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XII.
All’indomani mi recai a visitare il colonnello, capo del servizio a cui era stato destinato.
Egli era uomo di circa sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. Come in gran parte delle nature deboli, quell’assenza di forza era compensata da molta dolcezza d’animo, e da una specie d’ingenuità che rasentava quasi l’ignoranza, tanto era straordinaria in un uomo di quell’età e di quella professione. Aveva indole allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d’uomini, doppiamente straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto.
Un’avventura successami due anni prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con un’estrema temerità, e l’aveva avuta salva in modo singolarissimo — avventura troppo impressa nelle mie memorie, perché mi giovi l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva creato nell’esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona.
Fu forse a tale prevenzione che io fui debitore dell’accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello.
— Noi ci troviamo qui — diss’egli dopo avermi parlato a lungo di molte cose — come fossimo in un villaggio di Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente.
— Sono tuttora all’albergo — io dissi.
— All’albergo! E come vi avete mangiato?
— Non so...; parmi pessimamente. Il colonnello sembrò un poco meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo orologio, e riprese:
— Non mancano che pochi minuti alle cinque. Vi invito a pranzare con me, in mia casa, accettate?
— Accetto — risposi io inchinandomi.
Dopo qualche istante uscimmo.
— Noi facciamo una piccola mensa in famiglia — continuò egli lungo la via. — Propriamente parlando, non posso dire di aver famiglia, ma ho meco una mia parente che ne tiene le veci, benché la poveretta sia di salute così cagionevole da darmi più pensieri che non me ne tolga. È una mensa abbastanza modesta. Qui non vi sono che pessimi elementi di cucina, la verdura sopratutto è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete… Già, alla mia età, il bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della compagnia; vi vengono due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento, due medici borghesi; siamo in otto in tutto. I medici poi — egli riprese — affluiscono a casa mia come in un ospitale. Mia cugina è la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso, come si espresse ultimamente un dottore che l’ha visitata. Ve la farò conoscere. Avrei potuto mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne avrebbe avuto gran cura, giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so separarmene; a sessant’anni si vive di abitudini; e poi quest’aria morta le giova, e anche questo paese di Pellirosse non le dispiace.
Giungemmo in breve alla sua abitazione.
Il pranzo fu allegro, eccellente, condito di molta maldicenza, di frizzi, e di quelle frasi equivoche e poco castigate che s’ascoltano per solito tra militari.
Vicino a me era un coperto intatto, e ne feci l’osservazione. — È il posto della signora Fosca — mi disse uno dei commensali.
— Di mia cugina; — aggiunse il colonnello — essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non sta meglio del solito. Mi dispiace che non l’abbiate veduta, è della voracità di una mosca.
Allorché ci fummo alzati da tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe sparate, e colle mani incrociate dietro la schiena, e mi chiese:
— E così, come avete pranzato?
— Ottimamente.
— Davvero?
— Diamine, a meraviglia!
— E che ve ne pare di questo locale?
— Magnifico.
— Di questa nostra società?
— Ne sono lusingato — diss’io.
— Francamente, senza complimenti, da amici — riprese egli drizzandosi e riunendo le sue gambe colla vivacità dello scatto di una molla; e levandosi la mano destra di dietro la schiena, e porgendomela, aggiunse:
— Se volete far parte della nostra mensa, se volete aggregarvi a noi… non avete a temere per la vostra borsa, la base fondamentale della nostra associazione è l’economia. Già… È un sentimento di carità che mi consiglia a farvi questa proposta… E anche di simpatia — continuò porgendomi l’altra mano. — Pensateci bene, noi vi parliamo per esperienza… in questo paese di Pellirosse…
Era un’offerta che non poteva in alcun modo declinare.
Accettai benché a malincuore.