea, per animare la conversazione.

— Che fame! Così avessi fame.

Ma tutti si rimisero a sedere, poichè il deputato di Capua, ritto in piedi, avanzatosi sulla piattaforma, in modo che si vedesse tutta la persona, aspettava che si facesse silenzio per leggere. Il presidente del Consiglio s’era seduto di faccia a lui, come per udir meglio, con quella posa d’intensa e falsa attenzione che è una delle prime qualità dell’uomo politico. Il deputato, elegante nell’alta persona, guardava la folla coi suoi occhi chiari. Portava al collo la commenda dei Ss. Maurizio e Lazzaro e all’occhiello molte decorazioni straniere. Si vedeva l’ex militare dal torace sviluppato, dalla testa eretta, dalla faccia quasi indifferente, come se non udisse, non vedesse. Certo, era più corretto, più fine nella linea, più artista nel gesto che il ministro dei ministri. Aveva qualche cosa di britannico nella compostezza grave, nella sobrietà dell’espressione. Leggeva lentamente, spiccando le parole, con la voce più che stridula, acidola come il succo di limone: voce aristocratica. E, singolare a dirsi, il suo discorso, già preparato, combattè le fioriture rettoriche del ministro che aveva improvvisato il proprio.

Egli rimise a posto tutta la poesia del corno dell’abbondanza e del sudore della fronte. Disse che la mostra era già qualche cosa, ma che non era tutto: disse che il movimento economico e finanziario non si era ancora comunicato alla massa dei coloni; che poco slancio avrebbe potuto avere sino a che sussisteva una fiscalità così dura; che qualche tentativo di coltura inglese e di fattoria-modello era andato a male. Disse che non bisognava chiedere alla terra più di quanto essa potesse dare, e che significava estenuarla, domandandole sempre: soggiunse che la questione agraria era più seria di quanto paresse, ma che nelle provincie meridionali era aiutata da tanto splendore di cielo e da tanta dolcezza di clima. Fu l’unica concessione poetica che fece, egli che era poeta prima di tutto; ma in lui la coscienza tranquilla del ricco ed esperto proprietario parlava alto. Il ministro ascoltava approvando col capo, come se tutte quelle idee fossero le sue, come se non fossero la contraddizione più aperta e più ferma di quello che egli aveva detto.

Il deputato aggiunse, dopo una pausa sapiente e con un piccolo sorriso — il primo — che non voleva parere pessimista in un giorno di festa e che questo inizio della vera vita agricola, era già qualche cosa di serio. La provincia ringraziava il governo del re nel suo primo ministro, ringraziava per le belle promesse sperando sicuramente nella loro attuazione, quando chi le faceva era un eroe, un patriota, un valoroso. Il ministro, tenero alla lode, arrossì come un bambino pel piacere. E finì, calmo, quieto, senza che la voce gli fosse alterata mai, senza che avesse bevuto una goccia d’acqua. L’applauso fu nutrito, lungo, ma non entusiastico. Il discorso era freddo, non aveva sonorità che rombassero nell’uditorio; e l’uditorio sentiva che il discorso era vero. Il ministro abbracciò quasi il suo caro deputato, che gli aveva votato contro nel l’ultima votazione. Egli accettava questa dimostrazione tranquillamente, con quel viso da sfinge aristocratica dove nulla si leggeva. Di profilo, il torace si sviluppava più militarmente che mai, e una spalla aveva un lieve moto di sollevamento, unica traccia di nervosità.

Il pubblico era tutto in piedi aspettando per salutare al passaggio il ministro: egli se ne andò fra gli applausi delle prime file, appoggiato al braccio del prefetto, trascinando la gamba ferita a Palermo, una delle sue glorie private che lo aiutavano a governare. Tutti i sindaci, tutti i funzionari, tutti i giornalisti dietro, confusamente, con una grand’aria d’importanza. Per le scale un altro tentativo di applausi, ma debole e rado.

— Il deputato di Capua è stato bello, ma freddo, Caterina — diceva Lucia, già in piedi, guardando la gente che passava.

— Ti pare? — disse a caso Caterina, che non aveva nessuna opinione in proposito.

— Oh! freddo — ribattè Alberto che adottava sempre il parere di sua moglie. — Ce ne andiamo?

— Io ho da andare all’Esposizione didattica: vi è la prima riunione — disse timidamente, preoccupata, Caterina.

— Allora io e Alberto ce ne andremo per l’Esposizione, sino a che tu e tuo marito sarete liberati da questa schiavitù tremenda.

— Sai, Lucia, io sono stanco e non giro per l’Esposizione — mormorò Alberto.

— Allora andremo nel parco.

— Peggio, ci è il sole — insistette lui, facendo il muso.

Lucia sorrideva, come rassegnata, Caterina era molto imbarazzata: sino a che non finisse la seduta, sino a che non se ne andasse il ministro, ella e Andrea non erano liberi.

— Dunque, Alberto mio, che vorresti fare?

— Prendere una limonata al ghiaccio e andarmene a casa. Dormirò sino all’ora del pranzo.

— Bene, vengo con te — e represse un sospiro.

— O povero core mio, che sacrificio continuo — le disse in un orecchio Caterina baciandola.


Più tardi Alberto era passato, solo, per l’Esposizione didattica, e, chiamata Caterina in disparte, le aveva detto:

— Quando avrete finito, signora Lieti, Lucia vi aspetta nel parco, presso il lago. È lì, sola sola, che pensa, quella cara anima. Aveva bisogno d’aria, l’ho accompagnata, l’ho lasciata. Non sono un egoista io, e me ne vado a dormire. Ci andrete presto?

— Subito che potrò.

Alberto se ne andò, sulle sue gambe deboli, per le quali i calzoni erano sempre troppo larghi, rialzando il bavero della sua marsina, perchè sudava: trovò Andrea nella sala della canapa, in un gruppo di espositori che seguivano il ministro.

— Quando hai finito, va nel parco, dove è la tua signora, con la mia, ad aspettarti, nel boschetto, intorno al lago. Ma va presto. Io vado a dormire. Vi è una buvette, qui?

— Sì, al pianterreno.

— Bevo un bicchiere di Marsala. Venite a casa, poi, per l’ora del pranzo.

— Va bene: dormi tranquillo.

Lo vide allontanarsi e commiserò quella esistenza povera di forze e di salute, inutile a sè, inutile agli altri. Ma dunque questo ministro non la finiva più? Si fermava dunque dappertutto? Come se ne capisse qualche cosa, della robbia, dei ceci infornati e delle zucche gialle! I bozzoli, adesso? Andrea cominciava a stancarsi: tanto il ministro che parlava col prefetto e col deputato di Nola, viso scialbo e capelli di un biondo equivoco, non gli avrebbe detto nulla. Andrea avrebbe voluto andarsene, preso da una impazienza, seccato di quel giro ufficiale, di quella corsa stupida, attraverso le sale. Infine, sentiva molto caldo e certo nel parco doveva fare fresco. Ma restava, roso da un desiderio ambizioso, pensando che il ministro finirebbe per dirgli qualche cosa. — Alla sala dei granoni, se non mi avrà chiamato lo pianto — pensava. Ma passarono la sala dei granoni e anche quella delle biade. Andrea si sentiva salire la collera al cervello, attraversando la sala degli olii che il sole riempiva di riflessi gialli. — Alla sala dei vini lo lascio — pensava irritatissimo, già rosso in viso. Ma nella sala dei vini innanzi a una piramide di bottiglie, il ministro lo chiamò: — Signor Lieti?

— Eccellenza?

— È un forte lavoratore, lei: ecco anche del vino. Bisognerebbe curare, anche per patriottismo, i tipi dei vini italiani. Beviamo troppo Bordeaux e troppo Champagne: la Francia ci ubbriaca.

— Eccellenza...

— Lei merita le congratulazioni del governo come cittadino facoltoso, che spende la sua attività per questo incremento... mi congratulo io stesso, personalmente...

Andrea s’inchinò, confuso, orgoglioso. Aveva avuta la sua parte: il ministro complimentava il deputato di Cassino, anche pei vini. Poi la esposizione era tutta percorsa, si scendeva nel parco, in quella degli animali.

— Mi ha parlato ora, non mi dirà nulla per le mie galline; io me ne scappo.

E tutto allegro, col sangue che ripigliava la sua libera circolazione, sventolandosi col gibus, coi guanti ficcati nel risvolto della sottoveste, prese una scala di servizio che abbreviava la distanza.

— Non mi dirà nulla... nulla... nulla per le galline — canticchiava, attraversando il cortile.

Nel parco camminò rapidamente; ma fu una delusione non trovare nessuno intorno al lago della Castelluccia.

— Dove si saranno cacciate? — mormorava, un po’ smontato.

Girò pel boschetto a larga fascia ovale, folto di cerri, che è intorno al laghetto: in un angolo, sotto un sottile raggio di sole, sotto la cupola del suo ombrellino di raso bianco foderato di seta rossa, stava Lucia, seduta sopra un divano di legno rustico. Era sola: gli voltava le spalle. Andrea pensò di tornare indietro, ma Caterina non doveva essere lontana. Pure si avanzò, imbarazzato, turbato, da quella figura bianca sul fondo rude, incoronata di luce bionda, coi riflessi micacei sulle guance. Lucia non intese il passo, sebbene scricchiolasse qualche foglia secca: gettò un grido nel vederlo.

— Oh come siete paurosa! — disse lui, con una falsa disinvoltura.

Ella gli dette una mano tremante; Andrea rimase ritto, innanzi a lei, impacciato della propria persona.

— Non vi sedete?

— No: non sono stanco.

— Il giro è stato lungo?

— Avete aspettato molto?

— Credo: almeno mi è parso lungo il tempo — e sorrise melanconicamente. — Vedete com’è bello qui, Lieti?

— Oh bellissimo! Come devo essere ridicolo io, in marsina, in questa campagna verde!

— No. Anche questa campagna ha qualche cosa di troppo elegante, d’incipriato. I rami degli alberi paiono tagliati con le forbici. Oh chi mi darà la natura, la vera natura, grande e onnipossente?

— Quando la vostra voce si abbassa in un desiderio, è incantevole — disse Andrea, guardandola, ammirandola.

— Non desiderate anche voi la vera campagna?

— Eh! alle volte non è poetica. Talvolta è arida, talvolta puzza di concime. Ma io so dov’è il vostro ideale; il bosco profondo, le viottole, i laghetti perduti nelle forre...

— O Dio, voi sapete dov’è tutto questo, Andrea! — e congiunse le mani sul petto, col desiderio che le faceva tremare la voce.

— Qui, nel giardino inglese.

— Lontano, lontano, lontano?

— No, vicino: tre quarti d’ora di cammino.

Si fissarono, dicendosi qualche cosa, come se si consultassero. Ella si guardò intorno, chinò la testa, rassegnata, e sospirò. Anche Andrea aveva voglia di sospirare, sentendosi il petto oppresso. Buttò per terra il gibus, passandosi la mano nei capelli ricciuti, come soleva. Lei sporse il piedino, con la fibbia gemmata della scarpetta, brillante al sole.

— Siete troppo bella, oggi. Ciò è insopportabile — disse Andrea, scoppiando in una risata stridente.

— Per far piacere ad Alberto... io non amo vestirmi con lusso: non mi pare che dia soddisfazione. Sapete che sono poco accessibile alla vanità.

— Lo so, ma trovo che Alberto è uno sciocco...

— Non dite questo, signor Andrea. Povero Alberto! è semplicemente infelice.

— Non mi avete inteso. Perchè vi fa vestire così? Tutti vi guardano. Non è geloso?

— No, non mi pare.

— Se io fossi vostro marito, sarei bestialmente geloso — scoppiò a dire.

Lucia si sgomentò, si trasse indietro. Un minuto secondo. Sorrise a suo modo, mettendovi quella espressione di voluttuoso dolore che era così pericolosa.

— Vi fo sempre paura — mormorò Andrea, agitato, con tono lamentoso.

— No: capisco che siete fatto così.

— È il temperamento. Alle volte il sangue mi soffoca. Mi vengono idee pazze. Udite, lasciatemi dir tutto. Se fossi vostro marito, sarei geloso, geloso sino alla follìa. Sento che vi bastonerei, vi soffocherei...

Lucia socchiuse gli occhi, come inebbriata.

— E sentite, sentite ancora — continuò lui, affannando — voglio dirvi quello che non ho mai osato dirvi in questo tempo... chiedervi scusa... per quella sera... fui brutale con voi. Mi avete per donato?

E la pregava, commosso da quel ricordo, fremendo ancora al pensiero di quella scena violenta.

— ... sì — rispose lei; un sì debole, venuto dopo una esitanza.

— Mi perdonate proprio?

— Vi perdono. Non me ne parlate.

— Ancora una parola. Diceste nulla...

— A chi dunque?

— ... ad Alberto.

— No, nulla.

— Grazie.

Egli si rialzò, sollevato, come soddisfatto. Vi era un segreto fra loro: potevano parlarne senza che niuno lo intendesse, o pensarvi, sapendo che l’altro ci pensava. Lucia si volse, trasalì impercettibilmente, poi gli domandò:

— E voi?

— Che cosa?

— Ne avete parlato?

— A chi?

— A Caterina, alla vostra Ninì.

— No... no... — ed era smarrito.

— Potevate dirglielo — rispose lei, lentamente — voi che l’amate tanto.

— Se ne sarebbe doluta... e...

— Per chi, doluta? Per voi forse?

— No, per voi. Essa vi ama.

— È vero. Caterina è una eccellente creatura, signor Andrea: ha qualità nascoste, ma bellissime. Amatela sempre, perchè se lo merita: amatela, con tutte le vostre forze. Prima del mio matrimonio io temevo che la mia Caterina, che la mia dolce amica fosse infelice. Essa vi ama sopra tutte le cose, fatela felice...

Caterina arrivava, un po’ affannosa, sorridendo loro.

— Mi avete troppo aspettato? Sei qui da molto tempo, Andrea?

— No, da poco.

— Ti ha parlato il ministro?

— Sì, mi ha fatto un bel complimento.

— Pel granone del Torone?

— No, per il vino acinato.

— E per le galline, eh?

— Nulla: non sono andato. Tu, che hai fatto, Ninì?

— Molti discorsi: conchiuso, nulla. Il guaio è che ci si dovrà tornare ogni mattina.

— Per quanti giorni?

— Non so: otto o dieci.

— Una seccatura, Ninì. Ma tu sei buona e paziente.

— Questo dicevamo — osservò Lucia: — che sei un angelo e che meriti di essere adorata.

— Che sei un angelo e che meriti di essere adorata — ripetette Andrea, macchinalmente.

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