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Era nella vista contenta la gentil donna, quando Menedon, che appresso di lei sedea, disse: - Altissima reina, ora viene a me la volta del proporre nel vostro cospetto, ond’io con la vostra licenza dirò. E da ora, se io troppo nel mio parlare mi stendessi, a voi e appresso agli altri circunstanti dimando perdono, però che quello ch’io intendo di proporre interamente dare non si potrebbe a intendere, se a quello una novella, che non fia forse brieve, non precedesse -. E dopo queste parole così cominciò a parlare: - Nella terra là dov’io nacqui, mi ricorda essere un ricchissimo e nobile cavaliere il quale di perfettissimo amore amando una donna nobile della terra, per isposa la prese. Della quale donna, essendo bellissima, un altro cavaliere chiamato Tarolfo s’innamorò; e di tanto amore l’amava, che oltre a lei non vedeva, né niuna cosa più disiava, e in molte maniere, forse con sovente passare davanti alle sue case, o giostrando, o armeggiando, o con altri atti, s’ingegnava d’avere l’amore di lei, e spesso mandandole messaggieri, forse promettendole grandissimi doni, e per sapere il suo intendimento. Le quali cose la donna tutte celatamente sostenea, sanza dare o segno o risposta buona al cavaliere, fra sé dicendo: "Poi che questi s’avedrà che da me né buona risposta né buono atto puote avere, forse elli si rimarrà d’amarmi e di darmi questi stimoli". Ma già per tutto questo Tarolfo di ciò non si rimanea, seguendo d’Ovidio gli amaestramenti, il quale dice l’uomo non lasciare per durezza della donna di non perseverare, però che per continuanza la molle acqua fora la dura pietra. Ma la donna, dubitando non queste cose venissero a orecchie del marito, e esso pensasse poi che con volontà di lei questo avvenisse, propose di dirgliele; ma poi mossa da miglior consiglio disse: "Io potrei, s’io il dicessi, commettere tra costoro cosa che io mai non viverei lieta: per altro modo si vuole levare via"; e imaginò una sottile malizia. Ella mandò così dicendo a Tarolfo, che se egli tanto l’amava quanto mostrava, ella volea da lui un dono, il quale come l’avesse ricevuto, giurava per li suoi iddii, e per quella leanza che in gentile donna dee essere, che essa farebbe ogni suo piacere; e se quello che domandava, donare non le volesse, ponessesi in cuore di non stimolarla più avanti, se non per quanto egli non volesse che essa questo manifestasse al marito. E ’l dono il quale ella dimandò fu questo. Ella disse che volea del mese di gennaio, in quella terra, un bel giardino e grande, d’erbe e di fiori e d’alberi e di frutti copioso, come se del mese di maggio fosse, fra sé dicendo: "Questa è cosa impossibile: io mi leverò costui da dosso per questa maniera". Tarolfo, udendo questo, ancora che impossibile gli paresse e che egli conoscesse bene perché la donna questo gli domandava, rispose che già mai non riposerebbe né in presenza di lei tornerebbe, infino a tanto che il dimandato dono le donerebbe. E partitosi della terra con quella compagnia che a lui piacque di prendere, tutto il ponente cercò per avere consiglio di potere pervenire al suo disio; ma non trovato lui, cercò le più calde regioni, e pervenne in Tesaglia, dove per sì fatta bisogna fu mandato da discreto uomo. E quivi dimorato più giorni, non avendo ancora trovato quello che cercando andava, avvenne che essendosi egli quasi del suo avviso disperato, levatosi una mattina avanti che ’l sole s’apparecchiasse d’entrare nell’aurora, incominciò tutto soletto ad andare per lo misero piano che già tinto fu del romano sangue. E essendo per grande spazio andato, egli si vide davanti a’ piè d’un monte un uomo, non giovane né di troppa lunga età, barbuto, e i suoi vestimenti giudicavano lui dovere essere povero, picciolo di persona e sparuto molto, il quale andava cogliendo erbe e cavando con un picciolo coltello diverse radici, delle quali un lembo della sua gonnella avea pieno. Il quale quando Tarolfo il vide, si maravigliò e dubitò molto non altro fosse; ma poi che la stimativa certamente gli rendé lui essere uomo, egli s’appressò a lui e salutollo, domandandolo appresso chi egli fosse e donde, e quello che per quello luogo a così fatta ora andava faccendo. A cui il vecchierello rispose: "Io sono di Tebe, e Tebano è il mio nome, e per questo piano vo cogliendo queste erbe, acciò che de’ liquori d’esse faccendo alcune cose necessarie e utili a diverse infermità, io abbia onde vivere, e a questa ora necessità e non diletto mi ci costringe di venire; ma tu chi se’ che nell’aspetto risembri nobile, e quinci sì soletto vai?". A cui Tarolfo rispose: "Io sono dell’ultimo ponente assai ricco cavaliere, e da’ pensieri d’una mia impresa vinto e stimolato, non potendola fornire, di qua, per meglio potermi sanza impedimento dolere, mi vo così soletto andando". A cui Tebano disse: "Non sai tu la qualità del luogo come ella è? Perché inanzi d’altra parte non pigliavi la via? Tu potresti di leggieri qui da furiosi spiriti essere vituperato". Rispose Tarolfo: "In ogni parte puote Iddio igualmente: così qui come altrove gli è la mia vita e ’l mio onore in mano; faccia di me secondo che a lui piace: veramente a me sarebbe la morte un ricchissimo tesoro". Disse allora Tebano: "Quale è la tua impresa, per la quale, non potendola fornire, sì dolente dimori?". A cui Tarolfo rispose: "E tale che impossibile mi pare omai a fornire, poi che qui non ho trovato consiglio". Disse Tebano: "Osasi dire?". Rispose Tarolfo: "Sì, ma a che utile?". "Forse niuno" disse Tebano, "ma che danno?". Allora Tarolfo disse: "Io cerco di potere aver consiglio come del più freddo mese si potesse avere un giardino pieno di fiori e di frutti e d’erbe, bello sì come del mese di maggio fosse, né trovo chi a ciò aiuto o consiglio mi doni che vero sia". Stette Tebano un pezzo tutto sospeso sanza rispondere, e poi disse: "Tu e molti altri il sapere e le virtù degli uomini giudicate secondo i vestimenti. Se la mia roba fosse stata qual è la tua, tu non m’avresti tanto penato a dire la tua bisogna, o se forse appresso de’ ricchi prencipi m’avessi trovato, come tu hai a cogliere erbe; ma molte volte sotto vilissimi drappi grandissimo tesoro di scienza si nasconde: e però a chi proffera consiglio o aiuto niuno celi la sua bisogna, se, manifesta, non gli può pregiudicare. Ma che doneresti tu a chi quello che tu vai cercando ti recasse ad effetto?". Tarolfo rimirava costui nel viso, dicendo egli queste parole, e in sé dubitava non questi si facesse beffe di lui, parendogli incredibile che, sei colui fosse stato Iddio, ch’egli avesse potuto fare virtù. Non per tanto egli li rispose così: "Io signoreggio ne’ miei paesi più castella, e con esse molti tesori, i quali tutti per mezzo partirei con chi tal piacere mi facesse". "Certo" disse Tebano "se questo facessi, a me non bisognerebbe d’andare più cogliendo l’erbe". "Fermamente" disse Tarolfo "se tu se’ quelli che in ciò mi prometti di dare vero effetto, e davelo, mai non ti bisognerà più affannare per divenire ricco; ma come o quando mi potrai tu questo fornire?". Disse Tebano: "Il quando fia a tua posta, del come non ti travagliare. Io me ne verrò teco fidandomi nella tua parola della promessa che mi fai, e quando là dove ti piacerà saremo, comanderai quello che tu vorrai: io fornirò tutto sanza fallo". Fu di questo accidente tanto contento in se medesimo Tarolfo, che poca più letizia avria avuta se nelle sue braccia la sua donna allora tenuta avesse, e disse: "Amico, a me si fa tardi che quello che imprometti si fornisca: però sanza indugio partiamo e andiamo là ove questo si dee fornire". Tebano, gittate via l’erbe, e presi i suoi libri e altre cose al suo maesterio necessarie, con Tarolfo si mise al cammino, e in brieve tempo pervennero alla disiderata città, assai vicini al mese del quale era stato dimandato il giardino. Quivi tacitamente e occulti infino al termine disiderato si riposarono; ma entrato già il mese, Tarolfo comandò che ’l giardino s’apprestasse, acciò che donare lo potesse alla sua donna. Come Tebano ebbe il comandamento, egli aspettò la notte, e, venuta, vide i corni della luna tornati in compiuta ritondità, e videla sopra l’usate terre tutta risplendere. Allora egli uscì della città, lasciati i vestimenti, scalzo, e con i capelli sparti sopra li nudi omeri, tutto solo. I vaghi gradi della notte passavano, gli uccelli, le fiere e gli uomini riposavano sanza niuno mormorio, e sopra i monti le non cadute frondi stavano sanza alcuno movimento, e l’umido aere in pace si riposava: solamente le stelle luceano, quando egli, più volte circuita la terra, pervenne al luogo, il quale gli piacque d’eleggere per lo giardino, allato ad un fiume. Quivi stese verso le stelle le braccia, tre volte rivoltandosi ad esse, e tante i bianchi capelli nella corrente acqua bagnò, domandando altretante volte con altissima voce il loro aiuto; poi poste le ginocchie sopra la dura terra, cominciò così a dire: "O notte, fidatissima segreta dell’alte cose, e voi, o stelle, le quali al risplendente giorno con la luna insieme succedete, e tu, o somma Ecate, la quale aiutatrice vieni alle cose incominciate da noi, e tu, o santa Cerere, rinnovatrice dell’ampia faccia della terra, e voi qualunque versi, o arti, o erbe, e tu qualunque terra producente virtuose piante, e voi aure, e venti, e monti, e fiumi, e laghi, e ciascuno iddio de’ boschi o della segreta notte, per li cui aiuti io già rivolsi i correnti fiumi faccendogli tornare nelle loro fonti, e già feci le correnti cose stare ferme, e le ferme divenire correnti, e che già deste a’ miei versi potenza di cacciare i mari e di cercare sanza dubbio i loro fondi, e di rischiarare il nuvoloso tempo, e il chiaro cielo riempiere a mia posta d’oscuri nuvoli, faccendo i venti cessare e venire come mi pareva, e con quelli rompendo le dure mascelle degli spaventevoli dragoni, faccendo ancora muovere le stanti selve e tremare gli eccelsi monti, e ne’ morti corpi tornare da’ paduli di Stige le loro ombre e vivi uscire de’ sepolcri, e tal volta tirare te, o luna, alla tua ritondità, alla quale per adietro i sonanti bacini ti soleano aiutare venire, faccendo ancora tal volta la chiara faccia del sole impalidire: siate presenti, e ’l vostro aiuto mi porgete. Io ho al presente mestiere di sughi e d’erbe, per li quali l’arida terra, prima d’autunno, ora dal freddissimo verno, de’ suoi fiori, frutti e erbe spogliata, faccia in parte ritornare fiorita, mostrando, avanti il dovuto termine, primavera". Questo detto, molte altre cose tacitamente aggiunse a’ suoi prieghi. Poi tacendo, le stelle non dieron luce invano, ma più veloce che volo d’alcuno uccello un carro da due dragoni tirato gli venne avanti, sopra il quale egli montò, e, recatesi le redine de’ posti freni a’ due dragoni in mano, suso in aria si tirò. E pigliando per l’alte regioni il cammino, lasciò Spagna e cercò l’isola di Creti: di quindi Pelion, e Ocris e Ossa, e ’l monte Nero Pacchino, Peloro e Appennino in brieve corso cercò tutti, di tutti svellendo e segando con aguta falce quelle radici e erbe che a lui piacevano, né dimenticò quelle che divelte avea quando da Tarolfo fu trovato in Tesaglia. Egli prese pietre d’in sul monte Caocaso, e dell’arene di Gange e di Libia recò lingue di velenosi serpenti. Egli vide le bagnate rive del Rodano, di Senna, d’Amprisi e di Ninfeo, e del gran Po, e dello imperial Tevero e d’Arno, e di Tanai, e del Danubio, di sopra da quelle ancora prendendo quelle erbe che a lui pareano necessarie, e queste aggiunse all’altre colte nelle sommità de’ salvatichi monti. Egli cercò l’isola di Lesbos e quella de’ Colchi e Delfos e Patimos, e qualunque altra nella quale sentito avesse cosa utile al suo intendimento. Con le quali cose, non essendo ancora passato il terzo giorno, venne in quel luogo onde partito s’era: e i dragoni, che solamente l’odore delle prese erbe aveano sentito, gittando lo scoglio vecchio per molti anni, erano rinnovellati e giovani ritornati. Quivi smontato, d’erbosa terra due altari compose, dalla destra mano quello d’Ecate dalla sinistra quello della rinnovellante dea. I quali fatti, e sopr’essi accesi divoti fuochi, co’ crini sparti sopra le vecchie spalle, con inquieto mormorio cominciò a circuire quelli: e in raccolto sangue più volte intinse le ardenti legne. Poi riponendole sopra gli altari e tal volta con esse inaffiando quel terreno il quale egli avea al giardino disposto, dopo questo, quello medesimo tre volte di fuoco e d’acqua e di solfo rinnaffiò. Poi posto un grandissimo vaso sopra l’ardenti fiamme, pieno di sangue, di latte e d’acqua, quello fece per lungo spazio bollire, aggiungendovi l’erbe e le radici colte negli strani luoghi, mettendovi ancora con esse diversi semi e fiori di non conosciute erbe, e aggiunsevi pietre cercate nello estremo oriente, e brina raccolta le passate notti, insieme con carni e ali d’infamate streghe, e de’ testicoli del lupo l’ultima parte, con isquama di cinifo e con pelle del chelidro, e ultimamente un fegato con tutto il polmone d’un vecchissimo cervio: e, con queste, mille altre cose, o sanza nomi o sì strane che la memoria nol mi ridice. Poi prese un ramo d’un secco ulivo e con esso tutte queste cose cominciò a mescolare insieme. La qual cosa faccendo, il secco ramo cominciò a divenire verde e in brieve a mettere le frondi, e, non dopo molto, rivestito di quelle, si poté vedere carico di nere ulive. Come Tebano vide questo, egli prese i boglienti liquori, e sopra lo eletto terreno, nel quale di tanti legni avea fatti bastoni quanti alberi e di quante maniere voleva, e quivi quelli liquori incominciò a spandere e ad inaffiare per tutto: la qual cosa la terra non sentì prima, ch’ella cominciò tutta a fiorire, producendo nuove e belle erbette, e i secchi legni verdi piantoni e fruttiferi divennero tutti. La qual cosa fatta, Tebano rientrò nella terra tornando a Tarolfo, il quale quasi pauroso d’essere stato da lui beffato per la lunga dimoranza dimorava, e trovollo tutto pensoso. A cui egli disse: "Tarolfo, fatto è quello che hai dimandato, e è al piacere tuo". Assai piacque questo a Tarolfo, e dovendo essere il seguente giorno nella città una grandissima solennità, egli se n’andò davanti alla sua donna, la quale già era gran tempo che veduta non l’avea, e così le disse: "Madonna, dopo lunga fatica io ho fornito quello che voi comandaste: quando vi piacerà di vederlo e di prenderlo, egli è al vostro piacere". La donna, vedendo costui, si maravigliò molto, e più udendo ciò che egli diceva; e non credendolo, rispose: "Assai mi piace, faretecelo vedere domane". Venuto il seguente giorno, Tarolfo andò alla donna, e disse: "Madonna, piacciavi di passare nel giardino, il quale voi mi dimandaste nel freddo mese". Mossesi adunque la donna da molti accompagnata, e pervenuti al giardino, v’entrarono dentro per una bella porta, e in quello non freddo come di fuori, ma uno aere temperato e dolce si sentiva. Andò la donna per tutto rimirando e cogliendo erbe e fiori, de’ quali molto il vide copioso: e tanto più ancora avea operato la virtù degli sparti liquori, che i frutti, i quali l’agosto suole producere, quivi nel salvatico tempo tutti i loro alberi facevano belli: de’ quali più persone, andate con la donna, mangiarono. Questo parve alla donna bellissima cosa e mirabile, né mai un sì bello ne le pareva avere veduto. E poi che essa in molte maniere conobbe quello essere vero giardino, e ’l cavaliere avere adempiuto ciò che ella avea domandato, ella si voltò a Tarolfo e disse: "Sanza fallo, cavaliere, guadagnato avete l’amore mio, e io sono presta d’attenervi ciò che io vi promisi; veramente voglio una grazia, che vi piaccia tanto indugiarvi a richiedermi del vostro disio, che ’l signore mio vada a caccia o in altra parte fuori della città, acciò che più salvamente e sanza dubitanza alcuna possiate prendere vostro diletto". Piacque a Tarolfo, e lasciandole il giardino, quasi contento da lei si partì. Questo giardino fu a tutti i paesani manifesto, avvegna che niuno non sapesse, se non dopo molto tempo, come venuto si fosse. Ma la gentil donna, che ricevuto l’avea, dolente di quello si partì, tornando nella sua camera piena di noiosa malinconia. E pensando in qual maniera tornare potesse adietro ciò che promesso avea, e non trovando licita scusa, in più dolore cresceva. La quale vedendo il marito più volte, si cominciò molto a maravigliare e a domandarla che cosa ella avesse: la donna dicea che niente avea, vergognandosi di scoprire al marito la fatta promissione per lo dimandato dono, dubitando non il marito malvagia la tenesse. Ultimamente non potendosi ella a’ continui stimoli del marito, che pur la cagione della sua malinconia disiderava di sapere, tenersi, dal principio infino alla fine gli narrò perché dolente dimorava. La qual cosa udendo il cavaliere lungamente pensò, e conoscendo nel pensiero la purità della donna, così le disse: "Va, e copertamente serva il tuo giuramento, e a Tarolfo ciò che tu promettesti liberamente attieni: egli l’ha ragionevolmente e con grande affanno guadagnato". Cominciò la donna a piangere e a dire: "Facciano gl’iddii da me lontano cotal fallo; in niuna maniera io farò questo: avanti m’ucciderei ch’io facessi cosa che disonore o dispiacere vi fosse". A cui il cavaliere disse: "Donna, già per questo io non voglio che tu te n’uccida, né ancora che una sola malinconia tu te ne dia: niuno dispiacere m’è, va e fa quello che tu impromettesti, ch’io non te ne avrò di meno cara; ma questo fornito, un’altra volta ti guarderai di sì fatte impromesse, non tanto ti paia il domandato dono impossibile ad avere". Vedendo la donna la volontà del marito, ornatasi e fattasi bella, e presa compagnia, andò all’ostiere di Tarolfo, e di vergogna dipinta gli si presentò davanti. Tarolfo come la vide, levatosi da lato a Tebano con cui sedea, pieno di maraviglia e di letizia le si fece incontro, e lei onorevolmente ricevette, domandando della cagione della sua venuta. A cui la donna rispose: "Per essere a tutti i tuoi voleri sono venuta, fa di me quello che ti piace". Allora disse Tarolfo: "Sanza fine mi fate maravigliare, pensando all’ora e alla compagnia con cui venuta siete: sanza novità stata tra voi e ’l vostro marito non può essere; ditemelo, io ve ne priego". Narrò allora la donna interamente a Tarolfo come la cosa era tutta per ordine. La qual cosa udendo, Tarolfo più che prima s’incominciò a maravigliare e a pensare forte, e a conoscere cominciò la gran liberalità del marito di lei che mandata a lui l’avea, e fra sé cominciò a dire che degno di gravissima riprensione sarebbe chi a così liberale uomo pensasse villania; e parlando alla donna così disse: "Gentil donna, lealmente e come valorosa donna avete il vostro dovere servato, per la qual cosa io ho per ricevuto ciò che io di voi disiderava; e però quando piacerà a voi, voi ve ne potrete tornare al vostro marito, e di tanta grazia da mia parte ringraziarlo, e scusarglimi della follia che per adietro ho usata, accertandolo che mai per inanzi più per me tali cose non fiano trattate". Ringraziò la donna Tarolfo molto di tanta cortesia, e lieta si partì tornando al suo marito, a cui tutto per ordine disse quello che avvenuto l’era. Ma Tebano ritornato a lui, Tarolfo domandò come avvenuto gli fosse; Tarolfo gliele contò a cui Tebano disse: "Dunque per questo avrò io perduto ciò che da te mi fu promesso?". Rispose Tarolfo: "No, anzi, qualora ti piace, va, e le mie castella e i miei tesori prendi per metà, come io ti promisi, però che da te interamente servito mi tengo". Al quale Tebano rispose: "Unque agl’iddii non piaccia che io là dove il cavaliere ti fu della sua donna liberale, e tu a lui non fosti villano, che io sia meno che cortese. Oltre a tutte le cose del mondo mi piace averti servito, e voglio che ciò che in guiderdone del servigio prendere dovea, tuo si rimanga sì come mai fu": né di quello di Tarolfo volle alcuna cosa prendere. Dubitasi ora quale di costoro fosse maggiore liberalità, o quella del cavaliere che concedette alla donna l’andare a Tarolfo, o quella di Tarolfo, il quale quella donna cui egli avea sempre disiata, e per cui egli avea tanto fatto per venire a quel punto che venuto era, quando la donna venne a lui, se gli fosse piaciuto, rimandò la sopradetta donna intatta al suo marito; o quella di Tebano, il quale, abandonate le sue contrade, oramai vecchio, e venuto quivi per guadagnare i promessi doni, e affannatosi per recare a fine ciò che promesso avea, avendoli guadagnati, ogni cosa rimise, rimanendosi povero come prima -.