< Faust < Parte prima
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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1837)
La casa della vicina
Parte prima - Passeggio Parte prima - Una via

Marta (sola). Dio perdoni a mio marito; ma egli si è portato meco assai malamente. Se ne va fuori a dirittura pel mondo, e lascia me sola a tribolare sulla paglia. Ed io non gli ho propriamente mai dato un fastidio; e lo amavo, Dio il sa, di cuore (piange). Forse è morto già da un pezzo! — O miseria, miseria! — Avessi almeno la fede della sua morte! (Margherita entra).

Margherita. Signora Marta!

Marta. Che occorre, Ghituzza?

Margherita. A pena io mi reggo sulle gambe! Ecco un'altra cassetta trovata or ora nell'armadio, — di ebano, con entrovi cose preziosissime di più gran valore assai che non fosser le prime.

Marta. Non si vuoi dirlo a tua madre; ch'ella n'andrebbe a portare al confessore anche questa.

Margherita. Ah, vedete! ah, mirate!

Marta (acconciandole intorno le gioje). Va, che tu se' nata vestita.

Margherita. Povera me, che non posso farmi vedere in sì bell'ornamento né per la via, né in chiesa.

Marta. Vientene bene spesso da me, e qui in segreto ti porrai la guarnizione intorno; passeggerai un'oretta su e giù innanzi lo specchio, e ce la godremo. Si offrirà poi un'occasione; verrà una festa; e a passo a passo mostrerai ogni cosa: prima una catenella, poi le perle negli orecchi, e via via. Quella buona donna di tua madre non se ne avvedrà, credo; e potremo anche a un bisogno darle ad intendere qualche filastrocca.

Margherita. Ma e chi può mai aver portate le due cassette? Io temo non ci covi qualche trama sotto. (Si ode picchiare.) Dio mio, sarebbe a caso mia madre?

Marta (spiando dalla gelosia). — È un signore forestiero. — Passi!

Mefistofele (entra). Prendo ardire di venir innanzi addirittura e ne chieggo perdono a queste signore. (Si ritrae rispettosamente dinanzi a Margherita.) Avrei due parole da dire alla signora Marta Schwertlein.

Marta. Son io dessa. Che desidera, signore?

Mefistofele (piano a lei). Ora la conosco, e basta. Ell'ha una visita di molto riguardo, e non voglio sturbarla. Mi perdoni dell'ardimento; tornerò dopo desinare.

Marta. Tu non te lo indovineresti in mille, figliuola; questo signore ti ha tolto per una damigella di conto.

Margherita. Io sono una povera fanciulla. Dio mio! la sua bontà è molta, signore. Questi ornamenti non son miei.

Mefistofele. Oh, non tanto per gli ornamenti, — quanto per quel suo bel portamento, quella nobile sua guardatura. Quanto son lieto di poter rimanere!

Marta. Che reca ella dunque? Son molto desiderosa.

Mefistofele. Io vorrei recare più liete novelle. Spero nullameno ch'ella non me ne vorrà male. Suo marito è morto, e le manda i suoi saluti.

Marta. È morto? quella buon'anima! Ohimè, misera! Mio marito è morto! Io vengo meno.

Margherita. Via, cara signora, non disperatevi.

Mefistofele. Udite la storia lamentevole.

Margherita. Però io non vorrei mai amare ne' miei dì; ché una simil perdita mi affliggerebbe a morte.

Mefistofele. Al piacere sta a lato il dolore, e al dolore il piacere.

Marta. Su, narratemi com'egli chiudesse la sua vita.

Mefistofele. Egli giace in Padova sotterrato in sagrato, vicino a Sant'Antonio. Ivi è il freddo letto nel quale egli dorme per sempre.

Marta. E, non recate voi altro?

Mefistofele. Anzi una grande e grave preghiera; piacciavi di far cantare trecento messe per l'anima sua. Del resto le mie saccocce son vôte.

Marta. Che! non una medaglia? non una gemma? Quel ch'ogni più meschino artigianello salva nel fondo della valigia, in testimonio della sua fede, e vuol piuttosto patirsi la fame, vuol pitoccare...

Mefistofele. Madama, io ne sono dolente sino all'anima. Ma per verità egli non ha scialacquato a sproposito i suoi danari; e inoltre si pentì amaramente de' falli suoi; sì invero, e più ancora deplorò la sua nimica fortuna.

Margherita. È possibile che gli uomini soggiacciano a tante miserie? Io gli dirò certo molti requiem.

Mefistofele. Meritereste proprio di maritarvi presto. Siete una deliziosa creatura.

Margherita. Oh no; egli c'è tempo.

Mefistofele. O sì o no che si usi, lo si fa nullameno.

Marta. Su raccontate.

Mefistofele. Io gli sono stato accanto al letto; ch'io non dirò che fosse propriamente letame, era paglia mezzo fradicia; non pertanto egli finì da buon cristiano, e né pure gli parve che egli pagasse troppo grave scotto. Oh, quanto, sclamava, io devo odiare me medesimo dell'aver a quel modo disertato e moglie e professione. Ohimè, questo pensiero è un coltello al mio cuore. Mi avesse ella almen perdonato in questa vita!

Marta (piangendo). Pover'uomo! sì, sì, io gli ho perdonato da un pezzo.

Mefistofele. Ma, lo sa Iddio, fu più sua colpa che mia.

Marta. Egli mente! Oh, cielo! ha cuor di mentire con un piè nella fossa!

Mefistofele. Sì, certo; egli dava gli ultimi tratti, e narrava ancora fandonie, per quel ch'io me n'intenda. Egli diceva: Io non ho avuto tempo, no, di stare a dondolarmi! mai un'ora di requie io non ho avuto. E prima ebbi a far de' figliuoli, e poi a provveder loro il pane; e pane a rigor di termine, né mai ho potuto mangiarmi il mio boccone in pace.

Marta. A tal segno egli aveva dimenticato la mia gran fede, il mio grand'amore, quel continuo affaccendarmi il giorno e la notte!

Mefistofele. Oh, anzi, egli se ne ricordava ad ogni ora. Egli proseguiva: Quand'io partii da Malta io pregai caldamente per mia moglie e i miei figliuoli, e quindi anche il cielo ne fu propizio in modo che il nostro brigantino prese un legno turco che portava una preziosa mercanzia al gran Sultano. Il valore ebbe ampia ricompensa, e partitosi il bottino fra noi, io n'ebbi, com'era di dovere, la mia bella porzione.

Marta. Come? che n'ha fatto? l'avrebbe forse seppellita?

Mefistofele. Chi può dire quale ora se la porti dei quattro venti? Una vezzosa signorina s'impossessò di lui mentre andava, come forestiero, baloccandosi qua e là per Napoli, e gli portò tanto amore e tanta fede ch'egli se ne sentì sino al beato suo fine.

Marta. Ribaldone! ladro ai suoi propri figliuoli! né povertà, né miserie d'ogni sorta non hanno dunque mai potuto rimoverlo da quella obbrobriosa sua vita!

Mefistofele. Così è; e perciò è morto. Ora, s'io fossi voi, vorrei decorosamente piangerlo un anno, e frattanto andrei guardandomi attorno per vedere ove ricollocassi il mio amore.

Marta. Dio buono! simile a quel mio primo io non ne troverò facilmente un altro nel mondo. Non so se vi potrebb'essere un pazzo più sviscerato di lui; solo ch'egli amava un po' troppo lo andare attorno, e le donne forestiere e i vini forestieri, e quel maledetto giuoco dei dadi.

Mefistofele. Via via, son difettucci che potevate ancora passarglieli, se dal canto suo egli chiudea gli occhi ai vostri. Vi giuro che a simil patto io farei il cambio dell'anello con voi.

Marta. Oh, ella celia, mio signore!

Mefistofele (da sé). Bisogna ch'io mi levi di qui in tempo, ché costei è tal femmina da pigliare in parola anche il diavolo. (A Margherita.) Come sta il cuore?

Margherita. Che vuol ella dire, signore?

Mefistofele (da sé). Bella, innocente creatura! (Alto.) Stieno bene, signore.

Margherita. Stia bene.

Marta. Oh, mi dica un po'. Io vorrei avere una testimonianza del come, del quando e del dove mio marito è morto e fu sepolto. Sono sempre stata in ogni mia cosa accuratissima, e avrei caro che la sua morte fosse annunziata nelle gazzette.

Mefistofele. Sì, mia buona signora; due testimoni bastano in qualsivoglia caso e luogo a mettere in chiaro la verità. Ho meco un accorto compagno ch'io produrrò innanzi il giudice per voi. Lo condurrò qui, se permettete.

Marta. Deh, fate la bontà!

Mefistofele. E saravvi anche la signorina? È un bello ed elegante giovane, che ha molto viaggiato, e in corteggiare le damigelle non ha il suo secondo.

Margherita. Io arrossirò dinanzi a lui.

Mefistofele. Dinanzi a nessun re della terra.

Marta. Vi aspetteremo stasera nel mio giardino, qua dietro la casa.

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