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Capitolo XV
Capitolo XIV Capitolo XVI

XV.

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.

Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa.

Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare un’idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Nè tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — chè anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi, che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualche cosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donno di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.

Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifizii, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.

Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorchè fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:

— Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre così malata!

Fui colpito dalla soavità della sua voce, più ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.

— Ora mi sembrate però guarita, risposi io.

— Guarita! esclamò ella sorridendo; mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo, converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversalo un periodo di profonda malinconia.

Vedendo che la conversazione minacciava si presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.

— Non sapete, riprese ella dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce, che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.

— Avete avuto troppa premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.

— È vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.

— Parmi anzi utile.

— Utile sì, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per... me. Vi sono delle letture che mi fanno male.

— Voi sapete, io dissi per tenermi da capo sulle generali, che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?

Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: « Altro è l’uomo, altro le sue opere », e riprese:

— Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che un solo, e questo fosse tale da instillarci principii retti e da fortifìcarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non’ ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce al suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obbiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia — non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina — ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?

— Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri sieno innocenti?

— O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatorii; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.

— Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero, io dissi; ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.

— Sorvolo sui libri, rispose ella mestamente, come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me.

Ho letto una volta di un fiore, la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo nè per imparare, nè per pensare — abborro i libri di morale e di metafisica — leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. È tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete, aggiunse ella con aria di mesta ironia, il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.

— E perchè? risposi io confuso e commosso da quelle parole. Se siete inferma, guarirete; la vita ha dolcezze per tutti, ne ha di quelle assai intime che nè gli uomini, nè le sventure ci possono togliere — il piacere di beneficare.

— Beneficare! interruppe essa: ho provato. Ho gettato i miei gioielli e i miei abiti di seta dinanzi ad una folla di infelici che mi laceravano il cuore collo spettacolo della loro miseria. È dolce, ma non basta. L’esistenza non può essere tutta un sacrificio. La pietà non è che amore passivo, amore morto.

— È però sempre un aspetto dell’amore, io dissi, nè lo possiamo credere un affetto solitario se lo vediamo ricompensato dalla gratitudine.

— Credo più presto alla gratitudine dell’amore che a quella del beneficio, rispose ella.

Io tacqui. Successe un istante di silenzio. Ad un tratto — o volesse ella vendicarsi dei tentativi che io aveva fatto per deviare la conversazione da quel soggetto, ora che me ne vedeva infervorato, o si dolesse realmente d’esservisi lasciata andare — proruppe in uno scroscio di risa, e disse:

— Sono pazza io! In che discorso vi ho mai trascinato!

Capisco che con me si può camminare impunemente anche su questa china sdrucciolevole; ad ogni modo... È molto tempo che siete arrivato qui? Avete veduto tutta la città? Vi piace?

— Da pochi giorni... e ho girovagato un poco per le vie. Sono del parere di vostro cugino...

— Un paese di Barberìa?

— E di Pellirosse!

Sorridemmo tutti e due, e credo l’una e l’altro per cortesia.

— Siete stato al giardino?

— Una volta. — E al castello.

— Vi è un castello?

— Diamine! Avete visitato il paese ad occhi chiusi.

Ho pregato mio cugino di condurmivi stasera. Se volete farci l’onore di accompagnarci...

— Molto volontieri, ve ne ringrazio — e diceva la più solenne menzogna del mondo. — Dacché ho lasciato Milano, sono vissuto in un isolamento il più rigoroso, ho paura di ammalarmi di solipsia; ma come uscir fuori di questo paese? La campagna è una landa, una brughiera; non vi è un’ombra, non vi ho ancora veduto un giardino, un flore; io che vo’ pazzo dei fiori come le femmine. Sta bene che siamo in agosto...

Fosca si alzò senza dir nulla, entrò nella stanza vicina, e ritornò subito, tenendo in mano un mazzetto piccolissimo di fiori che mi offerse senza parlare.

Quell’atto mi sorprese e mi turbò nel più profondo dell’anima. La sua offerta era stata fatta tanto opportunamente e con tanta delicatezza che ne fui colpito. Ella s’avvide forse del mio turbamento, e si affrettò a dire come per togliermi d’imbarazzo:

— Anch’io amo molto i fiori, e se fossi sana vorrei coltivarne; ma se ne trovano parecchi che sono ingrati, e mi procurano delle terribili emicranie coi loro profumi.

Anche la società dei fiori è qualche volta pericolosa.

E vedendo che m’era alzato e aveva preso il mio cappello per uscire, aggiunse avvicinandosi alla finestra che era aperta:

— Guardate, abbiamo li, nel palazzo di fronte, una serra magnifica, delle petunie, una collezione di cardenie...

Così dicendo ci eravamo appoggiati al parapetto. In quel momento passava sulla via, e proprio in faccia a noi, un convoglio funerario.

Ella lo vide, impallidì, retrocesse, si cacciò le mani nei capelli, emise un urlo terribile, e cadde rovesciata sul pavimento.

Le sue cameriere accorsero e la trasportarono nelle sue stanze in preda alle convulsioni più violente.

Io uscii da quella casa quasi insensato.

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