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XIX
A D. MARIA PRINCIPESSA MEDICI,
ora reina di francia
Che per l'Estate non parta da Firenze.
Febo s'infiamma, e rimenando il giorno
Via più la terra incende;
Forse inasprirsi dal Leone apprende;
Con cui girando il Cielo or fa soggiorno;
E vola fama intorno
Che per te la partita ornai s'appresta;
Che vaga di bell’erbe, e di bell'onde,
Vai dove si diffonde
Domestica ombra di reai foresta.
Va gloriosa; e vago april de’fiori
Al prato si rinnovi,
E dove il piè riposi, e dove il movi,
Sian per servizio tuo grazie ed amori;
Ma se le Muse onori,
Sicché lor voci d’ascoltar non sdegni,
Teco avrai di pensar grave cagione,
Perchè in selva s'espone
Ammirabil bellezza a’ rischi indegni.
Non giovò, ch’a fuggir mettesse penne
Per la foresta oscura,
Che dall'ingiuria altrui sol fu sicura
Dafne allor ch'in fuggir pianta divenne,
E poiché non ritenne
Il piè fugace, che l'umil lusinga
Ella sprezzò dell'amator selvaggio,
Per cessar grave oltraggio,
In canna fral si trasformò Siringa.
Le rose, onde sua guancia era vermiglia,
Pelle coperse irsuta,
E per lungo martir fera venuta,
Orsa si fé' la Licaonia, figlia;
Or quinci esempio piglia,
Reina, e questi detti in cor ti serra;
Vampa d'estivo ardor si non t’annoi,
Che ’l Sol degli occhi tuoi
Qualche Re, qualche Eroe sospiri in terra.
Se quest’alma Città per lei s'adorna,
Non le tôr tua presenza;
Priva del tuo splendor, saria Fiorenza
A mirar come un Ciel, che non s’aggiorna;
All'ardor che ritorna,
Picciolo spazio è conceduto; ornai
Sento Febo piegarsi a mia preghiera
E dall’alta sua sfera,
Almen per te verran giocondi i rai.
Donna, non ammirar, non sia schernito,
Ma trovi il mio dir fede,
Che, da che volsi verso Anfriso il piede,
Ha Febo il mio pregar mai sempre udito;
Allor ch’io mossi ardito
A forte celebrar gli affanni e l'armi
E l'Italia illustrar d’immortal fama,
Egli appagò mia brama,
Nè di sua grazia scompagnò miei carmi.
Quinci valsi a fermar cerchio lucente
Sul crin de i gran guerrieri;
E fra cotanti appariranno altieri
Quei, ch’ai fianco li stan tanto sovente:
Arse poscia mia mente
Desio di celebrar tua gran beltate,
Segno a mortale arcier troppo sublime,
E pure impetrai rime
Per lei non vili alla futura etate.
Di qui sicuro, che mio dir non gisse
Infra Paure negletto,
Febo pregai, ch’al suo gentil cospetto,
Mentitegli è col Leon, non apparisse;
E sorridendo ci disse:
Guarda se drittamente i preghi hai sparsi,
Fedel mio, che procuri? o che desiri?
Vuoi tu, ch'io sol non miri
Beltà, che sola al Mondo è da mirarsi?
Ch’io non m’affisi nell'amabil volto,
Ogni tuo studio è vano.
Duolmi quando nel mar da lei lontano
Per la legge fatal mio carro è volto.
Ben tuoi desiri accolto,
Per modo tal, ch’io temprerò mio lume,
Sicché dolci per lei fiano i miei rai.
Così diss’egli; e sai,
Che degli Dei mentir non è costume.