< Fosca
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Capitolo XVI
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XVI.


Credeva che questo avvenimento le avrebbe impedito d’uscire, e ne sarei stato lieto, giacché avevo ricevuto in quel giorno una lettera di Clara, e mi sentiva l’anima tutta ripiena in lei. Avrei bensì desiderato di recarmi n quel giardino, ma avrei voluto andarvi solo; aveva bisogno di pensare, di ricordare, di fantasticare a mio talento.

In quel momento la compagnia stessa di Clara mi sarebbe forse stata meno piacevole della sua memoria. Più volte a Milano aveva cercato qualche pretesto onde allontanarmi da lei, allo scopo di ritirarmi nella mia stanza e pensarci liberamente. L’amore ha spesso bisogno di ripiegarsi su sè medesimo.

In quel giorno Fosca venne invece a sedersi a tavola vicino a me; e benché apparisse estremamente sofferente, si adoprò a tenerci lieti, e a rinfocare la conversazione con mille artifizii ingegnosissimi ogni qualvolta mostrava di languire.

11 suo spirito non era superficiale, la sua intelligenza era assai più profonda di quanto non lo sia ordinariamente un’intelligenza di donna: essa aveva del talento, e una distinzione di modi affatto speciale. Non poteva però indovinare se quel suo dissimulare tali virtù, quell’aria di non avvertirle, fosse vera inconsapevolezza, o artifizio.

Uscimmo come s’era convenuto. Il colonnello avendo incontrato per via un suo amico, si accompagnò con esso, e mi disse:

— Siete un cattivo cavaliere; mia cugina non è troppo sicura delle sue gambe, datele il braccio.

Così rimasi solo con essa.

Dacché aveva lasciato Clara non aveva più dato il braccio ad una donna; ed erano parecchi anni che, lei toltane, non m’era trovato in questa specie di contatto con una di loro. Camminammo per qualche tempo senza parlare. Fosca era assai mesta.

— Stamattina vi ho forse spaventato, mi diss’ella con dolcezza, ne fui afflitta per voi, molto afflitta; ma chi l’avrebbe preveduto? Fu una sorpresa così triste! Non ho molta paura di morire, ve lo giuro, benché sappia chili ori ho più gran tempo a vivere; ma ho paura di tutto ciò che accompagna e segue la morte: quel vedersi chiusi tra quattro tavole, quel sentirsi buttare la terra addosso, quel disfarsi... tutto ciò è troppo orribile! Se si potesse morire improvvisamente, nella pienezza della gioventù e della salute, e se la morte fosse un annichilimento istantaneo, io l’avrei implorata di già come una benedizione!

— Ma questi pensieri vi fanno male, io le risposi.

Perchè pensare a queste cose? Non vedo nella vostra salute motivo di tanta apprensione — e anche qui sapeva di mentire. — Mi avete fatto pena, è vero, ma non mi avete spaventato, perchè sapeva che non v’era in ciò alcun pericolo.

— Ve l’avevano già detto?

— Sì.

— Mi avevate già sentita? — Sì.

— Eppure...

S’interruppe, e tacque.

Continuammo a camminare in silenzio. Io era tutto immerso nell’egoismo del mio amore. Pensava a Clara, non poteva distaccarne il mio pensiero. L’aver una donna al mio fianco, una donna vestita con eleganza, che posava il suo braccio sul mio — un braccio fino, esile, leggiero — che mi toccava collo strascico del suo abito; e camminare con essa in un luogo solitario, sotto gli alberi, era cosa che accresceva del doppio la mia illusione.

Non solo io non poteva arrestare il mio pensiero su Fosca, ma la mia mente si valeva di lei come di una guida in quella ricerca smaniosa delle sue memorie. Che quella donna fosse poi brutta, orribilmente brutta, non ci pensava. Sapeva tanto illudermi da dimenticarlo.

Una cosa sopratutto contribuiva a tenermi saldo nella mia illusione, una specie di profumo delicato, molle, voluttuoso che emanava dalla sua persona, e che aveva spesso sentito vicino a Clara. Gli abiti di seta riscaldati dal sole esalano questa fragranza elettrizzante. Coloro che hanno passeggiato in giorni estivi con un’amante lo sanno; essi non passeranno mai dappresso ad una donna vestita di seta senza sentire quel profumo e senza ricordarsi di quei giorni.

Oltre a ciò le donne hanno un profumo a sè — non so come la scienza non abbia avvertito questo fenomeno che non sfugge all’amore — tutto ciò che esse toccano è profumato, tutti i luoghi per cui passano ritengono qualche poco della loro fraganza. Non ho mai potuto ricordarmi bene di mia madre, che perdetti fanciullo, se non baciando un fazzoletto che mi è rimasto di lei, e che ritiene ancora, dopo tanti anni, le reliquie del suo profumo di santa. Era troppo tardi per recarci a visitare il castello; entrammo nel giardino.

Non aveva veduto mai prima di quel giorno un luogo così incantevole, cosi pieno di maestosa orribilità. In quelle mie prime escursioni non ne aveva visitate che alcune parti. Non v’erano nè aiuole, nè fiori, ma spalliere gigantesche di carpini, viali ampii e lunghissimi fiancheggiati da ippocastani secolari, e gruppi di olmi cadenti per vecchiezza l’uno sull’altro. Nel mezzo vi era un lago estesissimo, la cui acqua corrotta dal ristagno e dalle foglie che vi s’erano infracidile, non aveva più alcuna trasparenza; a quando a quando il vento vi faceva cadere dagli alberi i rami secchi, schiantali dal turbine, e appena ne sollevavano le onde, tanto erano dense ed immobili. Piccoli serpentelli d’acqua scivolavano in mezzo alle foglie delle ninfee. Dappertutto statue mutilate, annerite dalle pioggie, coperte di musco e di acetose; cippi e basi di colonne sepolte in mezzo alle ellere; avanzi di aquedotti, tra le cui screpolature crescevano ranuncoli e capelveneri. Da un lato v’erano pure le rovine d’un tempio pagano, sulla cui sommità aveva posto radice un ulivo; grosse lucertole uscivano e entravano dalle fessure delle pareti smattonate. L’umidità e l’ombra vi erano si costanti che in pieno agosto vi fiorivano le viole; ed erano tante che il suolo pareva coperto di un tappeto azzurro, se non che non avevano profumo.

Non si sentiva che il canto d’una sola specie di uccelli (non vi intesi mai altro uccello a cantare, nè ne vidi d’altra sorta in tutte le volte che mi recai a passeggiarvi), ed erano certi scriccioli non più grandi d’una farfalla. Il loro canto era un fischio lamentevole e pieno di malinconia. Gli uccelli più piccoli dì quel paese ne abitavano gli alberi più grandi.

In quel momento il sole era presso a tramontare, e vi gettava orizzontalmente alcuni de’ suoi raggi. Le sommità delle piante erano talmente ampie, e avevano talmente intrecciato i loro rami che vi raccoglievano e vi trattenevano quasi tutta quella luce, come sotto un padiglione di verzura impenetrabile. Quegli effetti di sole erano meravigliosi. La mia anima era rapita da quello spettacolo. Se Clara fosse stata con mel... Le ultime parole che mi aveva detto Fosca risuonavano ancora al mio orecchio come un eco, aveva ancora nel cuore qualche cosa della sensazione che ne aveva ricevuto.

— Come! proruppi io improvvisamente quasi per rispondere a me stesso e a’ suoi dubbii sconfortanti, come si può pensare a morire quando tutto ciò che ci circonda è così pieno di vita, è così bello; quando vi è ancora tanta parte di esistenza innanzi a noi? Guardate questi alberi, questo tappeto di viole, questo orizzonte... Non vi pare che la sola sensazione dell’esistere, il vedere, il sentire, il toccare, il muoversi, il respirare in questo luogo sia tal cosa che debba renderci allettante la vita?

— Perchè non avete aggiunto, pensare?

— I pensieri che nascono dalla contemplazione della natura non possono non essere che sereni.

— Voi non conoscete tutti gli abissi del pensiero.

— Forse...

— Nè le sue torture.

— Queste sì, conosco però anche le sue dolcezze.

— Io non le ho mai conosciute.

— Vorrei dirvi ingiusta. Sono convinto che non vi è assoluta infelicità, nè felicità assoluta. L’eredità di beni e di mali che ci ha legato la natura, può eccedere o difettare nella misura di questi o di quelli, ma ciascun uomo ne ha una parte — piccola o grande, ne ha una — non vi è esistenza così misera che non sia stata letificata un istante da un baleno di fugace felicità... Poc’anzi mi parlavate dei piaceri della fantasia. — Altro è immaginare, illudersi; altro è aver coscienza e sentimento di un bene reale. Vi fu un tempo in cui avrei accettato qualunque miseria, qualunque spasimo, a patto di sognare tutte le notti, di sognar sempre, di non vivere che di questa vita di illusioni. Allora non era ancora malata. I miei stessi mali mi hanno ora esaudita; la mia infermità mi procura ogni notte sonni convulsivi, periodi di assopimento febbrile, nei quali ripassano innanzi a me tutte le scene, tutte le visioni, tutte le complicazioni possibili di questo mondo sterminato dei sogni. Ebbene, lo credereste? Non ne ho più alcuna gioia, spesso anzi mi disgustano, mi tediano. Noi viviamo in un mondo reale, dobbiamo afferrare il reale, il concreto.

— Esso è sempre inferiore all’ideale.

— Non importa. Chi non preferirebbe all’immagine di un bene smisurato, il possesso di un bene anche minimo?

— Tutto ciò è relativo; — io dissi — gli aspetti e le sorgenti della felicità sono molteplici, chi si reputa avventurato in una maniera, chi in un’altra; la maggior parte degli uomini lo sono in modi opposti o diversissimi. Non vi è che un mezzo comune, facile, sicuro di essere felici.

— Quale?

— Amare.

Essa tacque, e sentii il suo braccio pesare con maggior abbandono sul mio.

— Amare! — ripeté ella dopo qualche istante. — Che cosa avete inteso di dire? Spiegatevi.

— Credeva di essermi giovato di una parola assai semplice — dissi io. — Se non ne comprendete il valore, le mie spiegazioni non avrebbero alcun frutto.

Ella sorrise a fior di labbra, e riprese:

— Intendete di escludere le piccole simpatie, le amicizie, gli affetti domestici? Amare è una parola assai generica.

— Assai esclusiva all’età vostra. Non escludo gli affetti che voi dite; ma non li considero che come una sfumatura, come una eccedenza, come la cornice del quadro. Forse anzi m’inganno, essi hanno natura oppostissima. Dicendo amore intendo amore.

E ripresi col pensiero rivolto a Clara:

— Intendo l’amore che sentiamo alla nostra età, noi, giovani, ardenti, immaginosi; quell’amore che è superioie^ajtutto, che^sfida cizie, gli affetti domestici? Amare è una parola assai generica.

— Assai esclusiva all’età vostra. Non escludo gli affetti che voi dite; ma non li considero che come una sfumatura, come una eccedenza, come la cornice del quadro. Forse anzi m’inganno, essi hanno natura oppostissima. Dicendo amore intendo amore.

E ripresi col pensiero rivolto a Clara:

— Intendo l’amore che sentiamo alla nostra età, noi, giovani, ardenti, immaginosi; quell’amore che è superiore a tutto, che sfida tutto, che è tutto; quella fusione piena di due anime che fa vivere la stessa vita, pensare gli stessi pensieri, volere le stesse volontà, desiderare gli stessi desideri; quel periodo di acciecamento e di ebbrezza in cui tutto è bello, tutto è nobile e puro, tutto è felice; giacché l’amore non è che un grande acciecamento ed una grande ebbrezza!

— Ah, sì! — esclamò ella sommessamente, e come parlasse a se stessa — quello è l’amore.

— E credete, — continuai io senza avvedermi del male che le facevano le mie parole — credete che la vita avrebbe qualche attrattiva se vuota di questo sentimento che l’occupa tutta; nella fanciullezza col desiderio, nella gioventù colla fruizione, nella vecchiezza colle memorie? Credete che questo mondo ci parrebbe sì bello e sì buono, se non avesse questa luce e questo profumo? Che questo stesso luogo dove siamo ora mi sembrerebbe così incantevole, se non lo vedessi attraverso questo prisma abbagliante?

— Voi!... — esclamò ella — voi lo vedete…

E s’interruppe di nuovo angosciosamente.

Eravamo arrivati in quel punto nel mezzo di una crociera ove sorgeva un monumento di marmo. Sopra una fronte di esso, rimasta intatta, erano scritti a matita molli nomi che il tempo aveva in parie cancellali: due righe sole parevano recenti e dicevano: 22 agosto 1863.

Giulio e Teresaamanti e sposi felici.

Mentre Fosca me le indicava col dito, sentiva la sua persona pesare sopra la mia con abbandono. Non era effetto di voluttà, ma prostrazione, abbattimento improvviso.

Quanto a me, quelle parole mi avevano colpito più intimamente: la mia situazione era tale da sentire più al vivo quel richiamo: «amanti e sposi,» noi non eravamo che amanti, noi, io e Clara, non saremmo stati sposi mai; il npstro stesso amore non era che una colpa, che una violazione di quella legittima felicità di cui godevano quei due ignoti. Essi erano stati in quell’eliso quattro soli giorni prima di noi — era allora il ventisei agosto, me ne ricordo bene — come dovevano esservisi sentiti felici! Correre lungo quei viali, nascondervisi dietro i carpini; chiamarsi, inseguirsi, sedersi su quelle viole; oppure passeggiarvi a braccio, vicini vicini, colle teste che si toccano, colle mani intrecciate; e parlare di cose malinconiche, di ammalarsi, di morire... «prima io; no, prima io... assieme...» E mi veniva in mente che quattro giorni prima era stato un bel giorno quieto, fresco, sereno, e il sole doveva essere tramontato, come allora, in un oceano di raggi infuocati, e quel luogo doveva essere stato bello, severo, incantevole come in quel momento.

L’immagine di quella felicità era venuta a colpirmi nella pienezza della mia baldanza. Non invidiava quelle due creature, ma mi faceva male il pensare che v’erano al mondo esseri tanto più felici di me.

Avvenne una reazione istantanea nelle mie idee; mi riebbi subito da quella specie di allucinazione che mi aveva dominato fino allora, pensai al discorso tenuto con Fosca, e ne sentii pentimento. Meditava sul modo di dirglielo opportunamente, allorché essendo stati raggiunti da suo cugino che discuteva forte col suo amico intorno ad un quesito di strategia, essa gli disse:

— Mi sento male, torniamo a casa.

Il colonnello si rivolse senza risponderle, tutto infervorato come era nella sua discussione.

— Vi sentite male ? le chiesi io con dolcezza. Mio Dio! forse le mie parole..., i discorsi insensati che abbiamo tenuto finora...

— Voi siete ben crudele, diss’ella.

E parve che non potesse continuare.

— Crudele, esclamai io, e perchè? Non vi comprendo.

— Voi non sapete quanto mi avete fatto soffrire. O siete incredibilmente ingenuo, o incredibilmente cattivo.

Parlarmi d’amore, di felicità, parlarmene in tal guisa...

(E si calò il velo del cappello, non so se per nascondere la sua emozione, o per celarmi la sua bruttezza in un momento in cui stava per trionfare della mia pietà).

Non comprendevate quanto mi dovevano far male quelle parole?

— Perdonate, io dissi con accento commosso, vi giuro che era ben lungi dal sospettarlo: mi avviene spesso di parlare inconsideratamente...

E avrei voluto aggiungere: «Voi mi avete però provocato.» Ma me ne astenni.

— Sentite, diss’ella cercando la mia mano colla mano del braccio che aveva fatto passare nel mio — una mano secca, lunga, leggiera — e stringendola a intervalli convulsivamente.

Qualche giorno vi farò delle confidenze, vi racconterò la mia vita; voi me lo permetterete, non è vero? Ho bisogno del vostro compianto. Avete un’aria così dolce, così buona. Ve lo confesserò: io vi ho veduto fino dal primo momento che siete venuto in nostra casa, vi vedeva tutti i giorni, e non usciva mai dalla mia stanza perchè aveva vergogna di voi, temeva di dispiacervi, sono così brutta ! Mio cugino non è cattivo, mi vuol bene, ma non mi sa comprendere; gli altri sono gente grossolana, buoni, ma rozzi — soldati! Non vi siete che voi che possa capirmi, sopportarmi senza umiliarmi, compiangermi. Perchè non v’ha alcuno tra essi che non mi rispetti, è vero, ma in segreto mi deridono, ne sono ben certa, lo sento.

Dicono che sono dispettosa, volubile, ironica, spesso cattiva.

Son essi, è il mondo che mi ha fatta diventare cosi, mi conoscerete. Ho bisogno di essere conosciuta, capita.

Voi non potete immaginare come questi uomini che dicono di saper tante cose, che sembrano conoscere il mondo sì bene, e ne ridono, sieno poi tanto ignoranti, tanto superficiali nella scienza del cuore umano. S’illudono perchè si conoscono tra loro, e si conoscono tra loro perchè sono tutti eguali! Voi siete diverso, voi; mi è bastato vedervi per comprenderlo. Non vi domando che la vostra protezione, la vostra tolleranza. Ho qui nel cuore tante cose che mi fanno male, perchè non le posso mai dire; e poi lo vedete, sono malata, sono anche brutta, assai brutta, dovete aver compassione di me... quella compassione amorevole, generosa, sincera che non ho trovato mai, mai, e di cui sento tanto bisogno. Non mi rifiuterete la vostra pietà, ditelo, non me la rifiuterete!

— Buona creatura, esclamai io profondamente commosso, si, avrete tutta la mia amicizia, tutta la mia confidenza; avrò anch’io tante cose a dirvi; sarò felice di avere un’amica...

E trovandomi imbarazzato a continuare, strinsi calorosamente la mano che ella aveva posto nella mia.

— La vostra mano è ardente.

— Ho la febbre, l’ho sempre.

— Sentite, riprese ella dopo qualche istante, ho sogno di giustificarmi con voi, sento che ne ho il diritto e il dovere. Se oggi stesso, il primo giorno in cui vi ho veduto, ho osato tenere con voi alcuni discorsi che nessun’altra donna avrebbe tenuto, e ho voluto quasi provocarli, l’ho fatto perchè la mia bruttezza mi garantiva contro tutti i pericoli di una simile discussione, e anche contro il sospetto di essermivi abbandonata per uno scopo biasimevole. La mia deformità ha almeno questo vantaggio.

Ora, proseguì Fosca vedendo che non eravamo più che a pochi passi dalla sua casa, dovete promettere di perdonarmi la prima colpa che ho commesso a vostro riguardo.

— Quale! una colpa!

— Promettetelo prima.

— Con tutta l’anima.

— Quella di avervi fatto uscire con me. È una ferita che ho recato al vostro amor proprio e so quanto ciò vi possa essere dispiaciuto. Non tentate di farmi credere il contrario.

— Non lo farò, io le dissi (giacché mi vedeva posto nel caso di dire una nuova menzogna), non lo farò perchè me lo proibite, ma...

Essa mi guardò e sorrise tristamente, come avesse voluto dirmi:

— È vero, perciò non lo fate.

In quel momento avevamo raggiunto il colonnello ed il suo amico che si erano fermati alla porta ad aspettarci.

— Sapreste dirmi, mi chiese il colonnello col volto arrossato dalla discussione avuta col suo compagno, se fu De-Fauchée l’inventore delle capsule a secco, o piuttosto se non fu lui che le ha perfezionate? — Egli ne fu l’inventore.

— Lo sapete positivamente?

— Positivamente.

— Al diavolo! disse il suo amico.

— Benissimo! esclamò il colonnello fregandosi le mani, sei bottiglie di madera guadagnate!

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