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Parte terza - III Parte quarta

IV.

La fontanella di Michelangelo Viglia, che

     . . . sull’augusto Esempio
La do ad altrui da me,

scorreva tranquillamente nel suo bacino di pietra grigia. La seconda parte dell’iscrizione:

     Il Pellegrino, il Villico,
Il Cittadin l’avrà:
Venite, dissetatevi,
Fresca per voi qui sta,

non poteva servire d’incitamento a nessuno. Nella notte oscura solo la fontanella ripeteva il suo ritornello di canzone sempre fresca e giovanile. Centurano dormiva: le sue case bianche, gialle e grigie, avevano tutte le finestre sbarrate. Primo si era spento il lume dell’ingegnere Maranca, che si levava prestissimo al mattino, pei suoi lavori al duomo di Caserta; poi dell’avvocato Marini, che il giorno seguente aveva una discussione al tribunale di Santamaria: infine quello del giudice Scardamaglia, dove si faceva un po’ tardi per il giuoco del mediatore e perchè il giorno seguente non vi era per lui seduta in tribunale. Gli amici dell’onorevole di Santamaria se n’erano andati, salutandosi dalla via al terrazzo, avviandosi verso Caserta in due carrozzelle sonnacchiose, lume, cocchiere e cavallo. Ultimo si era smorzato il lume dei Lieti, la cui casa era sull’angolo, sopra la fontana. Il salotto era rimasto oscuro: due lumi erano comparsi nelle due stanze da letto, ambedue col balcone sulla via, divise da una stanza intermedia. Ombre piccole e grosse, magre e alte, pigmee e colossali, erano passate dietro i vetri, disegnandosi sulle tende. Poi, buio.

Notte nera, di quella densità profonda delle notti meridionali. Uno scintillìo di stelle, una polvere brillante, cosparsa a casaccio, dove più, dove meno, con un movimento di battito, un palpito di costellazioni. Sotto, tra i campi che erano neri, si allungava una striscia biancastra, la viottola che conduce alla via maestra, verso Caserta. I fanali spenti. D’un tratto il primo balcone a sinistra si schiuse pian piano, e dalla stretta apertura una forma bianca e sottile scivolò, rimanendo immobile sul balcone; ma non si distingueva niente. Stava ferma, appoggiata alla ringhiera. Guardava il cielo o guardava la terra? Nulla si distingueva, salvo che, ogni tanto, la veste bianca si muoveva verso il basso: forse un piede impaziente la spingeva. Alle spalle di quella forma, che pareva si allungasse sul fondo nero della notte, il balcone restava socchiuso. Durava quella immobilità, durava quella contemplazione. Suonavano i quarti d’ora all’italiana, all’orologio della parrocchia, e se ne propagava il suono nitido per l’aria silenziosa.

Poi il terzo balcone a destra si schiuse con un lieve stridore del paletto, e si spalancò quant’era largo. Una massa nera apparve, confusa nella notte, senza che nulla si potesse distinguere. Un punto luminoso, di bragia, si accese: la punta di un sigaro in combustione. A ogni respiro della persona che fumava, la punta accesa brillava di più e gettava una piccola luce sui mustacchi bruni del fumatore e una nuvolina di fumo chiaro saliva nell’aria. D’un tratto il punto di bragia filò come una stella, dal balcone sulla via, e si spense. Il sigaro era caduto, e la massa bruna passò all’angolo estremo del balcone per avvicinarsi a quello di sinistra. L’ombra bianca fluttuò come se tremasse tutta e passò anch’essa all’estrema punta, verso la destra, restando ritta, immobile. Poi un soffio traversò lo spazio che li divideva.

— Lucia.

Un soffio lievissimo rispose:

— Andrea.

Null’altro. Giù la fontanella cantava sempre, mai stanca, sempre fresca, sempre giovane. Su, la via lattea che si inchinava verso Caserta, palpitava tutta. Essi s’immergevano nella notte profonda, guardandosi attraverso quella tenebra, aguzzando la vista nel buio per vedersi. Nessun movimento, nessuna parola. Passava il tempo così, suonavano di nuovo i quarti d’ora alla parrocchia — ed essi restavano avvolti in quella oscurità, senza nozione dello spazio e del tempo, perduti in quell’annullamento della luce, perduti nell’idea fissa di potersi scorgere. Due o tre volte la figura bianca si chinò sulla ringhiera, quasi fosse presa da stanchezza; due o tre volte la massa semovente si abbassò sulla ringhiera, quasi misurasse l’altezza del terreno. Ma si rialzavano, riprendevano la prima posizione. Due o tre volte la forma candida e la massa bruna, spenzolandosi dal fianco del balcone, parve si tendessero le braccia, ma ricadevano, abbattute, allo stesso posto, come condannate a quella inazione, torturantisi in quel desiderio senza compimento, fatte parte di quel balcone immobile e spietato, diventate statue di travertino e di ferro. Durava quello strazio di una distanza minima che nella notte pareva immensa, durava quella tortura di non potersi vedere, di sapersi là e di non potersi scorgere. Finalmente un soffio lievissimo:

— Andrea.

E un soffio caldo, passionato:

— Lucia.

Per l’aria, lanciata da una mano malferma, una cosa bianca volò, da un balcone all’altro. Egli l’afferrò sull’orlo della ringhiera, mentre era lì lì per cadere. Nella rovina di un abituro una civetta stridette tre volte. Un fioco grido di spavento le rispose da sinistra e la figura bianca scomparve in un istante: il balcone si chiuse. Su quello di destra rimase la massa bruna, aspettando, spiando.

Quando Andrea rientrò in camera sua, trovò il lume acceso, Caterina ritta presso il letto donde era scivolata, in pianelle, abbottonandosi l’accappatoio.

— Che hai, Andrea?

— Niente, cioè ho caldo.

— Hai di nuovo la febbre, come la notte scorsa?

— No, no: prendevo il fresco sul balcone. Ricoricati, Caterina.

— Non stai male?

— Sto benissimo; non ho voglia di dormire.

— Che hai?

— Nulla, Ninì. Tu hai sognato.

— È il fresco che m’ha svegliato. Ho tastato e non ti ho trovato accanto a me.

— Hai avuto paura? Cerca di riaddormentarti.

Ella si spogliò, di nuovo, tranquillizzata.

— Domani ti devi svegliare presto, Andrea?

— Sì, presto.

— Alle sette?

— Sì.

— Buonanotte.

— Buonanotte.

Caterina, smorzato il lume, si fece il segno della croce e si riaddormentò immediatamente, come le succedeva sempre. Andrea aveva aspettato, fremendo, quel momento per stringere sul petto la sciarpa di merletto, tiepida ancora, del collo di Lucia. per baciarla, per morderla, per avvolgersela attorno alle mani, attorno al collo, per rinfrescarsene la fronte, e per tenerla sugli occhi, nella veglia prolungata.


Alla mattina Alberto, lamentandosi, sospirando, gemendo, allarmò tutta la casa. Levandosi di letto aveva tossito tre volte, poi aveva tossito di nuovo lavandosi la faccia. Si sentiva la gola aspra e stretta, il petto oppresso.

— Dove posso aver preso freddo? Dove posso averlo preso, io che uso tante precauzioni? Porto sempre il fazzoletto di seta al collo e la camicia di flanella. Qualche corrente d’aria sicuramente.

Si lamentava, innanzi allo specchio, vedendo che era pallido, cavando la lingua, cercando di guardarsi nella gola, respirando lungamente per sentire se vi fosse intoppo. Lucia lo confortava dolcemente.

— Ti pare che io sia ammalato? sono molto disfatto?

— Ma no, non ti creare fantasie. Hai il viso di ogni giorno. Molte volte io, stando benissimo, tossisco levandomi di letto.

— Anche lavandoti la faccia?

— Oh! quello sempre.

— Ah sì? Gli è che io sono malaticcio...

— Ma no, tu stai meglio assai da che sei qui.

— È vero, ma non vorrei ammalarmici. Senti, Lucia, io vorrei andare a Napoli oggi.

— A far che?

— A farmi fare una buona auscultazione da Cardarelli.

— Mi lasci sola?

— Per poco, cara. Sai, per rassicurarmi.

— Mi annoierò, Alberto mio. Quando ritorni?

— Quest’oggi, alle sei e mezzo, per l’ora del pranzo.

— Non mancherai, core mio?

— Ti pare? arrivo alla stazione, faccio colazione, vado un momento a casa, poi da Cardarelli, e riparto.

— Torna, Alberto mio. Io non mi moverò da questa stanza, starò a contare le ore, aspettandoti. Ascolta, non ti pare di aver preso questo raffreddore, a cavallo, ieri l’altro?

— È vero, è vero! Hai ragione, sono uno stupido; tu mi avevi detto di non andare. Non ti voglio mai dar retta, Lucia mia. Tu sei il mio buon angelo. Lo dirò a Cardarelli dell’imprudenza che ho fatta.

— Domandagli anche se dobbiamo restare ancora qui.

— Perchè? Io ci sto volentieri. E tu?

— Io sto bene dove stai tu.

A colazione Lucia venne cogli occhi rossi, non mangiò quasi nulla. Andrea taceva, Caterina taceva, essi scambiavano occhiate di compatimento; per quella povera donna. Lucia raccontò, tutta dolente, l’imprudenza commessa da Alberto a voler fare una passeggiata a cavallo, il freddo che aveva preso nella traspirazione, e la pena che le aveva fatto a sentirlo tossire così, duramente, quella mattina.

— Mi sono sentita squarciare il petto — conchiuse, e pianse di nuovo.

Nessuno mangiò più. Caterina le si mise accanto e cercò consolarla come meglio poteva, tenendole una mano fra le sue, memoria del collegio. Andrea le restava accosto, in piedi, non trovando nulla da dirle. Lei non si calmò che più tardi. Caterina doveva uscire per quell’eterno giurì; ma per fortuna ci erano solo due altri giorni di seduta. Non osò neppure dire a Lucia di uscire seco, tanto ella era abbattuta. Andrea doveva andare anche: lui a Caserta per affari. Marito e moglie la salutarono, Caterina la baciò sulle guance, Lucia singhiozzò e pianse di nuovo. Si trattennero ancora. Andrea s’impazientiva e Caterina temeva che Lucia se ne avvedesse. Si licenziarono.

— Tornate presto, amici miei, tornate presto — disse, languida languida.

Escirono. Ella li richiamò. Ricomparvero sotto la porta.

— In qualunque caso voi mi volete sempre bene, cari miei?

Li interrogava ambedue. Quelli si guardarono, Caterina sorridente e Andrea imbarazzato.

— Per me e per lui, sì, sì, si — disse Caterina.

— Anche per voi, Andrea?

— Sì — diss’egli, brevemente.

— Tu trovi certo Lucia un po’ folle — disse Caterina, in carrozza, a suo marito.

— Io?... no.

— È tanto infelice.

— Lo so.

— Tu sei preoccupato.

— Nel terreno delle Faete, tu sai dove, è andata a male la vigna.

— O come? raccontami...


Il custode del giardino inglese salutò quella pallida signora vestita di nero, le spalancò il cancello, e le domandò se avesse bisogno d’una guida. Ella rifiutò, dicendo di conoscere il posto. Infatti s’inoltrò tranquillamente nella vasta spianata donde si diramano sentieri larghi e viottoli, come se fosse abituata a passeggiarvi. Aveva chiuso l’ombrellino coperto di una trina nera, lasciando che il sole le riscaldasse le braccia e l’alto delle spalle, un po’ trasparenti sotto la grenadine nera della veste. Il cappello nero di trina era aggiustato come un velo spagnuolo, con certi spilloni martellati di jais nero. Ella, arrivata al punto dove doveva scegliere un sentiero, restò indecisa. Voltandosi indietro, vide il cancello chiuso e un pezzetto di parco; innanzi, la inclinazione seducente dei viali che s’abbassavano sotto il verde. Si avviò per uno, a caso, pianamente, rasentando una siepe di mirto, posando appena i tacchetti delle sue scarpette sul terreno fresco. Gli alberi formavano un arco di verdura che scendeva come quello di una grotta, formando, in fondo, un buco di luce, rotondo, lontano lontano. Ella se ne andava alla ventura, in quella penombra verde, lasciando che qualche foglia, caduta roteando da un albero, le si posasse sopra una spalla, fermandosi a guardare le lucertoline vivaci, dalla testa all’erta, dalla coduccia snella. Poi ripigliava la sua passeggiata col passo ritmico e uguale, la veste sfiorante la siepe, lo sguardo errante in quella solitudine piena di mormorii.

Alla fine del viale discendente si trovò in una piccola valle da cui salivano e scendevano sentierucci e viottole; nel mezzo un prato costellato di fiori; era una vallicciuola ombrosa, con le pendici cupe, tagliate dalle striscie gialle dei viali. Attorno gl’ippocastani, i cerri, gli eucaliptus, alti, sottili polverosi: solitudine completa. Ella discese ancora verso quel prato. A un tratto si fermò, a metà strada, spaventata, tremante, poiché Andrea le era sorto innanzi. Si guardarono negli occhi, senza parlare. Egli veniva di giù: ella gli doveva essere apparsa, scendente sulle nuvole, come una Madonna. Questo le balbettò. Tacquero, scesero insieme, daccanto, senza guardarsi. Lui le tolse l’ombrellino e tuffò le mani nei merletti. Discendevano a valle. Andrea malinconico, dolente di non averla al braccio, non osando chiederglielo.

— Come siete qui? — chiese lei bruscamente — Non saprei dirvi. Laggiù si moriva dal caldo e dalla noia.

— Non per altro?

— ... pensavo che ci verreste.

— E avete ragione: è il destino. Aveva un’aria tragica sotto il suo velo nero, con l’abito nero, con la roncoletta d’argento che pendeva da una catenina alla cintura. Gli occhi cerchiati d’azzurro violaceo avevano uno sguardo tetro e voluttuoso.

— Se venisse Caterina... — disse ella, stringendo i denti rabbiosamente.

— ... non verrà.

— Se venisse, sarebbe meglio. Mi ucciderei qui.

— O Lucia!

— Non mi chiamate per nome. Vi odio.

Il tôno era così collerico, il labbro così livido, che egli impallidì, si levò il cappello per passarsi una mano sulla fronte. Poi, improvvisamente, due lagrimoni gli sgorgarono dai buoni occhi addolorati, scesero per la faccia onesta e disperata, si disfecero sulle mani.

— O Andrea, per pietà di me, ve ne scongiuro, non piangete. Oh non mi rendete così infelice, così infelice!

— Che! non piango — disse lui, rimesso, sorridendo; — è stata una cattiva impressione, un passaggio brusco. Quando ero piccolo, mi succedeva, con mia madre. Volete venire al braccio mio? Vi condurrò dappertutto.

— Dove l’ombra è profonda, dove ci è il rumore delle acque cadenti, dove niuno pensa di venire — mormorò lei, intenerita.

Standogli al braccio, camminando in una viottola stretta, le cui siepi erano molto alte, ella colse degli anemoni di bosco, rosei, un fascio che mise alla cinta, nel nodo della cravatta, nel fiocco dell’ombrellino.

Quelle siepi fiorenti nell’ombra, dove il sole penetrava per riflesso, erano piene di anemoni selvatici, dalla campanula china, così delicata. Ella gliene dette, gliene mise nelle tasche del matinée, all’occhiello. Andrea rideva, silenziosamente, tutto rabbonito, tutto felice, sentendo quelle dita leggiere che strisciavano sul panno. Non si dicevano nulla: solo, per la via esigua, ella si stringeva a lui. Un uccellino, passando, le strisciò sulla fronte. Lucia gridò, si staccò da lui, corse innanzi.

— Venite, venite, Andrea. Che incanto!

Erano giunti a una piattaforma, una specie di terrazzino di verdura, che affacciava sopra un’altra valle. Di fianco, in alto, balzante, spumante, sgorgava dalla roccia il torrente, cadeva a valle; come una cateratta tutta bianca, tutta fioccosa, formava giù una corrente limpida, larga, poco profonda, che se ne andava tra due file di pioppi come se si avviasse, corrente senza nome, a un mare sconosciuto. Essi, sull’orlo del terrazzino, dominando quel paesaggio nordico, quel fiumicello nitido, quella verdura chiara, ricevevano in faccia la spruzzaglia minuta della spuma, penetrati da quel piacevole umidore, da quel venticello fresco che faceva l’acqua cadente.

— O com’è bello, com’è bello — diceva Lucia, tutta pensosa.

— Qui si sta meglio che nei vostri salotti, dove non si può respirare — disse lui, respirando a pieni polmoni.

— Qui è bello — mormorava Lucia.

Si appoggiava alla sua spalla, con la guancia. Egli sentiva quel piccolo contatto, rabbrividendo di piacere. Poi, ella, sotto il velo nero del cappello, aveva rialzato i capelli e la nuca era nuda, bianca. Poi il braccio era nudo sotto la grenadine di seta, e lui, stringendo un pochino, sentiva lo scricchiolìo della stoffa rude e trasparente che si sgranava.

— Cerchiamo di scender giù, alla corrente, a vedere dove se ne va — gli disse Lucia.

— Per di qua non si scende.

— Cerchiamo una via, una via ignota.

— Ci perderemo.

— Perdiamoci, poichè qui è il Paradiso — soggiunse lei.

Infatti si smarrirono per una viuzza che non finiva mai. Essi ridevano, allungando il passo. Trovarono un gran viale interminabile di alberi esotici: poi un quadrivio con un palmizio nel centro. Infilarono una strada a casaccio: lei era divenuta di nuovo tristemente languida, facendosi trascinare un poco.

— Voi siete stanca: sediamoci per terra, e non cerchiamo più la corrente.

— E moriremo qui?

— Forse qualcuno passerà.

— No, non dite che qualcuno passerà: ho paura, ho paura. Cerchiamo la corrente.

Infine la trovarono più piccola, più stretta, più lenta, quasi lasciandosi andare mollemente, sotto gli alberi. Essi erano sulla riva, in pendìo. Lucia si chinava sull’acqua, guardando il fondo grigio, dove qualche erba verde si agitava misteriosamente. Un riflesso glauco le batteva in viso. Strappava i suoi anemoni, li buttava in acqua, li vedeva andar via, travolti, li seguiva con l’occhio, poi ne buttava degli altri, interessata, preoccupata. Quando ebbe finito i suoi, riprese quelli di Andrea: egli si voleva opporre.

— No, no: tutto giù, tutto giù — disse Lucia duramente.

E li gettò via a fasci, chiudendo gli occhi. Quando rimase a mani vuote, fece un gesto come se volesse abbandonare anche la sua persona.

— Che fate? — disse lui, prendendole i polsi. — Sediamo qui: volete?

— No, qui. Troviamo un posto segreto, che nessuno conosca, un bel posto tutto coperto di piante, dove non giunga il sole, dove non si veda il cielo: io ho paura di tutte queste cose.

Si misero di nuovo alla ricerca, avidamente, inerpicandosi per le viottole, scendendo a precipizio, lui sorreggendola alla vita con un braccio, attraversando certi larghi prati dove l’erba molle bagnava le scarpette di Lucia, tenendosi per mano, quasi abbracciati, senza guardarsi, presi dalla follìa innocente della natura verde che ubbriaca. Trovarono un rivolo. Andrea sollevò sulle braccia Lucia e la posò sull’altra sponda; lasciandola, la strinse tanto che ella diede un grido.

— Vi ho fatto male? — dimandò lui, umiliato.

— No.

Si curvarono per discendere una viottola, dove i rami d’albero s’inchinavano, s’intrecciavano fitti come in una foresta vergine. Un leprotto passò al galoppo, destando la sorpresa di Lucia.

— Ah! se avessi un fucile! — gridò Andrea, mordendosi l’indice.

— Cattivo, cattivo! Come potete godere della morte d’innocente animale?

— Oh, è una voluttà grande. Voi non potete intendere l’ansia smaniosa di chi segue le tracce di una lepre. È un combattimento di astuzie, di furberie animalesche. Non sempre la vittoria resta all’uomo. Ma quando il suo colpo coglie in pieno e l’animale cade al suolo, palpitante, morente, col sangue caldo che sgorga a fiotti...

— È orribile, orribile!

— Perchè? — chiese l’altro, nella ingenuità del suo istinto.

— Siete senza cuore, siete un essere insensibile.

— Scherzate?

— Che! dico sul serio. Non mi narrate di queste cose sanguinose e crudeli. Voi comprendete solo l’odio, la vendetta, la strage. Voi non comprendete l’amore.

— Ma io non odio la lepre, nè l’amo. Io l’ammazzo, perchè mi fa piacere.

— Il piacere! la gran parola: voi tutto sagrificate a questo. È una brutalità.

— Io non posso discutere con voi — disse egli, mortificato: — mi vincete sempre, dicendomi cose dolorose.

— Vorrei che foste buono e sensibile — mormorò Lucia, vagamente. — Voi altri uomini avete lo scoppio potente e breve della passione; ma noi donne abbiamo la tenerezza lunga e costante.

— Per questo l’amore è una bellissima cosa — egli gridò trionfante.

Siccome un lungo spino attraversava la via, Andrea l’attirò a sé per non farla pungere, ripetendole nella guancia:

— L’amore... l’amore...

Ella si lasciava attirare, si lasciava soffiare nel volto come magnetizzata, ma a un tratto si staccò bruscamente, spaventata, stralunando gli occhi, vedendo una visione di terrore.

— Voglio andarmene, voglio andarmene — disse battendo i piedi nervosamente, ansando dalla paura.

— Andiamo pure — disse lui, chinando il capo, domato, incapace di avere altra volontà che quella di Lucia.

Cercò di orientarsi, arrivò sino allo svolto della via, si cacciò fra gli alberi. Poi ritornò a Lucia, già calmata dal pensiero di andarsene.

— Di là — le disse — vi è il laghetto, il posto di cui vi ho parlato, e vi è anche la strada per andar via. Si giunge per una scorciatoia.

Si avviarono, muti, lui scherzando con l’ombrellino come se volesse romperlo, comprimendo la sua collera. Per la discesa profonda che s’ingolfava come in un sotterraneo, si trovarono improvvisamente dinanzi al luogo che avevano cercato e che ora non cercavano più.

Era un laghetto piccolo e rotondo, dalle acque chiarissime, con una lieve intonazione glauca. Esso rimaneva sepolto, circondato dalle pendici del giardino inglese, piccole colline folte di alberi che lo nascondevano alla vista e alle ricerche: per vederlo bisognava arrivare sulla riva. La riva era circolare, piantata di acacie dal verde pallidissimo, di pioppi alti e magri, dal fogliame smorto. Dalla sponda, piegandosi sull’acqua, bagnandovi la sua capigliatura verde di ninfa desolata, un salice piangeva. Sul terreno un’erba corta e molle, a fili sottili, qua e là interrotta dai gruppi, folti e radenti il suolo, del trifoglio. Sulle acque, immobili, si aprivano largamente le piante acquatiche, dalle foglie rotonde e vellutate, dal verde cupissimo, senza fiori. A un punto, presso la sponda, una ninfea era salita dal fondo e aveva schiuso il suo bianco, largo e provocante fiore che fa staccare dal fondo i fiori maschi che lo amano e che muoiono di questo amore. Una penombra avvolgeva questo paesaggio, una luce bigia e dolcissima come passasse filtrata attraverso una tenda: un’assenza placida di sole, solamente il suo riflesso, attenuato e smorto. Nessun romore: la solitudine completa, la dimenticanza, l’angolo fresco e ignoto, che niuno sa, dove niuno viene. Appena appena una lontananza celeste, altissima, fra gli alberi.

Ella era rimasta stupefatta, sulla spiaggia.

— Come si chiama questo lago? — domandò ad Andrea, senza voltarsi.

— Il bagno di Venere.

— Perchè?

— Guardate là.

Dietro il salice piangente, dalle acque del laghetto, una statua di Venere sorgeva. Era tutta bianca, di marmo, di grandezza naturale, con la testa troppo piccola che hanno tutte le Veneri, belle di questa imperfezione. Aveva i capelli mezzo rialzati sulla nuca, mezzo cadenti sul collo. L’acqua le saliva sino alla cintura, nascondendone il basso del corpo; ma dentro l’acqua le erbe, le alighe crescenti avevano formato un piedestallo di verzura a quel busto bianco. La Venere si chinava a guardare l’acqua, l’occhio sereno, il collo pienotto, il seno immobile e gonfio di piacere, come se non si dolesse di quell’acqua, di quelle piante che salivano sul suo corpo, che la tenevano incatenata.

Era un’apparizione quella mezza statua femminile, quella forma bianca che di lontano, sul verde, sembrava il corpo nudo e palpitante di una donna che si bagnasse in quella penombra, sotto la custodia degli alberi, lontana dal mondo vivo, nel mondo dei fantasmi.

Quando Lucia si voltò verso Andrea, aveva la faccia mutata: un pensiero sulla fronte, negli occhi, sulle labbra. — E di là che cosa c’è, Andrea? — Venite a vedere.

Era qualche cosa che gli alberi celavano. Girarono intorno, vi andarono. Era una finta rovina di portico, otto o dieci colonne in due file, l’architettura greca, il tetto mezzo disfatto, con un buco fatto apposta dove l’erba cresceva folta. Le mura d’intonaco, come l’antico, si scrostavano, le edere mordevano realmente queste false rovine, dei sassi erano caduti. Sotto il portico una oscurità umida, un puzzo di muffa che dava un senso di freddo e di pena come in un sotterraneo.

— E questo che è, Andrea?

— La rovina di un portico.

— Vi doveva essere un tempio?

— Sì, quello di Venere.

— Venere che ogni notte discendeva dall’ara, per andare a bagnarsi nel lago — disse lei, fantasticando. — Una notte lunare, Diana, gelosa di lei, le ha fatto l’incanto e l’ha inchiodata nell’acqua. Venere non è più risalita nel tempio: il tempio, senza Dea, è caduto, è crollato. Vi è rimasto solo il portico, che crollerà anch’esso. Poiché eternamente, per l’incanto della luna, Venere è prigioniera tra le acque che le rodono i piedi e le alighe che le mordono i fianchi. Un giorno fatale il piedestallo rosicchiato rovinerà, e Venere, caduta, starà lungo distesa in fondo al lago, annegata, affogata.

Tacque.

— Parlate ancora, parlate — le susurrò Andrea, prendendole una mano — la vostra voce è una musica. Voi dite cose strane e armoniose.

Ella gli abbandonò la mano guantata, ma non disse altro. Guardava il foro del tetto, donde penetrava la luce. Andrea saliva con le dita lungo il polso, cercando nella manica dove finiva il guanto, dove cominciava il braccio nudo.

— Avete un lapis? — domandò lei.

Andrea staccò il portalapis d’oro dalla catena del suo orologio e glielo diede. Lei cercò il punto più oscuro del portico, e col lapis, sul muro, disegnò un cuore, con una linea sottile bruna. In mezzo vi scrisse:

A Venere, Dea


Lucia

Restituì il lapis ad Andrea. Egli si piegò a leggere e subito scrisse il suo nome, così:

A Venere, Dea


Lucia

Andrea

— Fatalità, fatalità — gridò ella, fuggendo dalle braccia di Andrea che se la prendevano.


Si era seduta sull’erba, coi piedini che quasi arrivavano nell’acqua, coi merletti bianchi delle sottane che spuntavano sotto la gonna dell’abito. L’ombrellino era buttato per terra, lontano. Ella, con le mani guantate di nero, prendeva delle zollette di terra con qualche filo di erba e le lanciava nel lago, seguendone il volo, guardando come si sfacevano nell’acqua, guardando i circoli concentrici che si allargavano come rughe diradantisi. Andrea era seduto accanto a lei, guardando quel collo bianco che si curvava, quel braccio che si inarcava, quelle dita che muovevano la terra. Egli aveva buttato altrove il cappello, lasciandosi cadere sulla fronte ardente l’umidore di quell’ambiente. Ella non si voltava, ma sembrava sentisse l’influenza di quegli occhi appassionati, perchè ogni tanto s’inclinava verso di lui, come se gli si abbandonasse. Egli non osava più muoversi, preso da una timidità affettuosa, da un intenerimento soave per quella donna fragile e seducente. Ella, stanca di gittare le zollette erbose nell’acqua, abbandonò una mano sull’erba. Andrea prese quella mano e pian piano cominciò a spuntare i bottoncini del guanto, sogguardandola, temendo d’irritarla. Nulla: Lucia socchiudeva gli occhi come se si addormentasse. Quando le ebbe tolto il guanto, egli sussultò come per un trionfo. Poi, distendendosi un poco, le prese l’altra mano e con la stessa dolcezza le tolse l’altro guanto. Li gittò sull’erba accanto al suo cappello, presso l’ombrellino. Ora le carezzava un braccio sotto la manica trasparente, una carezza lieve. Lucia si sottrasse a quella carezza, ma senza infastidirsi, senza sorridere: guardava l’acqua del lago, la Venere Anadiomene, attraverso la pioggia verde del salice. Poi lentamente, ella disfece il nodo di merletto del suo cappellino e rigettò le sciarpe indietro: si tolse gli spilloni di jais dalla capocchia rotonda nera, tutta martellata, e li puntò nel terreno, ficcandoli dentro in tutta la lunghezza, come in un cuscinetto da spille. Si tolse il cappellino e lo mandò a raggiungere i guanti e l’ombrellino. Poi si sollevò, si chinò sull’acque, ne prese nel cavo della mano e si bagnò la fronte, tutta ridente, le labbra infuocate e i capelli stillanti. Egli perdette la testa: si rizzò, grande, alto, robusto, l’abbracciò tenacemente alla vita, la fece scomparire nelle sue braccia, baciandola furiosamente sui capelli, sugli occhi, sul collo, sulle braccia, affogandola di baci, mangiandola coi baci, prendendosela coi baci. Ella si dibatteva, senza gridare, contorcendosi, convulsa, gli occhi sbarrati, serrando le labbra, riparandosi la faccia, i capelli mezzo disfatti.

— Lasciami.

— No, amore... no, amore...

— Lasciami, te ne scongiuro.

— O amore mio bello, amore mio immenso!

— Andrea, per l’amore che ti porto, lasciami.

Subito la lasciò. Ella affannava, la trina del goletto lacerata, una macchia rossa sul collo, i polsi rossi, trionfante, superba, guardandolo come una regina. Andrea, i sensi domati, i nervi tranquilli per quello sfogo di forza, i muscoli rilasciati, sorrideva, umiliato e beato.

Sedettero di nuovo sull’erba. Lei si distese, lunga, inarcando un braccio, passando una mano sotto la testa per non farle toccare la terra, guardando il cielo: Andrea, buttato di traverso, arrivando appena a sfiorare col capo un ginocchio di lei. Lucia guardava in cielo e gli carezzava i capelli, con un moto quasi materno; egli si muoveva sotto quella mano che ne scompigliava i ricci, con un moto di gatto che si fa lisciare. Poi, sotto la tranquillità dei grandi alberi, una voce risuonò, calma, fredda:

— Andrea, quello che facciamo, è un’infamia.

— Perchè, amore mio santo?

— Se non capisci che è un’infamia, io non posso spiegartelo. Ricordati che vi sono due esseri al mondo, innocenti, che ci amano, che soffriranno per noi: Alberto e Caterina.

— Essi non ne sapranno nulla.

— Sì, forse: ma il tradimento infame esisterà sempre per noi. Noi non dobbiamo amarci.

— Perchè, se ti amo? Tu sei il core mio, la mia dolcezza, il mio profumo...

— Taci, dunque. Questo amore è una colpa. Andrea.

— Non ne so nulla. Ti amo. Tu mi vuoi bene: l’hai detto.

— Io ti adoro — disse lei, freddamente. — Mi sento impazzire per questo amore. Ma ciò deve cessare. È un peccato dinanzi a Dio, una colpa dinanzi alla gente, un reato innanzi alla legge.

— A me non importa nulla di Dio, della gente, della legge. Io ti amo...

— Noi siamo colpevoli, peccatori e adulteri. Tutti i tribunali umani e divini ci condannano...

— E che me ne importa? Io t’amo!

— Noi siamo pieni d’inganno, di malafede, di nequizia.

— Amore, lascia queste fantasie: dammi un bacio. Non ci vede nessuno.

— No, è un sacrilegio. Io appartengo a un altro uomo, tu appartieni a un’altra donna.

— Ma perchè siamo venuti qui allora? — si lamentò lui, come un bambino. — Perchè mi hai dato la tua sciarpa, questa notte? Perchè mi hai fatto innamorare? Come ho da fare ora, io? Ho da morire? Non posso stare senza te: non posso stare senza vederti, senza baciarti, senz’averti. Tu sei bella, io ti amo. Che colpa ne ho io?

— È la fatalità — concluse lei, funebre, incrociando le due mani dietro il capo, chiudendo gli occhi, come se aspettasse la morte.

— Lucia? — riprese Andrea, con una voce di bambino melanconico.

— Eh?

— Mi vuoi bene?

— Sì.

— Dillo: ti voglio bene.

— Ti voglio bene — ripetè lei, monotonamente.

— E quanto me ne vuoi, amore caro?

— Non posso misurarlo.

— Dimmi, a un dipresso — insistette egli, puerilmente.

— Lasciami pensare — fece ella, infastidita.

— A chi pensi? Lucia bella, Lucia piccola, dimmi, a chi pensi?

— A te, fanciullo imprudente — disse Lucia, balzando furiosa a sedere, pigliandogli la testa fra le mani, per guardarlo negli occhi — a te, creatura spensierata, che ti metti a una terribile impresa, col cuore tutto pieno d’amore, senza paura, senza rimorsi...

— Che rimorsi? Io amo te e voglio te: non so altro.

— Bravo! come vai dritto al tuo scopo, come vuoi solo quello che vuoi. Ma sai tu che cosa lasci dietro di te? Sai quello che abbandoni sulla via, sai quello che incontrerai?

— No: non mi preme saperlo. Vorrei solo essere certo che mi vuoi bene...

— Sii uomo, Andrea. L’amore è una cosa sempre seria, la passione è sempre spaventosa. Bada, l’amarmi, l’essere amato da me, è per te un pericolo grande.

— Lo so: è questo che mi tenta.

— Per me, non parlo. Io sono un essere infelice, sofferente, abbandonato alle passioni umane senza difesa. Io ti amo: fatale questa passione in me: mi lascio andare a questo amore, quale che esso sia, debba io rimetterci tutta la vita. Per te, parlo. Io sono una donna fatale: ti recherò sventura.

— E via: io ti voglio.

— Questo amore sarà una follìa, Andrea.

— E sia: così lo voglio.

— Tu t’impegni per la vita, Andrea.

— O Lucia, dimmi che m’ami.

Allora ella si avanzò sulla sponda e stese le braccia come se invocasse:

— O cielo lontano, o nuvole che passate, o alberi che stormite, specchiandovi nel lago, voi siete testimoni che la verità io gliela ho detta. O salice doloroso, o acque immobili, o fiori delle acque, voi avete udito le mie parole. O Venere madre, o Venere Dea, io gli ho detto l’avvenire. Tu, Natura, che non mentisci, vedi che io non ho mentito. È lui che lo ha voluto.

— Quanto sei divina, gioia mia bella!

Ella si voltò, gli gettò le braccia al collo e si lasciò baciare, baciando. Poi riprese la sua roba, tranquillamente, come se tutto fosse irrevocabilmente stabilito.

— È la fatalità — soggiunse.

E se ne andò per la viottola, figura nera, alta, orgogliosa di regina, traendosi dietro il suo vassallo innamorato.


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