< Filocolo < Libro secondo
Questo testo è completo.
Libro secondo - Capitolo 43
Libro secondo - 42 Libro secondo - 44

Tanto fu a Florio più il dolore delle vedute cose che l’allegrezza della futura vittoria a lui promessa da Venere, che piangendo elli forte, e veggendo partire la santa dea, rompendosi il debile sonno, si destò, e subitamente si dirizzò in piè, trovandosi il petto e ’l viso tutto d’amare lagrime bagnato, e nella destra mano la celestiale spada: di che quasi tutto stupefatto, conobbe essere vero ciò che veduto avea nella preterita visione. E tornandogli a mente la sua Biancifiore e della cagione per che da lei avea ricevuto il bello anello, e della virtù d’esso, piangendo il riguardò dicendo: - Questo fia infallibile testimonio alla verità -; e riguardandolo, il vide turbatissimo e sanza alcuna chiarezza. Allora cominciò Florio il più doloroso pianto che mai veduto o udito fosse, mescolato con molte angosciose voci, dicendo: - O dolce speranza mia, per la quale io infino a qui in doglia e in tormenti mi sono contentato di vivere sperando di rivederti in quella allegrezza e festa che io già molte volte ti vidi, quale avversità ti si volge al presente sopra? Or non bastava alla invidiosa fortuna d’averci dati tanti affannosi sospiri allontanandoci, se ella ancora con mortal sentenza non ci vuole dividere, e porgerci maggiore angoscia? Oimè, or chi è colui che cerca falsamente di volerti levare la vita, e a me insiememente? Chi è quegli che ingiustamente ti fa nocente il mio vecchio padre? Oimè, or crede egli far morire te sanza me? Vano pensiero lo ’nganna. Oimè, è questa la festa ch’io soglio in tal giorno avere con teco? Ahi, dolorosa la vita mia, da quante tribulazioni è circundata! Certo, cara giovane, niuno a mio potere ti torrà la vita: o questa spada la racquisterà a te e a me come promesso m’è stato, tenendola io nella mia mano combattendo, o ella si bagnerà nel mio cuore cacciandovela io, o io diverrò cenere con teco in uno medesimo fuoco, come Campaneo con la sua amante donna divenne a piè di Tebe -. E dicendo Florio queste parole piangendo, il duca, che dalla dolente festa tornava, venne; il quale come Florio sentì, celando il nuovo dolore, nel viso allegrezza mostrando, e andatogli incontro lietamente nelle sue braccia il ricevette, faccendosi festa insieme, però che di perfetto amore amavano e come essi insieme furono nella sala montati, Florio domandò il duca della festa, se era stata bella e se egli avea veduta Biancifiore. Il duca rispose che la festa era stata bella e grande, e che niuna cosa v’era fallita, fuori solamente la sua presenza; e tutto per ordine gli narrò ciò che fatto vi s’era, e de’ vanti che dati s’aveano al paone che Biancifiore avea portato. Ma ben si guardò di non dire l’ultima cosa che avvenuta v’era, cioè dell’avvelenato paone, per lo quale Biancifiore dovea morire, per tema che Florio non se ne desse troppa malinconia, e di ciò s’avvide ben Florio, che ’l duca si guardava di dirgli quello che egli non avrebbe voluto che avvenuto fosse: però, sanza più adimandare, disse che ben gli piaceva che la festa era stata bella e grande, e che volontieri vi sarebbe stato se agl’iddii fosse piaciuto.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.