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III
Parte terza - II Parte terza - IV

III.

— Stamattina mi sento così bene che voglio andare a fare una passeggiata a cavallo.

— È un’imprudenza, Alberto — gli disse la moglie dal canapè dove stava distesa.

— No, no: mi farà bene. Io monterò Tetillo, un cavallino quieto che Andrea ha fatto sellare. Una passeggiata di due ore, sulla via di Napoli.

— Ci è il sole, Alberto mio.

— Il sole mi riscalda il sangue. Io mi risano, Lucia mia. Vedrai come ingrasserò. Tu che farai?

— Non ho voglia di nulla. Non uscirò forse. Sono seccata.

— Brutto giorno — mormorò Alberto andandosene, facendo risuonare gli stivalini lucidi e gli speroni d’argento.

Più tardi Caterina picchiò.

— Che vuoi fare? Vieni all’Esposizione?

— No: mi annoio.

— Ti annoierai di più, qui, sola sola. Alberto tornerà tardi, Andrea e io pure verremo tardi. Vieni.

— Non vengo: quest’Esposizione mi annoia. Non posso mai stare un momento con te.

— Che vuoi farci? Capisco anch’io, ma non è colpa mia.

— Anche oggi mi toccherà di andarmene sola, su e giù per quegli stanzoni.

— Potrebbe stare Andrea teco — disse timidamente Caterina che sapeva l’antipatia latente dei due.

— No: litigheremmo.

— Ancora? — fece l’altra sorpresa e dolente.

— È così: non possiamo andare d’accordo.

Caterina tacque.

— Ma non è oggi il giorno dei fiori? — disse poi.

— Oggi? mi pare di no... è vero, è oggi.

— Allora non puoi mancare.

— Mi darò per ammalata.

— È un cattivo pretesto.

— Bene, ho capito: ho da sacrificarmi e venire — e si rizzò nervosamente, borbottando tra i denti, cominciando a vestirsi rapidamente.

Caterina aspettava, tutta umiliata — quasi avesse lei la colpa di quella seccatura. Durante il tragitto da Centurano a Caserta, Lucia stette in silenzio, la faccia indurita dal dispetto, gli occhi socchiusi, l’ombrellino abbassato sulla testa, come se volesse non sentire nè vedere.

Caterina si congratulava di aver mandato innanzi Andrea, in quella ora di tetraggine insopportabile di Lucia. Arrivarono alla mezza dopo mezzogiorno al palazzo reale. Si salutarono, brevemente, dandosi appuntamento per le quattro. Caterina salì su, alla didattica, e Lucia prese pel giardino, alla floricoltura. S’incontrava un mondo di gente, in quei dintorni, giovanotti eleganti e signore elegantissime. Lucia camminava lentamente sul terreno battuto del viale a dritta, sotto gli ippocastani: chi la incontrava si voltava a guardarla. Portava un, abito di un verde cupissimo, in stoffa damascata a fiorellini dello stesso colore: abito corto, attillato, molto gonfiante dietro: si vedeva la scarpetta di pelle nera, alla paesana, e il principio della calza di seta verde cupo, traforata. Poi, sulla testa posato un leggero, aereo cappellino di velo rosa pallidissimo, una nuvoletta, un soffio, senza fiori, senza piume, arricciato come una spuma rosea. Era meno pallida del solito. Ora che Caterina se n’era andata, sorrideva a una fantasia. Il sorriso divenne più acuto quando, fiancheggiando le aiuole dell’Esposizione di floricoltura, per passare nella serra delle piante esotiche, incontrò Andrea.

— Caro Lieti, che andate facendo?

— Nulla — disse lui, confuso — cercavo un amico, un espositore di Maddaloni.

— E lo avete trovato? — ed ebbe un sorriso ironico.

— No, non v’è. Lo aspetto. E voi?

— Lo sapete bene: vengo al giurì per la floricoltura.

— Ma non si raduna che alle due.

— Proprio? O che smemorata! E che farò io sino alle due? Alla didattica non posso andare, all’agraria mi ci annoio.

— Restate con me — supplicò lui.

— Soli?

— ... qui.

— Senza far nulla? Tutti lo noteranno.

— Chi volete che guardi? che osservi?

— Tutti, amico mio.

— Guardano voi — disse lui amaramente, malgrado che quel titolo lo riempisse di dolcezza.

— E sia, ma bisogna pensarvi: questa provincia è molto maldicente: essa nasconde il suo vizio borghese e calunnia l’innocenza altrui.

— Sentite — mormorò Andrea, pigliandosela a braccetto: — perchè non venite meco nel giardino inglese?

— ... no.

— È bello: i grandi alberi lo coprono con le loro ombre: le viottole salgono, discendono, si smarriscono tra i cespugli di rose: sotto le ninfee bianche sta l’acqua cristallina: sotto le erbe l’acqua canta, allontanandosi. Non vi è alcuno e vi è fresco...

— ... no. Non mi parlate così — susurrò lei, abbandonandosi.

— Venite, Lucia, venite. Sarete più bella lì dentro. Sembrate una rosa oggi, come siete acconciata: vi siederete tra le rose.

— Non mi guardate così, per pietà, o muoio — e le stridevano i denti come pel gricciore della febbre.

Egli la sentiva mancare, la sentiva svenire. Passava gente: fu preso dalla paura del ridicolo.

— Non temete, non dirò più nulla. Rimettetevi per carità, Lucia, se avete un po’ di affetto per me: rimettetevi. Andremo all’esposizione degli animali, volete venire? Vi è molta gente. Sarete in salvo. Volete?

— Conducetemi dove vi piace — disse lei, fiocamente, mentre il petto le ansava e le nari fremevano come se perdessero l’aria.

Lungo la via non dissero più nulla. Incontrarono persone che salutarono Andrea, profondamente, vedendolo con una signora. Due giovanotti si parlarono sottovoce.

— Mi prendono per vostra moglie.

— Non dite questo, ve ne prego.

— Siete poco coraggioso, signor Lieti, la verità fa paura.

— Mi avevate chiamato amico...

— Volete che me ne penta?

— Oh non mi tormentate. Voi siete forte in dialettica, voi pensate cose bizzarre, profonde, e talvolta cattive, a cui io non arrivo. Sono in mano vostra; nella conversazione, m’invescate, mi prendete, mi fate soffrire. Ricordatevi che sono un ignorante fanciullo, un bambino, tutto muscoli e senza immaginazione. Risparmiatemi.

Si passò le dita nel goletto come se soffocasse: dicendo questo, gli erano passate le lagrime nella voce e negli occhi.

— Perdonatemi, vi risparmierò — disse lei, umiliandosi dolcemente nel suo trionfo.

Andavano per un gran viale d’ippocastani: il sole metteva in terra dei cerchielli di luce bionda. Un acuto odore di menta e di acetosella si arrestava nell’aria immobile. L’ora si faceva calda. Qualcuno passava, sventolandosi col cappello di paglia sulla faccia arrossita dal calore: le signore agitavano i ventagli, camminando piano, vinte, intorpidite dalla pesantezza dell’aria. Essi non si dicevano motto, guardando per terra come due che si secchino molto. Voltarono: trovarono la prima sezione. Era un prato lunghissimo, molto largo, un rettangolo, intorno a cui girava il viale. E circondato da uno stecconato forte, a mezza persona, e diviso in tanti compartimenti, per ogni animale. Vi era una piccola rastrelliera per ogni capo di bestia e un anello di ferro a cui era attaccata la corda; tutte queste bestie, tranquille, immote, avevano il capo rivolto verso chi guardava. Venivano prima le vacche, con la testa di animale stupido e buono, l’occhio mansueto, i fianchi magri da cui spuntavano le ossa.

— Povere bestie — disse lei sottovoce — come sono brutte.

— Brutte, ma utili. È un animale robusto, preferibile quando è magro, perchè dà miglior latte, che si ammala difficilmente e rende il cinquecento per cento del suo valore.

— Voi amate le bestie?

— Sì, molto: quelle forti, utili e buone. Noi uomini non riuniamo spesso queste qualità.

— Ma abbiamo l’intelligenza.

— E l’egoismo.

— Anche l’amore è un egoismo — affermò Lucia indispettita.

Proseguivano pian piano. Dallo stecconato i bovi li guardavano coi grandi occhi sereni, che par quasi abbiano un senso di riflessione. Qualcuno di essi, chinando la testa sotto il sole che batteva sulla dura cotenna, brucava un fascio di erba. Ogni tanto un colpo sordo di zampa impaziente batteva sull’erba rada e calpesta del prato. Le mosche si posavano su quelle cuti rudi, rugate, a sciami. Tratto tratto un bove si dava un colpo di lingua sul collo o una sferzata di coda nei fianchi per cacciarle via; ma le mosche ritornavano, insolenti, ronzando nell’afa che cresceva. Lucia aprì il suo ventaglino giapponese, tutto sabbia d’oro su fondo nero, e si sventolò rapidamente.

— Avete caldo?

— Moltissimo. Anche qui si soffoca.

— Sediamo, se volete?

— No, le bestie m’interessano. Poi, sento il sole mordermi le spalle: meglio camminare.

— Queste sono le bufale — spiegò Andrea. — Non dovete mai averne vedute. Sono animali di razza più nobile della vacca. Vedete: non vi pare che abbiano un’aria fiera? Scuotono la testa con le corna ricurve. Sono di un temperamento sanguigno, robustissimo: hanno un sangue nero e fumante. Avete mai bevuto il sangue caldo?

— No — rispose lei sbalordita, ma umettandosi le labbra pel desiderio — com’è?

— Una bevanda gagliarda che mette il vigore nelle vene. Una bevanda da militari, da cacciatori, da gente coraggiosa, abituata agli esercizi corporali. Una tazza di sangue vi allarga la vita.

Lucia si entusiasmava a poco a poco in quel rigoglio di forza che si espandeva da tutta la persona di Andrea, nell’ammirazione del vigore e della solida forma, dell’animalità plastica, sviluppata perfezionata, in tutta la sua enorme manifestazione. Ostinatamente una bufala cozzava con la testa contro la rastrelliera, presa da una collera solitaria. Lucia guardava, meravigliata di quella stalla grandiosa, all’aria aperta, di quella galleria di animali membruti e tarchiati.

— Sono colleriche queste bufale? — chiese poi timidamente.

— Moltissimo: il sangue va loro alla testa come agli uomini robusti. Sono prese da pazzie sanguigne. Odiano il rosso, che manda loro i vapori incendiarii al cervello. Nell’amore poi sono violente, furiose.

Ella arrossì. Pure egli parlava castamente, come di un fatto ideale, puro e semplice. Lucia trasse il fazzolettino profumato e lo portò alle labbra, turandosi il naso.

— Non è un odore cattivo questo di stallatico — mormorò Andrea, ingenuamente — anzi fa bene alla salute. I medici lo prescrivono ai tisici. Piuttosto questi vostri profumi depravano i sensi e ammorbano i nervi.

— La depravazione è cosa umana.

— Per questo preferisco le bestie, il cui istinto è sempre sano. Del resto abbiamo finito questo scompartimento. Ecco il più bello.

Era un toro, un toro nero, con una macchia bianca sulla fronte, fra le due corna splendide: era un toro maestoso, membruto, sdegnoso della rastrelliera, messo solo in un grande spazio, con la fune lunga: esso aggiravasi irrequieto nella sua galleria senza guardare la gente che lo ammirava, che mormorava sottovoce certi elogi paurosi.

— O com’è bello, com’è bello! — gridò Lucia.

— È bellissimo. È di Piccirilli, di Casapulla: lo premieranno. È l’amante, è il signore, è il tipo puro eccezionale: è la perfezione della razza. Un capolavoro, Lucia... che avete?

— Mi sento male, un po’: conducetemi laggiù dove ci è l’acqua. Sento il sole che mi morde le braccia, ora. Ho il fuoco nel cervello.

Si allontanarono sino alla fontanina, sotto un albero, dove vi era un bicchierino di legno. Lui bagnò il fazzoletto nell’acqua e glielo posò sulla fronte.

— Grazie, sto meglio. Mi sentivo morire. Torniamo, o piuttosto proseguiamo: qui siamo troppo soli.

Passarono dinanzi alle boxes dei cavalli, una lunga fila di casette di legno, chiuse, perchè non vi era esposizione quel giorno. Si udivano pure i nitriti frequenti delle bestie condannate all’inazione, in una semi-oscurità, sotto quei tetti di legno che s’infuocavano nel pomeriggio crescente. Si udiva lo scalpitìo delle bestie, irrequiete, impazienti.

— Sono puledri giovani e vivaci, abituati ai liberi galoppi nelle nostre pianure, nelle difese vastissime, dove sono allevati. Non sono assuefatti all’immobilità: qualcuno di essi sente, attraverso la divisione di legno, il nitrito della giumenta e le risponde nitrendo e sferzando con la coda le pareti della box.

Di nuovo ella impallidì.

— È il sole ancora? — chiese lui.

— Ho caldo, ho caldo.

Vampate di sangue le salivano alla faccia per poi lasciarvi il più ardente pallore, un pallore di febbre. Ella cercava di inumidirsi le labbra col fazzoletto bagnato, poiché le sentiva arsiccie, come se le avesse ferite il vento di tramontana. Il braccio posato sopra quello di Andrea si appesantiva.

— Entriamo in questo grande edificio, signor Andrea? Almeno il sole non mi morsicherà più. Sapete che cosa sento? Una quantità di punture, fitte, sottili, minute, sotto la pelle, come aghi che volessero uscirne. Al fresco finiranno, credo.

Entrarono nel caseggiato: una specie di vasto granaio terreno, col tetto spiovente, dove ogni specie di animali domestici si agitava nelle gabbie e nelle casupole. I conigli, gravi, bianchi, col musetto roseo, col loro comico tender d’orecchi, stavano accovacciati come un batuffolo di bambagia, in fondo alle conigliere. Bisognava chinarsi per vederli bene, ma subito essi si arretravano spaventati, non sapendo dove scappare, perdendo la testa. Le galline avevano tutto un lungo compartimento, una gran cassa a graticciata, divisa in tante casette. Stavano ferme, grasse, grosse, l’occhio tondo vivissimo, ogni tanto scomparente sotto la cartilagine giallastra e floscia, dando con la testa contro le pareti, pizzicottando svogliatamente il granone o la zuppa di crusca in un truogoletto, dandosi dei colpi di becco sotto l’ala, chiocciando spesso, come se quel grido fosse uno sbadiglio rauco di bestia molto annoiata. Sole le chiocce avevano un aspetto serio, tutte composte, tutte raccolte in sé, immobili.

— Vedete, Lucia, io credo che le chiocce pensino sempre ai pulcini che se ne sono andati pel mondo.

— Io non avevo mai visto una chioccia. Non vi sono tortorelle qui?

— No: ci sono i soli animali per l’uso agricolo. Le tortorelle sono animali di lusso. Voi le amate?

— Sì, ne avevo una e mi morì: allora ero piccina.

— Peccato, qui non ve ne sono.

Un gallo, svegliandosi dal suo torpore, vedendo che un raggio di sole penetrava da una finestra, lanciò nell’aria uno stridulo chicchiricchì; subito un secondo gli rispose, sopra un tôno più grave, poi un terzo entrò immediatamente — e le galline si misero a schiamazzare come da soprani sfogati, le gallinelle d’India facevano da contralti, le chiocce e i gallinacci gorgogliavano nelle gole grasse come bassi profondi. Una sinfonia discordante, crescente, saltellante, che faceva turare le orecchie ai visitatori pazienti e scappar via quelli nervosi. Lucia si era stretta al braccio di Andrea, la testa contro la spalla di lui, per non udire, sbalordita, ridendo nervosamente, tossendo, volendo parlare, ma non trovando fiato, mezzo assordata. Egli sorrideva nella sua flemmatica bontà per quella musica animalesca. Poi la sinfonia decrebbe man mano, alcune voci si estinsero bruscamente, altre s’indebolirono: poche rimasero, isolate, che tacquero subito come scorate.

— O Dio, Dio, Dio — balbettava Lucia, ridendo ancora come convulsa.

— Non avete mai udito ciò?

— Che! Credevo di non dovermi meravigliare mai più di nulla; invece voi mi avete condotta nel mondo delle sorprese, amico mio.

— Le bestie sono belle e piacevoli — disse lui gravemente.

Escirono dall’altra porta, di nuovo all’aperto. Era il compartimento dei lanuti; pochi, perchè la Terra di Lavoro non ha montagne abbastanza alte, nè prati abbastanza ricchi per alimentarli. Qualche capo di animale, per tipo di razza. Solitario, grasso, alto come un ciuco, con una lana folta e sporca, un merinos si aggirava nella sua casetta. E in fondo, in un angolo, un porco bigiognolo, con certe macchie rosee vive come se lo avessero scorticato, se ne stava, dimenticato, fuori classe, fuori gruppo, pari a un essere originale e mostruoso che disprezzi la società delle altre bestie sue pari.

— Andiamocene, andiamocene — disse Lucia, vinta dallo scatto dei nervi, trascinando il suo cavaliere. — Non voglio vedere più altro.

Aveva i crampi allo stomaco, ora: a momenti se lo sentiva attraversare da una puntura acutissima, poi come stretto in una morsa. Ora tutto il fuoco che il sole le aveva trasfuso nelle vene sembrava concentrato sulla nuca, mettendole i nervi in combustione. Andrea non sapeva nulla di questo malessere ignoto, egli che non si lasciava vincere dall’ambiente, egli che poteva vivere sotto il sole e camminare fra due file di bestie, senza provarne alcun turbamento. Egli era sano come la natura è sana. Passarono attraverso il caseggiato delle galline quasi correndo, mentre le chiocce facevano sentire il loro chioccìo in minore, quasi materno, quasi carezzevole. Uscirono nel giardino, rasentando le boxes dei cavalli, dove cominciava ad allungarsi una striscia di sole. Lucia camminava presto, abbassando il capo, sentendo ora fastidio sotto il cranio, sentendo il lievissimo cappello pesarle come una calotta di piombo, provando l’irresistibile bisogno di buttarlo via, di sciogliersi le treccie, lasciarle disciolte per le spalle, di passarsi fra le ciocche, sulla cute calda, le dita gelate.

— Ardo, ardo — diceva ad Andrea.

— Come farete per andare al giurì? — disse questi molto inquieto.

— Ci andrò. Oh questo sole! mi farà morire.

— Che si potrebbe fare per aiutarvi? bagnarvi di nuovo il fazzoletto nell’acqua?

— Sì, sì... oppure, no... andiamo in fretta.

Traversavano il viale. Il toro era lì, infastidito dal sole, puntato sulle zampe di dietro, scavando il terreno con una delle zampe davanti. Poi, tutta la sfilata nuovamente, con l’aria più opprimente, il sole glorioso, le mosche roteanti basso, le teste degli animali appesantite, sonnacchiose. Lucia si tappava la bocca e il naso sino a non respirare più. Arrivò nel salone fresco accanto alla serra, tutta rossa, gli occhi smorti, le labbra appassite, il naso assottigliato.

— Ho creduto di morire — disse poi ad Andrea che aspettava, smarrito, pentendosi di averla condotta seco.

— Andatevene, vengono le signore.


La duchessa di San Celso era venuta dalla sua villa per la giurìa dei fiori. Questa vecchia mondana era più imbellettata, più rugosa che mai, vestendo il corpo floscio, dalla grassezza morta, con un abito giovanile, e portando sui capelli tinti un cappellino bianco; ella andava e veniva, curva, col collo torto, mostrando il piede che aveva ancora snello. Vi erano tre o quattro signore dell’aristocrazia venute appositamente da Napoli: la Cantelmo, alta, forte, bianca, opulenta, vestita con sfarzo; la Fanny Aldemoresco, piccola, bruna, zingaresca, col naso adunco, la pelle gialliccia e gli occhi sfolgoranti, vestita di rosso cupo; la Della Marra, col suo viso biondo, scialbo, i capelli di una tinta pallida, lo sguardo grigio; poi una contessa capuana, magra, una testolina di vipera; poi la moglie del prefetto, donna grassa e insignificante, piena di riverenze e di saluti cerimoniosi; poi la vedova di un generale; poi Lucia Altimare-Sanna.

Queste signore avevano fatto dei giri intorno alle aiuole, dove si dovevano giudicare i fiori in terreno, studiando con l’occhialino di tartaruga appoggiato al naso, il mento sollevato, l’occhio severo, volgendosi a discorrere coi giovanotti, chiacchierando vivamente fra loro. Un praticello di verbene multicolori, sul fondo di un rosso vivissimo, era giudicato grazioso, di un effetto mignon, disse l’Aldemoresco. L’Altimare-Sanna, che la conosceva e con cui parlava, rispose che odiava le verbene. Invece lei propendeva molto per quelle rose muschiate, che formavano un cespuglio così profumato, rose grosse, polpute, scoppianti dai petali accartocciati. La duchessa di San Celso era anche dello stesso avviso, anzi prese una rosa e se la passò nella scollatura dell’abito, sulla pelle grinzosa del petto. Questo gruppo di signore, agitantesi, coi ventagli in moto, gli ombrellini che si aprivano e chiudevano, i merletti che svolazzavano, questo gruppo chiaro, donde uscivano risatine trillate e piccoli gridi di cingallegra in collera, si faceva a poco a poco una corte.

Vi era il più vecchio amante, il primo forse, della duchessa, anche lui tinti i capelli, il rossetto sui pomelli, il mustacchio di colore dubbio, incerato, le guance flosce e pendenti — e il giovane amante, bellissimo ma pallido, l’occhio nero e sfacciato, la bocca sensuale, nella sua eleganza di giovane povero, arricchito da una vecchia. Vi era Mimì d’Alemagna, venuto per la Cantelmo, e Ciccillo Filomarino, amante in pectore, venuto anche per lei — e altri e altri, per consenso, per diletto, per fare il chiasso. Il prefetto, in marsina, era sempre accanto alla duchessa. Questa gente, andava, veniva, ritornava, formando gruppetti, restando sempre unita, mandando un frastuono mondano e un odore di veloutine, sotto i tranquilli ippocastani.

Il giudizio pei fiori in aiuole non fu lungo. Le signore prendevano un’aria molto grave, quando le s’interrogava sulla votazione.

— Vedremo... penseremo... provvederemo — diceva la Aldemoresco, seria come un ministro che non vuol compromettersi.

Entrarono nella grande serra a cristalli in cui si esponevano i fiori nei vasi, tagliati o formati in mazzi, le piante esotiche, quelle delicate e freddolose. Il prefetto aveva fatto mettere delle tende azzurre per riparo contro il sole. Da quella parte un po’ di vento fresco soffiava come l’ora declinava. In mezzo vi era un getto d’acqua, sotto un palmizio, piantato nel terreno per l’occasione. Poi i sedili, le seggioline, gli sgabelli, smarriti tra i fiori che sorgevano da tutte le parti. Le signore, entrando lì dentro, traevano un sospiro di sollievo. Là, nel viale, si inghiottiva la polvere e il sole scottava; i fiori in aiuole valevano poco. Qui si entrava in un ambiente parco di luce e profumatissimo. Esse sorridevano con un piacere che si dilatava sulla faccia; Lucia fremeva, le nari aperte, palpitanti. Voltandosi, mentre voleva osservar meglio un grande arbusto di vainiglia, scorse Andrea sotto la porta; fece sembiante di non vederlo mentre egli discorreva con Enrico Cantelmo, e si chinò ad aspirare tutto il profumo della vainiglia. Egli la seguiva con l’occhio, alla sfuggita, come se nulla fosse, parlando di cavalli con Cantelmo. Poi ella ebbe un pensiero rapidissimo: girò su se stessa, e accostandosi a un gruppo di orchidee, fiori delicati, mostruosi e aristocratici, si trovò presso la porta. Andrea comprese, si staccò da Cantelmo, si avvicinò a lei e le porse la mano, come se la vedesse per la prima volta nella giornata. Parlarono, freddamente, come semplici conoscenze.

— State bene?

— Meglio: grazie. Perchè siete tornato?

— ... mi trovavo da queste parti. Poi, la sala è piena di gente; posso fermarmi anche io.

— Rimanete: voi dovete amare i fiori.

— No: mi sono indifferenti. Quest’aria è carica di profumi.

— Vi pare? Non me ne accorgo.

— Oh! sono fortissimi. Come possono resistere tante signore?

— Vi ricambio le vostre spiegazioni, signor Andrea. Io li adoro questi fiori e li capisco. — Vedete questi gelsomini: sono fiori spagnuoli, dal profumo già forte, fiori rassomiglianti a una stella. Si arrampicano anche, tenacemente, come un amore modesto ma costante.

— Che ne sapete voi dell’amore? — disse Andrea ironicamente.

— Quello che gli altri non sanno e che voi non sapete — ribattè lei. — Guardate, guardate quanto è bello questo grande fascio di rose bianche e di rose thea, che colori leggeri e delicati!

— È il fiore che portavate voi al ballo di Casacalenda, e l’altro giorno all’inaugurazione.

— Avete una buona memoria. V’annoiate di questo giro?

— No — rispose lui, con uno sforzo, come se il suo spirito tornasse di lontano.

— L’esposizione di Lamarra è la migliore, signora Sanna — disse la Cantelmo, fermandosi un po’ con lei. — Noi lo premieremo. Guardate, vi prego, quel tappeto di fiori.

Passò avanti. Andrea e Lucia andarono verso l’estremo lato della grande serra, dov’era il tappeto di fiori. Era un rettangolo allungato, per terra, tutto a viole del pensiero, nei loro colori lugubri, il violetto cupo e vellutato, il giallo striato di nero; alcune grandi, con i petali grassi e il seno aperto come una boccuccia, altre piccole, minute, come un’unghia. Niente di verde. Questo tappeto tetro era tagliato da una grande croce bianca, nettamente staccata, tutta di gardenie, le più candide.

— Pare un tappeto che debba coprire una tomba — disse lei. — Mi ricorda il quadro di Morelli: La figlia di Jorio, distesa per terra, col tappeto che taglia tutta la stanza e attraversa il quadro.

— Voi vi compiacete troppo di cose tristi — osservò lui, la voce infiacchita.

— Gli è che il mondo è triste. Questi Lamarra di Napoli sono gente ignorante, ma hanno arte e sentimento. Essi intendono che il fiore può indicare la gioia, ma che indica spesso il dolore. Le gardenie sono fiori nobili. Sono quasi gelsomini doppi, il gelsomino fatto più ricco, più bello. La gardenia pare che abbia un’anima; certo ha sempre un carattere. È piccina, meschina, rachitica, coi petali arroncigliati; è grandetta, ma minuta come una fanciulla di diciott’anni, con una bianchezza tenue; è grande, sviluppata, forte, coi petali densi, di un biancore ardente. E quando appassisce diventa gialla, quando muore pare sia arsa.

Ella gli diceva tutto questo ritta innanzi al tappeto mortuario, parlando sottovoce, quasi astratta, come se narrasse a se stessa la storia dei fiori. Era molto pallida, ma gli occhi erravano, dolcissimi. Dalle gardenie un acuto odore saliva: così acuto che ad Andrea pareva sentirne le punture nelle nari, punture salienti al cervello, battenti alle tempia, dove sembrava affluisse più carico, più pesante il sangue.

— Ecco un bel mazzo — disse lui, per distaccarsi da quel tappeto funebre di cui vedeva la croce, di un bianco vividissimo, staccare sul fondo bruno delle viole.

— Sì, sì, è bellino — disse Lucia, e l’osservò attentamente, avvicinandosi, allontanandosi per giudicare meglio dell’effetto — proprio carino. Ha qualche cosa di velato e di verginale, non vi pare? Sono i fiori più fini e più giovanili della flora esotica. Il cuore del bouquet fatto di reseda, piccola, dal profumo sottile, dal colore verdiccio. Poi una larga fascia di vainiglia che cinge la reseda col suo violetto sbiadito, il suo fiore intagliato con un merletto. E su tutto questo un velo, una nuvolina di brughiera che tempera dolcemente, che mette il mazzo in una lontananza nebulosa. La brughiera sembra un fiore nordico; non odora, non è fresco, ma la sua ombra è mite, è fedele. Ecco un gruppo di fiori puro e innocente.

Andrea, invece, si sentiva male anche innanzi ai profumi tenui della reseda e della vainiglia. Era preso da una oppressione profonda, come se il respiro gli fosse mancato; stille di sudore gli s’imperlavano sulle tempie e sulla nuca. Provava una stanchezza per tutta la persona, come l’indolorimento dell’indomani di un ballo, le gambe fiacche, intormentite alle ginocchia, le braccia cascanti, la bocca pastosa, e una pesantezza di palpebre.

— Che ne dite di Kruepper, signora Sanna? — domandò la San Celso, passando al braccio del suo giovane amante, a cui si appoggiava come una rovina cadente.

— Non ho ancora visto, duchessa.

— Guardate, guardate: questo tedesco ha del buono, ha della passione. Non è vero, Gargiulo?

— Voi parlate sempre bene e sempre artisticamente — rispose l’amante con una tenerezza nella voce, baciandole la mano nuda e scarna su cui si vedevano le vene gonfie della vecchiaia.

Passarono. La gente cresceva. Il mormorio delle voci si faceva sempre più alto, le signore diventavano più sorridenti, più scherzose in quella grande fioritura, si nascondevano dietro i gruppi a parlare con qualche giovanotto, ricomparivano arrossite nel volto, ridendo ancora, riparandosi dietro il ventaglio. L’ambiente si faceva sempre più carico, sempre più violento, con tutto quell’odore d’ylang-ylang, di opoponax, di fieno — e le carni femminili impregnate di fragranze — e i voluttuosi effluvii delle stoffe seriche — e i capelli dal profumo acre — e i merletti conservati tra i sacchetti d’ireos. Tutte quelle donne erano tanti fiori artificiali, acutamente provocanti, dalle bocche che parevano seni di fiori, dalle guance Che si colorivano come quei petali, dagli occhi cupi come il velluto delle viole, e dalle gole bianche e fragranti come le gardenie. Erano bei fiori falsi, dai colori metallici, dagli odori scientifici, combinati per la seduzione. Esse, in quell’atmosfera, si rialzavano come ringagliardite, quasi che quell’aria viziata convenisse ai loro polmoni guasti, risvegliasse il loro cervello ammalato, rinfrescasse il loro sangue ammorbato, desse una spinta ai loro nervi martoriati ed esauriti. La faccia di Lucia si marmorizzava di roseo, a chiazze; le palpebre, che avevano quella malinconica tinta plumbea, si sollevavano, lasciando veder re il lampeggio dello sguardo: un piacere intenso, acuto, le inchiodava il sorriso sulle labbra.

Andrea cominciava a vedere lo spettacolo come in un sogno. Era inutile: il cervello, aggravato, si addormentava. Egli faceva sforzi enormi, tutti interni, per scuotere quel torpore, ma si sentiva vincere, sopraffatto da una prostrazione che si diffondeva e gli spezzava le giunture. In quanto alle gambe gli pareva di averle di bambagia, senza forza, senza vita. Non sentiva che la testa come di piombo, che temeva gli cadesse sul petto, non reggendola più il collo. Si asciugava macchinalmente il sudore, seguendo Lucia con l’occhio vagante.

— Ecco Kruepper, di Napoli, — disse Lucia. — O guardate, guardate, Andrea.

Kruepper, di Napoli, esponeva tanti vasi in gradazione, dove si contorceva, piena di bozze, di gonfiature, bistorta, una vegetazione tropicale di cactus. Rassomigliavano a serpenti verdi, pieni di veleno sotto la pelle, pieni di pungiglioni, drizzantisi sulla coda come se fossero in amore, o spezzantisi come tagliati in una vertebra, o ravvolgentisi come presi dal sonno. Su quegli orribili gambi che mettevano spavento, si apriva,un fiore rosso come una coppa, dal tessuto trasparente, dal pistillo giallo; si apriva un fiore bianco, quasi simile a un giglio. Fiori superbi e gloriosi, coppe dove bruciava un incenso fortissimo, che dovevano vivere intensamente una vita splendida di ventiquattro ore. Lucia si chinò sopra uno di questi e Io aspirò lungamente, quasi volesse succhiarne tutta la essenza. Rialzandosi, alle sue labbra si era attaccato un pulviscolo giallo.

— Odorate, Andrea; è inebbriante.

— No, no: mi farebbe male — disse lui, fregandosi gli occhi per scacciarne una nebbia che li ottenebrava.

In verità egli sentiva il più grande bisogno di sedersi e addormentarsi, di sdraiarsi sopra un canapè, di buttarsi per terra, lungo disteso per dormire. La sonnolenza se lo prendeva tutto, mentre invano egli cercava, con una volontà indomita, di tenersi desto. Spalancava gli occhi, si stringeva una mano coll’altra, cercava di pensare a qualche cosa per non dormire. Ma avrebbe voluto, solo per cinque minuti, posare il capo non so dove per dormire. Cinque minuti sarebbero bastati: lo sentiva, crollava il capo. La gente che passava rassomigliava sempre più a fantasmi scivolanti sul terreno, senza rumore, tra una nebbia crescente. I fiori si ingrandivano, si ergevano, si assottigliavano tra la nebbia, prendendo un aspetto fantastico, dolori strani, profumi bizzarri. Oh il profumo Andrea lo intuiva più chiaramente di ogni altra sensazione nella testa che gli ardeva d’una fiamma infiltrantesi tra i meandri del cervello, penetrante nel fosforo. I nervi vibravano, vibravano, vibravano; poi succedeva l’esaurimento, e venivano la sonnolenza e quella catalessia invadente onde la volontà prigioniera tentava invano sferrarsi.

D’un tratto si voltò: Lucia era scomparsa. Ne provò un dolore così fiero che avrebbe voluto dare in un fortissimo grido, ma non trovò la voce per emetterlo. Poi molti di quei fantasmi femminili scomparvero, silenziosi, come se li avesse inghiottiti la terra. Avrebbe potuto dormire ora, quieto, per un cinque minuti? No, un’ombra gli si era accostata: Cantelmo che gli parlava dei fiori, di Kruepper ancora, e questo nome barbaro dal sonito di guerra, lo molestava. Che diceva dei giacinti?

I giacinti chinavano la testolina elegante in una larga giardiniera a graticcia dorata. Vi erano giacinti rosa, dall’odore acidulo di menta che portano insieme col loro; i giacinti lillà, dall’odore acuto e femminile; i giacinti bianchi dall’odore voluttuoso che pare corrotto. Questi tre profumi carnali si univano, si fondevano. Accanto ad essi, in una grande anfora di vetro veneziano, dieci magnolie, riunite in mazzo, esalavano l’odore più forte.

Nel letargo ond’era vinto, Andrea vide comparire sotto la porta Lucia. Nel suo abito verde cupo, col cappellino roseo, ella sembrava una grande rosa, una donna fatta fiore, un fiore fatto donna. Andrea sentì slanciarsi verso quel fiore tutto il suo essere — e avrebbe voluto, unico, supremo desiderio, abbracciare quel fiore, tenerlo sotto le labbra, aspirarne tutto il profumo, succhiarne tutta la vita.


Quella notte Lucia smaniò nella febbre gagliarda che dà ai temperamenti nervosi la rivelazione della vita animale, larga, clamorosa, soleggiata, nella sua sublime e sana impudicizia. Quella notte Andrea si sprofondò nella febbre torpente, esaurente, che dà ai temperamenti robusti l’eccitamento malaticcio dei nervi nella depravazione dei sensi.

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