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XI.
Allorchè io giunsi a ***, nonostante il dolore di quella separazione improvvisa, poteva quasi dirmi felice. Allora io era ancora pieno di fede; era guarito da una malattia che aveva creduto mortale, aveva trovato uomini e cose benigne; e pareva che la fortuna avesse voluto porgermi di nuovo una mano amichevole. Quella prima lettera che di là aveva scritta a Clara, non era che una prova della mia felicità. I miei dolori erano di quelli che sopravanzano in dolcezza tutte le gioie possibili della vita, quelli che intessono i fiori più belli nella corona della gioventù, la sola età dell’esistenza in cui si sappia veramente amare e soffrire.
La piccola città di *** — ne taccio il nome perchè potrei smarrire queste pagine, e ho caro che niuno conosca il luogo dove ho sofferto, e dove vi è una tomba su cui posso recarmi qualche volta a piangere — è una città angusta e monotona, posta vicino al letto di un fiume quasi sempre asciutto. I dintorni sono una specie di landa, una pianura sabbiosa ed estesissima, tanto poveramente coltivata da non vedervi che pochi olmi tortuosi e pochi filari di gelsi intisichiti. Capitandovi a caso, si crederebbe di aver messo piede in una steppa o in una savana piuttosto che in un lembo di pianura rasente le alpi. Nè gli uomini erano allora più cortesi della natura. Ogni socievolezza, ogni agio della vita, o meglio ogni esuberanza di agio, vi era bandita. Da quella città a Milano corre per lo meno tanto quanto da Milano a Londra. Un villaggio qualunque di Lombardia potrebbe offrire un soggiorno meno sgradevole di quella piccola città, per la cui posizione strategica vi s’era posta la sede di un dipartimento militare.
Alzatomi, e scritta quella lettera a Clara, consumai il resto di quel primo giorno a girovagare per le vie e ad osservare i dintorni monotoni di quel paese. Benché scoprissi in quel deserto una specie di oasi, un vecchio giardino incantevole, doppiamente incantevole perché abbandonato da anni all’opera distruttrice del tempo e a quella liberamente riparatrice della natura, fui lieto dell’esito di quell’esame, che, come ho detto, era non poco sconfortante. Una città fragorosa mi avrebbe distolto da quella passione per cui aveva d’uopo di raccoglimento e di pace; una natura più ricca mi avrebbe fatto sentire con maggiore intensità il dolore della sua lontananza, giacché le più belle memorie del nostro affetto si legavano in qualche modo alla natura.
Fui lieto di poter raccogliere e versare in me stesso tutta la mia fiamma, di alimentarla col suo fuoco medesimo, di non poter perdere né menomare alcuna delle sensazioni che avrebbe risvegliata in me l’opera assiduamente attiva di quel pensiero.
Chiudermi in una stanza, e popolarla dei fantasmi del mio amore — era il mio voto. Vivere a me, e a lei. — Vivere solo.
Io comprendeva che le sarei stato tanto più dappresso, quanto più mi sarei trovato lontano da ogni altra creatura.
Allora era ancora capace di creare intorno a me dei mondi.