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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1837)
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Margherita (rialzandosi e rannodandosi le trecce). Io darei non so che per sapere chi è quel signore di stamattina. Egli aveva assai bell'aria, e per certo egli è un gentiluomo; lo porta scritto nella fronte. Oltre di che ei non sarebbe stato così temerario (parte).
Mefistofele e Faust.
Mefistofele. Vien dentro; pian piano! — su, vieni!
Faust (dopo alcun silenzio). Lasciami solo, te ne prego.
Mefistofele (riguardando qua e là). Non tutte le fanciulle son sì ben rassettate (parte).
Faust. Salve, amabile raggio della sera, che penetri in questo santuario! E tu apprenditi al mio petto, soave tormento d'amore; tu che, languendo, ti nutri della rugiada della speranza. Che aura di pace e di contentezza spira d'ogni intorno! Che abbondanza in questa povertà! che beatitudine in questa prigione! (Si getta in un seggiolone di cuojo a canto al letto.) O, accogli me pure! tu che già ricettasti nelle aperte tue braccia i buoni progenitori, nelle lor gioje e nei loro affanni. Quante volte uno stormo di figliuoletti fece corona a questo trono paternale! E qui forse la mia diletta, grata dei doni del Natale, inclinò quella sua florida guancia a baciare piamente l'arida mano dell'avo. Dove io giri gli occhi m'innamora il bell'assetto di questa cameretta. Il puro contento del tuo cuore, o fanciulla, guida la tua mano, e quando distendi il nitido tappeto in sulla tavola, e quando spargendo l'arena descrivi questi bei fregi sul pavimento. Non sei tu nata in cielo, o fanciulla? tu, che di questo tugurio sai fare un paradiso! E qui! (alza una cortina del letto). Che soave tremito mi assale! Io qui potrei volgere lunghe ore... O natura! tu qui entro componevi quel nuovo angelo, e rallegravi di soavi visioni i suoi riposi. Qui giacque la pargoletta, piena il tenero seno dell'ardore della vita; e qui quella divina immagine svolse il purissimo e santo suo tessuto.
E tu! perché sei tu qui? Ahi, affanno! — Che vuoi tu qui? Perché il tuo cuore è aggravato? Povero Faust! io non ti riconosco più.
Che aura è questa che mi spira d'attorno? son io forse affascinato? Poc'anzi io anelavo impaziente al piacere: ed ora mi lascio andare ai teneri vaneggiamenti dell'amore. Mutiamo noi d'animo per ogni mutare dell'aria?
Ed oh, se tutt'a un tratto ella entrasse qui! come ti precipiteresti a far ammenda del tuo oltraggio! Come ti cadrebbe dall'animo ogni orgoglio, e giaceresti ridotto a nulla, a' suoi piedi.
Mefistofele. Presto! io la veggio venire!
Faust. Fuggiamo! fuggiamo! io non vi torno mai più.
Mefistofele. Io ho qui una cassetta di non leggier peso, ch'io son ito a raccogliere so io dove: presto, ponetela nell'armadio, e vi so dire ch'ella ne sarà fuori di sé. Vi ho messo dentro alcune cosucce per guadagnarne altre. A' fanciulli i trastulli.
Faust. Io non so, — debb'io?
Mefistofele. Ne domandate? Vi pensereste forse di serbarvelo per voi quel tesoro? S'ell'è così, io vi consiglio che lasciate stare i dolci amori; serbate il vostro tempo ad altro, che è prezioso, il sapete; e risparmiate a me le inutili fatiche. Ma io voglio credere che non siate così misero! Io mi dò mille impacci, meno le mani e i piedi — (Pone la cassetta nell'armadio e lo riserra a chiave.) Andiamcene! — per porvi la fanciulla nelle braccia: e voi state lì tutto di un pezzo come se aveste indosso la toga del professore, e vi fossero innanzi in persona la fisica e la metafisica. Su andiamo! (partono).
Margherita (con lucerna in mano). Che arsura è qui dentro! come ci sa di chiuso! (apre la finestra). Eppure fuori è fresco anzi che no. Non so, mi par come... — Vorrei che mia madre tornasse tosto a casa. Io tremo tutta dal capo a' piedi. — Oh, io son pur la pazza e timida donnicciuola! (ella si mette a cantare intanto che si spoglia). V'era in Tule un re che tenne
Sino al cenere la fe';
La sua amante a morir venne
E una tazza d'or gli diè.
Nulla in pregio ebbe mai tanto
La votava a mensa ognor,
E in votarla avea di pianto
Gli occhi gravidi e d'amor.
E quand'ei pur venne a morte
Le sue ville numerò,
Agli eredi le dié in sorte,
Ma la tazza riserbò.
Ed a splendido convito
Fe' i baroni ragunar
Nella sala dell'avito
Suo castello sovra il mar.
Ivi l'ultime gioconde
Stille ei bevve in mezzo a lor;
E dall'alto giù nell'onde
Gittò il sacro nappo d'or.
Ir giù il vide, e le tranquille
Acque rompere e sparir.
S'oscurâr le sue pupille,
Più non bevve il vecchio Sir.
(Apre l'armadio per riporre le vesti e vede la cassetta.)
Com'è capitato qui questo bel forzierino? Io son ben certa ch'io aveva serrato l'armadio. Egli è strano! E che può esservi dentro? Forse che qualcuno l'abbia impegnato a mia madre perché vi prestasse sopra. Qui è un nastro con appesa una chiavicina, ed io son tutta tentata di aprirlo. Che è ciò? Bontà del cielo! Ho io mai veduto simili cose nella mia vita? Una guarnitura! e tale che ogni più gran dama potrebbe metterlasi intorno nelle maggiori solennità. Starebb'ella bene a me questa catenella? E di chi mai saranno tante ricche cose? (se ne adorna e va innanzi lo specchio). Se fossero miei pure gli orecchini! Che bell'aria mi danno! Io pajo tutt'un'altra! Povere fanciulle, che vi giova la vostra bellezza? La è una bella cosa senz'altro la bellezza, ma che conto se ne tiene? Par che vi lodino per compassione; e tutti corron dietro a' danari: i danari solo fanno miracoli. Ahi, noi altri poveretti!