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Scena.
Tutta chiusa ancora nella pelliccia di lontra, con la veletta nera del cappellino ancora abbassata sugli occhi, con le mani ficcate e strette nel manicotto, donna Livia, ritta innanzi al caminetto, si riscaldava i piedini intirizziti alla vampa. A un tratto, nell’ombra della sera nascente, ella vide biancheggiare qualche cosa accanto a sè.
— Chi è? — disse buttandosi indietro, improvvisamente sgomentata.
— Sono io, Livia, non aver paura — rispose il marito, con tranquillità.
— Ah! sei tu, Riccardo? Non ti ho inteso venire — e la voce si era subito raddolcita, era diventata tenera.
— Non capisco come non abbiano portato i lumi.
— Sono rientrata ora da Villa Borghese — mormorò lei, fiaccamente. Poi, tastando un poco, trovò il campanello elettrico sul muro e vi appoggiò il dito. Un servitore entrò con due lampade coperte da paralumi di seta azzurra che mitigavano la luce. Il salottino apparve nelle sue tinte un po’ triste di velluto oliva con broccato oro vecchio, molto smorto; una quantità di rose thea sorgeva dai vasi di porcellana, dalle coppe di cristallo. Don Riccardo era in marsina, cravatta nera, gardenia all’occhiello.
— Già pronto? — chiese donna Livia.
— Ho sbagliato l’ora, non sono che le sei: aspetterò.
E si distese nella poltrona, accanto al fuoco, incavalcò una gamba sopra un’altra.
— Qui si fuma, eh Livia?
— Certo. Cerca un po’ le sigarette; sono su quel tavolinetto.
— Ne ho anch’io,
— Le mie saranno migliori, Riccardo.
— Chi te le ha date?
— Le ha portate Guido Caracciolo da Costantinopoli.
Ella stessa gli portò i fiammiferi aspettando che lui accendesse.
Egli si distese di nuovo, fumando.
— Dunque, questo vostro pranzo di fondazione al Circolo è per le sette?
— Sì, cara Livia, alle sette. Un pranzo tutto di uomini: sarà molto noioso.
— Oh! noiosissimo.
Donna Livia si sbottonava lentamente i guanti di capretto nero.
— Almeno avessi dei vicini di pranzo divertenti: ti seccheresti meno, Riccardo mio.
— I vicini sono Mario Torresparda e Filippo Ventimilla.
— Quella Villa Borghese è una ghiacciaia — mormorò lei rabbrividendo dal freddo, presentando le manine inguantate alle fiamme.
— Fai male ad andarci, allora — rispose il marito colla sua bella calma che niente arrivava a turbare.
— Sai... l’abitudine. Oh, vi era una quantità di gente, giorno di festa, molte facce sconosciute oltre alle solite. La regina aveva una piuma rosa pallido sul cappello di velluto nero. Credi tu che mi stia bene il rosa pallido, Riccardo?
— Tutto ti sta bene, cara!
— Bella risposta! Infine ho incontrato Maria, Clara, Margherita, Teresa, Vittoria; Giorgio era solo, nel phaeton; Paola mi ha fatto segno se ci vedevamo stasera, le ho risposto di sì. Ci vieni tu?
— Sì, dopo il pranzo.
— Bravo! Ci sono restata troppo, a Villa Borghese, non mi accorgevo che era notte, poi sapevo che avrei pranzato sola. Brutto cattivo che sei! Sono stata anche da Sofia, prima di Villa Borghese; oh, se sapessi quante cose ho fatte oggi, dalle tre! Povera Sofia, il bimbo è sempre con le febbri e si è fatto magro, giallo; domani lo avvolgeranno negli scialli, lo metteranno in carrozza chiusa e lo porteranno a Tivoli; chi sa che il cambiamento d’aria gli faccia bene...
— Federico parte con Sofia?
— No, andrà ogni giorno a Tivoli. Che uomo freddo e antipaticissimo! Non ha vegliato una sola notte accanto al suo bambino, e Sofia da dodici notti non dorme...
— Dicono che non sia suo, quel bambino, — osservò don Riccardo, scotendo le ceneri della sigaretta nel portacenere.
— Lo dicono, è vero. Sofia si è troppo compromessa con Guido. L’ho incontrato, Guido, in piazza di Spagna, mentre andavo dalla sarta. Sono stata anche da questa sarta, per il vestito grigio, che, è inutile, per quanti sforzi ella faccia, e per quanto tempo mi faccia perdere, non arriva ad essermi conveniente. Un vestito è come un quadro: quando è sbagliato non si corregge più, bisogna buttarlo via e farne un altro.
— Mi sembri poco soddisfatta della tua sarta da qualche tempo. Perchè non cambi? Perchè non fai venire tutto da Parigi? Io non me lo spiego.
— Hai ragione, ma come fare? Questa qui mi si raccomanda, e poi spesso da Parigi mandano degli intrugli di colore di cui è impossibile servirsi. Crederesti che a Giulia hanno mandato un vestito verde! Piangeva, oggi. Sono stata anche da lei, un minuto, per vedere questo vestito che lei aspettava con una certa ansietà. Fiasco, Riccardo mio, fiasco! Un vestito verde chiaro!
Il suo riso strillò per la stanza, poi, essendosi tolto il cappellino e sbottonata la pelliccia, si distese anche lei sulla poltroncina dall’altra parte del fuoco.
Ora la volubilità nervosa con cui aveva parlato si chetava. Ella si passava lentamente le dita nei capelli biondi ondulati come per lisciarli. Don Riccardo accese un’altra sigaretta, e guardando il fuoco parlò così:
— Livia, oggi tu sei uscita alle tre con la vittoria. Sei subito andata da Sofia e vi sei rimasta fino alle tre e venti; di lì sei andata da Giulia, dove sei rimasta dieci minuti; alle quattro eri innanzi al portone della tua sarta in piazza di Spagna; sei entrata di là e ne sei immediatamente uscita dalla porticina che dà in piazza Mignanelli. Hai preso una vettura chiusa da nolo che portava il N. 522. Sei andata in via Cesarini al N. 170, al primo piano, dove Mario Torresparda ha un appartamentino per ricevere le signore del bel mondo che si compiacciono d’andarlo a trovare. La sua abitazione legale, dove riceve gli amici e le cocottes, è altrove. Sei restata là dalle quattro e dieci minuti fino alle cinque e cinquanta minuti; sei discesa, la vettura da nolo t’ha ricondotta in piazza Mignanelli; non avevi moneta spicciola, poichè non si pensa mai a tutto, hai date dieci lire al cocchiere, sei subito uscita dalla grande porta di piazza di Spagna, sei montata nella vittoria, che ti ha condotta per venti minuti alla Villa Borghese, d’onde sei ritornata subito qui.
Ella era scivolata sul tappeto e gli stendeva le braccia mormorando:
— Perdonami, perdonami, era la prima volta!
— La prima volta, lo so. Mario Torresparda ti fa la corte da luglio, quando eri a Livorno; cominciò una sera di plenilunio; fu niente, prima, uno scherzo, poi dalla Svizzera dove era lui, in Sabbina dove eri tu, ti ha scritto prima spesso, poi ogni giorno. Hai sempre risposto; saranno state da cinquantadue a cinquantacinque fra lettere e biglietti. Qui vi siete visti due volte, al Pincio, di mattina, venerdì diciotto novembre e domenica ventotto. D’allora gli prometteste d’andare da lui, ma hai già mancato di parola due volte, lunedì e giovedì della settimana scorsa. Oggi finalmente ci sei andata per la prima, volta.
— Oh Riccardo, oh Riccardo! — singhiozzava donna Livia come un bambino — Perchè non mi uccidi, invece di dirmi queste cose?
— No, mia cara, io non ho l’abitudine di ammazzare nessuno e non voglio cominciare adesso, io. I mariti che uccidono le mogli si vedono nei romanzi di Ohnet e nei drammi del medesimo autore. Io non sono di questo parere: ho certe mie idee sull’onore che trovo inutile di sottometterti, perchè tu non le intenderesti. Sangue, no; non vale la pena, cara. Ci siamo voluti bene, prima e dopo il matrimonio, per un bel pezzo; poi tu non me ne hai voluto più, come è perfettamente naturale, e naturalmente ne hai voluto ad un altro. Non mi parlare di lotta, di battaglia, di acciecamento, di passione contrastata; non servirebbe a nulla, io non ci credo. Gli amori finiscono, ed è logico che sia così. Il tuo, per me, è durato abbastanza, mi pare. — Non mi lagno, come vedi; tu non hai fatto nulla di irregolare; anzi con quella lunga abitudine femminile, per quella tradizione a cui non mancate mai voialtre, per quel raffinato gusto per cui siete tanto seducenti, tu hai scelto il mio buon amico Mario Torresparda. Io gli volevo bene a Mario Torresparda, e glie ne voglio ancora. Non mi batterò mica con lui, per dar gusto a te ed al pubblico. Vuoi forse dirmi che egli ti ha sedotta? No, cara, non è vero: forse tu stessa credi che sia così, sei in buona fede; ma disilluditi, sono le donne che cominciano sempre a sedurre, e l’uomo si lascia prendere. Che colpa ha Mario Torresparda? Nessuna. Ha trovato una donna che faceva la civetta con lui, si è lasciato invescare, poveretto, si è innamorato. Lo compatisco, esser l’amante di una donna maritata non è molto piacevole, è una posizione piena di fastidi.
— Oh come hai ragione di disprezzarmi! — singhiozzò lei.
— No, cara. Io non ho nessun sentimento a tuo riguardo. Mi sono informato del tuo amore, per sapere la verità, per semplice bisogno di posizioni nette. Ora, per l’avvenire, fa quel che ti piace, io non mi prenderò neppur la pena di appurarlo. Ti avverto però che Mario Torresparda è innamorato sul serio di te, e fargli subito un tiro non sarebbe umano. Addio, son le sette, vado a pranzo; buon appetito.
— Non mi perdonerai mai? — gridò essa, afferrandolo per un braccio.
— Ma che perdono? Non ve n’è bisogno punto. Trovo, così, in massima generale, che noialtri uomini abbiamo torto a pigliarvi sul serio e a sposarvi in conseguenza. Se questa è una scortesia, scusami tanto. Vado, perchè son le sette. Verrò da Paola, dopo, a prenderti. Buona sera. . . . . . . . . . . . . . . . . .
— Il pranzo è pronto — disse il servitore entrando.
Donna Livia, seduta sul tappeto, guardando il fuoco che moriva, pensava
quanto suo marito, don Riccardo, fosse più chic di Mario Torresparda.IDEALE.