< Fior di passione (Serao)
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Scena Giuoco di pazienza

Ideale

Laura, ritta presso il tavolino, col capo chino, s'occupava seriamente dei molti bottoni del suo guanto; sulla spalliera d'una seggiola era gittata una mantiglia ricamata in oro; un gran ventaglio di raso rosso da una parte, giallo e nero dall'altra, giaceva semiaperto sul tavolino. Laura era vestita di broccato nero, con uno strascico inverosimile; sulla scollatura triangolare del petto era appuntato un grande gruppo di fiori rossi e gialli; un ramo fitto di fiori rossi o gialli ornava i capelli bruni, compariva sotto l'orecchio e le lambiva il collo. Cesare entrò, senza far rumore, la guardò un momento, pensò a quello che doveva dire, e finì per dire:

— Buona sera, signora.

Ella non si scosse. Si volse, sorrise, stirò il suo guanto e domandò:

— Siete voi, Sanseverino?

— La domanda è singolare.

— Contentatevene. Ve ne ho risparmiata un’altra che poteva essere impertinente.

— Contessa, stasera siete un...

— Fenomeno, non è vero?

— Di bontà. Una cosa nuova. Mi risparmiate una impertinenza, mi siete indulgente! Qualche orribile sventura mi minaccia, dunque?

— Chi sa?

— Preferisco l’impertinenza, contessa. Già me lo immagino. Volevate dirmi: Che venite a fare qui?

— Voi indovinate troppo, Sanseverino; è una scienza pericolosa.

— Per me solo. Vengo qui...

— Per vedermi, perchè siete innamorato di me. Conosco il ritornello.

Sanseverino impallidì, nonostante la sua disinvoltura. Carezzò nervosamente il suo mustacchio sottile:

— ...già — disse poi. — Ma non l’avrei detto. Non si crederebbe, contessa, ma riesco ad essere un uomo di spirito anche dinanzi a voi.

— Tutto merito mio, Sanseverino.

A lui si annebbiarono gli occhi, ma l’orgoglio gli ridette un sorriso ironico.

— Quanto vi è di buono in me e di felice nella mia vita, lo ripeto da voi, contessa — rispose, con un inchino troppo profondo.

— Benissimo, ecco un grazioso complimento che è il principio di quelli che udrò fra poco al teatro.

— È vero, voi andate al teatro — disse lui come riavendosi da una distrazione. — Perchè ci andate?

— Per annoiarmi in mezzo a molta gente.

— Annoiatevi con me, allora. La proposta è egoistica, non lo nego. Ma io mi moltiplicherò per farvi annoiare come al teatro. Se volete, aprirò il pianoforte, e vi suonerò le più gravi, le più soavi melodie del Lohengrin che dovreste ascoltare al San Carlo. Parlerò con voi di trine, di amoretti, di gite, di nastri come potrebbe farlo la vostra amica Evelina. Vi farò la corte scioccamente, come ve la potrebbero fare Giorgio, Arturo, Adolfo o Gino. Poi, in un intervallo finto, fingerò di venire io stesso a farvi una visita, e vi dirò quello che vi direi...

— Mi piacerebbe più quello che non mi direste.

— Tristi cose in verità — rispose lui con un accento profondo.

Vi fu un minuto di silenzio. Caso meraviglioso, la contessa Laura pensava. Ma si scosse:

— E la platea? Ci mancherà la platea. Chi farà da platea? — domandò.

— Che dice la platea di noi?

— Oh! una cosa molto volgare, Sanseverino. Che mi amate e che non v’amo.

— E soggiunge le ragioni, bella contessa?

— Non le soggiunge, perchè non ve ne sono. Si ama senza ragione e non si ama anche senza ragione. L’amore e l’indifferenza si rassomigliano.

— Voi proferite una frase mostruosa — disse lui placidamente.

— Arriverò tardi al teatro — mormorò lei impazientandosi.

— Sono appena le nove. È ignobilmente presto. Chi è due volte contessa e tre volte marchesa come voi, non può andare al teatro a quest’ora. Io non oserei accompagnarvi.

— Vi farebbe piacere l’accompagnarmi? — chiese lei, lampeggiando vanità dagli occhi.

— ... immenso piacere — mormorò lui, comprendendo la malvagia idea — malgrado il susurrìo di compassione che susciterei nella vostra famosa platea, contessa. Sono sicuro, vedete — e la sua voce tremolò di collera — che mi si compiange.

Ella non rispose nulla. Dopo una pausa, gli domandò:

— Foste al ballo in casa Della Mana?

— ... ci fui.

— Mi attendeste inutilmente? — riprese, scherzando graziosamente col ventaglio.

— Inutilmente.

— Mandai a dire che ero ammalata. Vi impensieriste? Non era vero. Il mio abito, giunto da Parigi, era un capolavoro di bruttezza.

— Questo di stasera è odioso.

— Vi pare? Eppure voi dovreste preferire questi fiori dai colori passionati. Non andate predicando da per tutto: Amore, amore, passione, passione?

— Ma non artificiale come i vostri fiori, contessa, come il falso colore dei vostri nastri, come la falsa Turchia del vostro ventaglio, come voi stessa...

— Eh! — fece lei, rivoltandosi vivamente.

— Perdono. Ho sbagliato... ho la testa un po’ confusa. Qui vi è un profumo penetrante che mi dà ai nervi.

— Ora va bene — approvò lei col capo, agitando lievemente il ventaglio.

— Ho sbagliato, vi ho offesa. Voi non siete falsa; voi siete molto leale. Nulla mi avete promesso e nulla mi avete mantenuto. Dal primo istante che vi vidi, vi giudicai: siete rimasta immutabile. Mi congratulo con voi, contessa Laura: voi avete carattere. Carattere d’indifferenza, di apatia, se vogliamo, unito ad una giusta misura di vanità. Bel carattere: io vi ammiro.

— Credete voi che Teresa Realps sposerà vostro cugino Mario? — disse lei, reprimendo un piccolo sbadiglio.

— Questo matrimonio pare che vi diverta come le mie incoerenze. Sarebbe meglio per voi andare al teatro.

— Grazie; per me è lo stesso. Se volete, rimango qui sino a mezzanotte. Mi diverto anche qui.

— Che cosa potrebbe farvi piangere, Laura?

— Mi chiamate per nome, mi sembra — disse lei lentamente e freddamente, guardandolo fisso col suo sguardo grigio.

— Vi chiedeva che cosa potrebbe farvi piangere, contessa Mormile.

— ... non so... non so... ma qualche cosa ci deve essere. La troverò.

— E me la direte?

— Forse. Vi piacerebbe veder le mie lagrime?

— Io non le vedrei — disse Sanseverino, abbassando il capo.

— Bah! — fece lei, stringendosi nelle spalle. E si alzò per prendere la sua mantiglia.

Scesero lo scalone, l’uno a braccio dell’altra, muti, senza guardarsi. Allo sportello della carrozza egli salutò con una grande scappellata.

Laura sorrise.

— Verrete più tardi al teatro, Sanseverino?

— A far che?

— Quello che tutti fanno.

— No. Me ne vado a giuocare al Circolo.

— Questo vi distrae?

— Punto. Tutto è inutile, tutto. Buona sera, contessa Mormile.

— Buona sera, duca Sanseverino.


Nel meriggio di settembre tutto taceva. Nella campagna attorno era un grande silenzio. Ogni tanto, di lontano, s’udiva il rumore di una carrozza che passava sulla strada maestra. Nel pianterreno della villa un paio di servitori dormivano sulle panche dell’anticamera, una cameriera agucchiava presso una finestra, un guattero strofinava silenziosamente l’argenteria in cucina. La contessa Laura non amava il fracasso in campagna. Ella stessa stava nel suo salone favorito, che era un po’ salone, un po’ veranda e un po’ serra, dove le tendine moderavano la luce, il ponente soffiava amabilmente, uno zampillo d’acqua rinfrescava l’aria, e i fiori d’autunno appagavano l’occhio. La contessa vestita di casimira bianca, coperta di merletti bianchi, adorna di rose bianche sul seno e nei capelli, si dondolava in una poltroncina americana.

— ... Voleva dirvi, Sanseverino — continuò con la sua voce seducente e molle — che rimarrò a Capodimonte sino alla fine di ottobre.

— Così tardi? Eppure voi non amate la campagna, non l’avete mai amata.

— Vi sembra? Non so veramente se io l’ami ora. Ma la sua pace mi attrae, mi soggioga. La città deve essere orribile, arsa dal sole, corrosa dalla polvere, piena di gente borghese e piena di chiasso. Che caldo deve fare laggiù! La sera, quando sto sul terrazzo, mi par di vedere Napoli fumare come una grande macchina a vapore. Ed il vostro Sorrento come lo avete lasciato?

— Bellissimo ed elegante; vi è tutto il vostro Circolo. Ognuno si domanda perchè voi manchiate.

— Anche voi lo domandate?

— Io non oso domandare più nulla, lo sapete. Sono i vostri amici. Fanno commenti, supposizioni...

— Che dicono?

— Io non lo ripeterò mai.

— Anzi, me lo ripeterete.

— Per comando?

— Per comando.

— Dicono che avete un innamorato.

— Credete voi che io abbia un innamorato? — domandò lei fissandolo stranamente.

Egli sentì come un brivido passargli per le ossa, e rispose:

— Non lo credo.

— E perchè?

Sanseverino tacque. Ella raccolse una rosa da un cestino che aveva accanto e glie la gettò. Egli la prese a volo e la odorò lungamente, mentre ella osservava con attenzione. Aveva baciato il fiore o aspirato solamente il profumo?

— ... ditemi, Sanseverino, a Sorrento, avete spesso pensato a Napoli?

— Vale a dire, contessa?

— ... a Capodimonte?

— A Capodimonte?

— ... voleva dire a me — concluse lei con voce dolente e arrossendo un poco.

Egli la guardò, sorpreso. Ma ella non gli dette tempo di rispondere:

— Ho letto, ieri l’altro, una parola misteriosa in un libro misterioso. È la parola: ideale. Non sorridete, la conoscevo: ma non comprendevo bene che fosse. È la nuvola che passa, non è vero, l’ideale? È la musica che abbiamo nella mente? È il quadro dipinto nella fantasia? È un fantasma adorato? È tutto questo, non è vero?

— Tutto questo ed altro ancora, signora.

— O amico, voi dovete averlo ed amarlo un ideale. Ditemi qual è.

— Io non posso dirvelo.

— E che? non mi amate voi forse? — sclamò lei, con gli occhi lucenti.

— Sì, ma non vi dirò il mio ideale.

— Ebbene, non me lo dite: io lo so. L’ho indovinato: il mio cuore è diventato profeta. Il vostro ideale è una donna, quella donna che v’ami. Consolatevi e ringraziate il Signore. L’ideale è vivo: io v’amo, Cesare.

— Non scherzate, Laura.

— Non scherzo, vi voglio bene,

— V’ingannate, forse.

— Non m’inganno: vi voglio bene.

Egli impallidiva sempre più. Un tremolio gli agitava gli angoli delle labbra.

— Ve ne scongiuro, Laura, non mentite! Rimanete bella, malvagia, seducente, ma indifferente, ma lontana, ma inafferrabile! Se volete che v’adori, ditemi che non mi amate.

— Io non vi capisco, voi siete pazzo, Cesare: io so che v’amo.

— Addio, Laura.

— Non ve ne andrete, spero.

— Me ne vado; addio.

— Cesare, Cesare!

Ella spalancò un balcone; la viva luce del sole la ferì. Si spenzolò sulla ringhiera e gli gridò:

— Da tanto tempo, Cesare! Dal primo, dal primo momento...

— Tanto peggio — disse lui, chinando il capo.

E si perdè nella lontananza della via.

GIUOCO DI PAZIENZA.

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