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II.

Presiedeva la principessa Caracciolo, la grande benefattrice dei poveri, dei vecchi, dei bambini, innanzi a Dio. Era lì, dominando il salotto di Maria Carolina, dove si riunivano le signore giurate, avendo sempre nella testa quel miscuglio di alterezza regale e di bontà amabile, sul volto quel pallore mistico che aveva scolorite le guance e sbiadite le labbra, nella persona quella grazia seducente della donna che ha amato e che ha voluto piacere all’amore. Aveva lasciato i suoi poveri e i suoi bambini, per altri bambini. Quelle trenta signore l’avevano eletta presidente per acclamazione. Un solo uomo vi era fra trenta donne, il segretario, un professore di pedagogia tutto impastato di Froebel e di Pick, un essere miope, calvo, ambiguo, perfettamente innocuo.

Sedevano in circolo le dame giurate. Erano riuniti i tipi più disparati, sui divani di broccato. Da Napoli erano venute tre maestre tedesche: una, lunga, magra, color di mattone, con una reticella verde sui capelli: l’altra, grassa, vecchia, rubizza, vestita di nero: la terza, un asse di legno con una testa di cera piantatavi sopra: tutte tre con gli occhiali legati in oro, con due sacchetti di pelle, tre taccuini e le guide. Parlottavano fra loro in tedesco, con vivacità: l’asse di legno diceva ja, rapidamente, a scatti. Poi, le direttrici degl’istituti di Caserta, di Capua, di Santamaria, di Maddaloni, tutte in fronzoli, molti gioielli di poco valore, abiti di faille nero, colletti freschi e guanti chiari. Un paio di mogli di professori, mal vestite, sgraziate, di quelle che fanno scuola, fanno i figli e la cucina, pallide e smunte, col seno dimagrato e il ventre gonfio. Poi, otto o dieci signore ricche, dei paesi attorno, nobiltà provinciale o borghesia provinciale, mogli di proprietari, mogli di consiglieri comunali, facce chiuse e annoiate, acconciature venute da Napoli, qualcuna goffamente portata, qualcuna elegantissima: signore venute lì per pompa, ma pentite profondamente di esserci capitate.

Le persone notevoli erano la moglie del colonnello, contessa Brambilla, giovane, fresca, dagli occhi vivacissimi, dai capelli tutti bianchi; la illustre poetessa Nina, svelta, piccola, linda linda, un granello di pepe; la moglie dell’onorevole di Santamaria, una letterata quieta, severa, dargli occhi lionati e pensosi, figlia di una poetessa soave ed eccellente madre di famiglia. Tutte quelle signore si guardavano fra loro, curiosamente, studiandosi di non parere, chiacchierando di calze a mano, di camicie impuntite e di rammendi su castoro. Le relatrici andavano e venivano dal banco della presidenza per comunicazioni speciali.

Caterina, fra le signore, si teneva in silenzio, leggendo o fingendo di leggere nel suo libriccino di note. Era un libriccino di bulgaro col nome Ninì, regalatole il giorno prima da suo marito. Andrea era diventato più teneramente affettuoso da qualche tempo, ed ella godeva di questa tenerezza a suo modo, con una soddisfazione raccolta e senza espansione. Quando erano soli, chiusi nella loro camera, Andrea se la prendeva nelle braccia, se la metteva sulle ginocchia, la faceva saltellare, la portava in giro come una bambola, baciucchiandola, mormorandole, Ninì, Ninì, Ninì, sempre Ninì. Qualche volta, in queste espansioni, egli era commosso, gli tremava la voce: certo non rideva più con quel suo riso clamoroso, che riempiva di letizia la casa. Forse era a cagione degli ospiti, che avevano in casa da quindici giorni. Andrea era stato sempre delicato come una donna, nel fondo del suo carattere: Caterina lo sapeva. Dinanzi a quei due così malaticci, Alberto sempre pauroso a ogni tossicchiamento, Lucia sempre in preda a una nevrosi ora latente, ora sviluppata, Andrea si comprimeva nei suoi impeti di buona salute. Per delicatezza non osava tante famigliarità coniugali con Caterina: Alberto non baciava mai in pubblico Lucia: Andrea aveva finito per non baciare più davanti a loro, quando usciva, Caterina. Era per questo, forse, che da solo a solo era preso da quegli entusiasmi d’amore, per ripagarsi del tempo passato a discorrere come quattro amici.

Caterina si annoiava, come le altre otto o dieci signore del suo ceto. Ella capiva pochissimo in quella mostra di lavori donneschi, calze di filo grosso o giallastro, lavorate con ferri arrugginiti, sporche: camicie tenute fra le mani sei mesi, cucite a punti lunghi e inesperti, a pieghe mal connesse, di mussola rozza, stirate grossolanamente, dove le mosche accorrevano: interminabili lavori all’uncinetto, flosci, rilasciati, a maglie lunghe: rammendi fatti coi capelli, miracoli di pazienza che fanno schifo. Erano le scuole rurali che mandavano quella roba, accatastata, accumulata, mal catalogata; scuole rurali dove le maestre si sforzano invano a far tirar l’ago dalle rozze dita delle meschine contadinelle che zappano la terra; scuole rurali dove le alunne non hanno nè l’ago, ne il filo, nè il mussolo, ne i ferri, nè nulla per poter imparare. Caterina, nel suo istintivo amore per la biancheria elegante, fresca e profumata, sentiva una specie di nausea fisica a ispezionare quella roba di un bianco equivoco. Poi, che ne sapeva lei? Nel collegio non facevano che lavori di lusso: ricamo di oro, di ciniglia, di argento, merletti a punto veneziano, merletto di applicazione. Che calze, che rammendature? Queste umili cose non venivano loro insegnate. Ella sentiva la propria ignoranza e benediceva la sorte, perchè non l’aveva fatta relatrice di un gruppo.

Mentre la seduta continuava, accademica, in discussioni quasi famigliari, con una piccola tinta di ufficialità; mentre qualche relatrice leggeva la propria relazione, proponendo premi a ogni costo; mentre la scrittrice dava un consiglio pratico, vale a dire di fare una sottoscrizione per fornire materiale di lavoro alle alunne povere; mentre il segretario leggeva le lettere di adesione di circoli e di comitati pedagogici — Caterina non udiva nulla di questo. Avrebbe voluto trovarsi altrove, in casa sua, dove tutto era abbandonato in mano ai servi. Giulietta era solerte, ma non bastava. Il cuoco, poi, faceva quello che voleva. Da che aveva in casa Lucia e Alberto, per la villeggiatura, Caterina si preoccupava più che mai della colazione e del pranzo. Quei due avevano lo stomaco troppo debole, avevano bisogno di brodi ristretti, di vivande leggiere; un regime affatto diverso da quello di Andrea, che era anche il suo. Lei e Andrea mangiavano maccheroni e bistecche sanguinanti e insalate refrigeranti. Anche la questione del pesce era seria, a Caserta, paese interno, dove veniva da Gaeta o da Napoli, non sempre fresco. Un giorno, anzi una sera, Caterina aveva mandato a Napoli il colono Peppino per avere delle sogliole: i suoi due ospiti si nutrivano spesso di questa specie di pesce delicato, innocuo. Ora, poi, con queste feste ufficiali, i banchetti, gli alberghi pieni, la roba spariva dal mercato in un momento. Monzù Giovanni, con cui ella teneva consulto ogni mattina, rispondeva a ogni proposta, crollando il capo dubbioso, scettico: — Se lo trovo! Se ci sta in piazza! Se non se l’han preso tutto!

A questo problema difficile pensava Caterina, mentre la principessa Caracciolo pregava le signore di procedere alla votazione, per la elezione di una relatrice generale che riunisse in una le relazioni dei sei gruppi. Caterina temeva sempre di non soddisfare i gusti di Lucia, povera creatura nervosa, il cui stomaco era rovinato. Le aveva fatto acconciare una bella camera, tutta fresca e chiara nel suo cretonne pompadour, una camera piena di ninnoli graziosi, come Lucia li amava. Ma credeva che in segreto Lucia rimpiangesse la mancanza del suo inginocchiatoio, che aveva portato via dalla sua casa di zitella, alla sua casa di maritata, in via Bisignano: un pomeriggio che Alberto e Andrea erano usciti a passeggiare, Caterina era entrata nella camera e aveva trovato Lucia inginocchiata davanti a una sedia, come nel collegio. Se, d’accordo con Alberto, si potesse mandare a Napoli, Peppino il colono, per trasportare a Caserta l’inginocchiatoio e fare a Lucia una bella sorpresa? Non doveva essere una cosa tanto difficile, e la sua amica ne avrebbe avuto tanto piacere. Ah... bisognava ricordarsi di scrivere a Napoli per avere del buon the, del the Souchong, poiché Lucia aveva dichiarato che dal settembre in poi, alla sera, non prendeva che il the: il caffè le eccitava troppo i nervi. La questione era se dirigersi da Caflisch o da Van Bol, per questo the; bisognava domandarne ad Andrea che era più pratico.

— Signora Lieti, vuol venire a votare? — interpellò dolcemente la principessa Caracciolo.

Caterina, senza troppo sapere quello che si facesse, scrisse un nome a caso sulla sua scheda, l’arrotolò, e andò a deporla nella coppa di cristallo. Se ne tornò al suo posto guardando il suo orologetto d’oro. Si faceva tardi: erano lì da tre ore, a perdere tempo.

Altrove, a casa, per esempio, lo avrebbe occupato utilmente. Era arrivata la lavandaia con un bucato immenso, e Caterina non lasciava passare la roba alla stiratora senza rivedere pezzo per pezzo dove mancassero i bottoni, dove si fosse staccato un nastro, dove si fosse sfilata una guaina. La biancheria era nuova, ma ella sospettava che la lavandaia adoperasse la potassa, per certi bucherelli che aveva trovato nelle camicie di tela d’Olanda. Glielo aveva già detto, ma colei aveva giurato che di questi pasticci non ne faceva e che adoperava tutto ranno forte e sapone.

Nella riunione vi fu movimento. Il risultato della votazione era incerto: vi era stata una dispersione di voti strana. Ognuna di quelle signore pareva avesse dato il voto a se stessa o alla vicina di fianco, senza criterio, stupidamente. La principessa leggeva ogni nuovo bollettino con un sorriso indulgente: in fondo era una donna di spirito che si trovava bene dappertutto, ma notava finemente ogni cosa. Pregò le signore a rifare la votazione e mettersi d’accordo sopra un nome, per avere un esito serio. Allora dei gruppi si formarono; la moglie del colonnello andò attorno, parlando sottovoce con le signore giurate.

— Signora Lieti, le piacerebbe il nome della signora dell’onorevole? Sarebbe meglio avere una votazione unanime.

— Per me voterò pure per la signora che dite. Durerà ancora molto la seduta?

— Non me ne parlate, è un supplizio. Figuratevi che oggi io ricevo gli ufficiali superiori, e mio marito è in casa ad aspettarmi, e lo troverò in collera. Diciamo dunque quel nome?

— Sì, contessa: ma sarebbe bene che ci spicciassimo.

— A chi lo dite!


Andrea, Alberto e Lucia andavano su e giù per la mostra agraria. Alle dodici, dopo colazione, erano venuti tutti quattro a Caserta, in carrozza. Avevano lasciato Caterina nella sala del giurì didattico, promettendo di venire a prenderla subito. Quel giorno, aveva dichiarato Alberto, egli si sentiva benissimo, forte, e voleva veder tutto, tutto. Invece Lucia era di pessimo umore, ma aveva fatto un sorriso di gioia malinconica udendo di quel miglioramento. Andrea era allegro e portava il quotidiano abito estivo invece di quella odiosa marsina che di estate è una pena. Si sentiva libero, sciolto, contento. Parlava spesso con Alberto; Lucia, camminando in mezzo a questi due, ascoltava tacendo. Si fermavano a guardare le cose interessanti, lei più lungamente di loro, talvolta lasciandoli avanzare.

— Siete triste, oggi? — le aveva finalmente detto Andrea.

— No, no — rispose lei, scuotendo il capo.

— Vi sentite male?

— Non più del solito.

— E che è allora?

— Niente.

— Niente... è troppo poco.

— È questo niente che mi guasta la vita.

Si chinò sopra un cesto di patate grosse, bene sviluppate, come se la loro perfezione la incantasse.

— Non le dimandare nulla — disse sottovoce Alberto ad Andrea, camminando: — è a una delle sue cattive giornate.

— Che fai tu nelle sue cattive giornate?

— Niente. Non la interrogo, se vuol tacere; se parla, non la contraddico. È il meno che io possa fare per lei. Ti par poco il sacrifizio che m’ha fatto sposandomi?

— Ma che dici!

— No, no, ho ragione. È un angelo, Andrea, un angelo. Ed è una donna anche, te lo assicuro: se ti potessi dire...

— Qui non ci sono agrumi, n’è vero, Andrea?

— No, Alberto. Capirai che il terreno è poco favorevole. Anche la posizione è troppo interna. Gli agrumi crescono bene sulle coste marine. Tu ne possiedi molti, dalla parte di Sorrento?

— Oh! abbastanza; e sai, rendono il sei per cento, quando le altre coltivazioni non rendono che il due, pagata la fondiaria e la ricchezza mobile.

Lucia intervenne con la sua voce fiacca e il suo tono strascicato.

— Senti, Alberto, perchè non fabbrichiamo una villa a Sorrento?

— Eh! non sarebbe forse male. Qualche volta ci ho pensato anch’io. Ma una costruzione porta via tempo e denari...

— Non un palazzo, non un edificio grande e inutile. A che servirebbe? Ma un villino minuscolo, per noi due, un nido, con tre o quattro stanzine chiare e soleggiate, una serra; una cucina sotterranea per conservare la poesia della casa: non una stanza da pranzo, ma un pergolato di gelsomini e passiflore, una uccelliera dove cantassero i canarini e saltellassero i bengalì — e andarci soli in quella campagna profumata, dinanzi al mare divino — e rimanerci soli, appartati dal mondo, tu bene in salute, io dedicata esclusivamente a te...

Diceva questo ad Alberto, ma guardava Andrea che era un po’ confuso a far da terzo in questa espansione coniugale e fingeva studiare le cipolle, pure ascoltando ogni parola, lenta, precisa, seduttrice.

— Hai ragione... è una bella cosa, Lucia. Ci penseremo, quando saremo a Napoli. Oh! si dovrà fare questo nido. Ma dove le trovi queste idee strane, che io non trovo mai? Chi te le suggerisce?

— Il cuore, Alberto. Vogliamo sedere?

— Nient’affatto: non sono punto stanco. Mi sento gagliardo; farei quasi una passeggiata a cavallo. Tu, forse, sei stanca.

— Io non mi stanco mai — fu la risposta, grave, seria. — Mi domando talvolta, signor Andrea, come farebbe la gente senza pane?

— Eh! — fece lui.

— Se il grano mancasse! ... Ma chi lo ha inventato il pane?

La guardarono sorpresi. Alberto volle scherzare:

— Tu dovresti saperlo, Lucia. In collegio, dove avete imparato tante cose, vi avranno insegnata anche questa.

— No: io non so nulla. Io penso sempre, non ho imparato niente.

Aveva un aspetto molto giovanile, col suo semplice vestito di percallo a righe bianche e azzurre, stretto alla vita da una cintola di bulgaro, da cui pendeva la borsetta, col cappello di paglia intorno al quale si avvolgeva un velo di garza azzurra, dove ogni tanto il sole metteva dei punti luminosi. Il mento si nascondeva a metà nella ricchezza del fiocco di garza.

Si fermarono innanzi a un gran quadro, un capolavoro di pazienza, di cui la cornice era di fave secche attaccate l’una all’altra, con una greca di ceci bianchi a rilievo: il quadro era a fondo di grano, minuto, infilato granello per granello, e a lettere di lenticchie.

In rilievo vi si leggeva: — A Margherita di Savoia, regina d’Italia.

— Chi lo ha fatto? — chiese Lucia.

— Due signorine, figlie di un proprietario di San Leucio — rispose Andrea.

— Che età hanno?

— Credo, ventotto, trent’anni.

— Belle?

— Oh! no, ma buonissime.

— Si capisce. Vedete, in quel quadro io ci vedo un romanzo. Povere creature, che forse hanno passato le loro solitarie serate d’inverno, relegate in casa, distraendosi con questo antiartistico, provinciale, umile lavoro. E forse ambedue ci si sono affaticate, sospirando su qualche amore incompreso che l’avidità dei parenti impedisce. O forse ci hanno lavorato, pensando di essere vecchie zitelle, una gioventù sfiorita. Povero quadro! Lo comprerei...

— È fuori vendita. Lo manderanno alla regina forse.

Poco a poco i suoi due interlocutori si erano fatti malinconici anche loro, al contatto di quella malinconia affascinante. Andrea scuoteva le spalle per riprendere il suo buonumore, ma dopo si accasciava di nuovo, come vinto. Alberto si raddrizzava anche lui, tormentandosi i baffetti spelati, cominciando a sentire la stanchezza.

— Vi è ancora molto da vedere? — disse ad Andrea.

— Io non ho volontà. Conducetemi dove volete. Sapete che sono del giurì delle signore, per i fiori? Ieri ebbi la nomina.

— Ma questi giurì sono un’epidemia — esclamò Alberto. — Ci pigliano le mogli; la signora Caterina è diventata invisibile, ora mi sequestrano la mia. Io mi oppongo.

— Fa come vuoi, io farò quello che tu vuoi — disse Lucia, sorridendo. — Pure è bello essere del giurì dei fiori. Inebbriarsi di colori, di forme gentili, di profumi: vedere i fiori più bizzarri, più delicati, più ammalati, più misteriosi, e trovare il più bello, l’eccellente, il fiore tra i fiori.

— Tu allora potresti accettare, Lucia — suggerì Alberto.

— Benissimo, accetterò per amor tuo. Signor Andrea, che ne dite?

— Non sono giudice competente — disse Andrea seccamente.

Allora Lucia, come se fosse stanca, gli passò la mano sotto il braccio, per appoggiarsi. Egli trasalì, sorrise, affrettò il passo come se volesse portarla via. Entrarono nella sala della canape, in arbusto, appena macerata, poi pettinata, poi filata, poi in matasse: una esposizione completa.

— Guardate, guardate, questa massa di canape: sembra la capigliatura di una fanciulla svedese che da un terrazzo guarda il freddo Baltico e aspetta l’amante sconosciuto. E questa qui, più bionda, filata sottilmente, sembra la capigliatura di Amleto, principe di Danimarca. Oh! che senso hanno tutte queste cose per me?

— Ella vede delle cose che tutti gli altri non vedono — disse Alberto, come se parlasse tra sè.

— Sentite, signor Andrea: è vero che la vita della maceratrice di canape è trista, come quella delle contadine che coltivano le maledette risaie?

— Non proprio così, ma quasi, signora Lucia. La macerazione della canape si fa nel pieno estate, sotto il sollione, cattivo sole che fa esalare dalla terra tutti i miasmi. L’acqua dove la canape sta a macerare imputridisce e guasta l’aria.

— Ma sapete che quanto mi dite è odioso? Sapete che questa vita cittadina che si nutre delle vite campagnuole è antropofaga? Sapete che noi siamo degli omicidi ora per ora? O andiamo via, andiamo via da questa sala; questa esposizione mi fa l’effetto di un carnaio umano.

— Vi è dell’esagerazione — rispose lui, non osando contraddirla apertamente — poiché ora le malattie sono molto diminuite e i casi di mortalità diventati più rari. I proprietari forniscono chinino, gratis, alle donne ammalate. Poi, se si pensasse bene a tutte le cose umane, si vedrebbe che la vita ha bisogno di questi oscuri sacrifizi. Il progresso...

— Siete un essere antipatico e cattivo. Non vi posso soffrire. Andatevene.

Lasciò il suo braccio come se ne avesse orrore e si accostò al marito. Alberto rideva vedendo la faccia scombuiata di Andrea.

— O povero Andrea, non lo sapevi che Lucia è umanitaria?

— Non sapevo — disse egli, seriamente.

— Il mio cuore è pieno di amore per i diseredati della vita, per i miseri calpestati, per i paria di questa crudele società. Io li amo profondamente, arditamente. Il mio cuore è un focolare di amore per essi.

Infatti una fiamma le coloriva il viso, ella era eccitata, esaltata, la voce vibrante. Ma subito impallidì di nuovo, smarrì la voce.

Andrea soffriva. Sentiva il torto di Lucia, ma non osava mostrarglielo: sentiva il predominio ch’ella prendeva nella conversazione e la influenza che esercitava sulle persone che la circondavano, e se ne spaventava come di un pericolo. Poc’anzi, quando lei gli si era messa sotto il braccio, egli si era sentito fremere per ogni fibra, di un piacere delicato e pieno. Poi, quando se n’era staccata, egli si era sentito solo, abbandonato, come ammiserito, come privo di ogni forza, tastandosi il braccio quasi per ritrovarvi la impressione di quella mano. Ora Alberto rideva di lui, e ciò lo irritava assai. Questo piccolo Alberto, essere innocuo e stupido, era dunque capace di mordere, alle sue ore? Era dunque velenoso, quando ci si metteva, quell’animaletto tisico? Non valeva meglio schiacciargli la testa contro il muro? Andrea si trasse il cappello leggero, grigio, e si sventolò la faccia per far evaporare quei fumi di collera cieca che lo assalivano. Camminavano tutti tre in silenzio, come isolati in un pensiero, ognuno vivendo per conto proprio. Quel silenzio imbarazzante si prolungava. Alberto ebbe un’idea.

— Fa la pace con Andrea, Lucia.

— No, egli è un cattivo egoista.

— Via, fa la pace. Non vedi che è triste?

— Vi pentite di quello che avete detto poc’anzi signor Andrea?

— Mah!...

— Pentitevene presto e faremo la pace e ridiverrete il mio cavaliere dell’Esposizione. Vi pentite? Ecco il pegno della pace.

Dal mazzolino che portava alla cintura staccò un ramoscello di mughetti e glielo diede. Egli lo infilzò nell’occhiello, e prendendole la mano se la rimise sotto il braccio.

— E tu, Alberto, che sei stato mediatore della pace, vuoi anche tu i mughetti?

— Che me ne fo? Non ho occhiello a questo soprabito. Mi darai un’altra cosa: un bacio quando saremo a casa.

Alberto strinse tanto il braccio di lei sotto il suo, che ella represse un grido a fatica.

— Già... già... — balbettò, tremando ancora.

— Questa mostra di vini che valore ha? — disse Alberto, per far finta d’intendersene, lui che aveva beni in Puglia dove si fa lo Zagarese.

— Non molto — rispose Andrea, facendo uno sforzo per riaversi — poiché non tutti hanno mandato. Capisci, vi sono le esposizioni speciali, enologiche, che assorbono tutto. Ma vi è del buono.

— Questo è il tuo vino, per cui il ministro ti ha lodato?

— Sì: ve n’è dell’altro in un angolo.

— Questo vino ubriaca, signor Andrea? — domandò Lucia.

— Secondo: ne ho dell’altro, più forte.

— Inebbriante?

— Sì.

— Il vino è una cosa eccellente e benefica: esso inebbria e fa dimenticare — disse lei, lentamente.

— Dimenticare — mormorò Alberto — e la signora Caterina, che abbiamo dimenticata?

Gli altri due scambiarono un’occhiata rapidissima. Avevano, infatti, dimenticato Caterina, che li aspettava da un’ora nel salotto di Maria Carolina, donde tutte le giurate erano partite.


A tavola, fra l’arrosto e l’insalata, Lucia disse che era stata e stava di malumore per quel povero Galimberti. Non aveva più appetito, pensando alla sventura imminente.

— Quale sventura? — fece Caterina.

— M’ha scritto la sorella: egli ha dato segni di alienazione mentale.

— O poveretto!

— Poverissimo: vittima di una cieca fatalità, di un destino brutale. Si spera ancora di vederlo guarito, ma non ha mai avuto la testa solida. Sai, sono anche poveri e non lo confessano.

— Gli hai mandato denaro?

— Se ne offenderebbe: gli ho scritto.

Un gelo si propagò fra gli astanti. Quando andarono a letto, Andrea era tutto pensieroso.

— Che hai? — domandò Caterina, rifacendosi le trecce.

— Penso a quel disgraziato Galimberti. Mandiamogli, segretamente, qualche cosa.

— Mandiamo pure.

— Tanto più.... tanto più che a ognuno può capitare il suo caso — disse lui, tanto piano, a se stesso, che ella non udì.

E un terrore istantaneo gli si dilatò sul volto.

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