< Galatea (Barrili)
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IV VI

V.

All’altra bellissima ottava.

17 luglio 18...

Sì, diciamolo pure, che perditempi! E vanno proprio notati nel memoriale. Questo, davvero, meglio delle mie lettere a Filippo Ferri, vuol riuscire il “Giornale di Corsenna„.

Ieri mattina alle sei, puntuale come un creditore, mi sono presentato in armi sulla piazza. Avrei voluto fare più nobili apparecchi di vestiario; ma poi ho pensato che si andava in montagna, che ero io l’invitato e non il mio abito, che finalmente il mio tutto vestito di tela era decentissimo, e il far novità sarebbe parso un atto di debolezza. Così non ho mutato niente del mio fornimento; solo v’ho aggiunto un bel fiocco di cravatta a capi svolazzanti, che facesse un pochino di spicco, dando tono e grazia a tutto il restante.

Sciocchezze! ma chi non ne fa non ne conta.

C’erano le Berti, mamma, tre figliuole e due ragazzi, come a dire la chioccia e i pulcini. C’era la segretaria comunale, ma senza la sindachessa, che non aveva potuto muoversi da casa, essendo indisposto il primo magistrato di Corsenna. Si prevedeva, del resto; non già che fosse indisposto il sindaco, ma che la sindachessa, dopo aver detto di sì, facesse di no: era quello il suo modo di affermare la propria importanza. Giungevano in quel punto le Wilson, madre e figliuola; si faceva aspettare mezz’ora buona la contessa Quarneri, luminosa bellezza che non era mai pronta, ed aveva bisogno di comparire ultima sull’orizzonte, da quell’astro che era, e accompagnata dai suoi satelliti, come è costume degli astri. Appena giunta lei, ci mettemmo in cammino. Ricorderò, per amor d’esattezza, il commendator Matteini, un gentiluomo che ha conservato per trentacinque anni le patrie ipoteche, ed ora con eguale pertinacia conserva le sue fedine bionde, facendo il bello con la modesta gravità dell’uomo che non vuol dare importanza soverchia a questo dono di natura. Brav’uomo, del resto, e niente noioso, neanche quando parla del tempo ch’egli era di posto a Bologna; la “città dell’anima„ com’egli la chiama, accompagnando la frase con una certa allargata di mantici e con certi stravolgimenti d’occhi, da lasciar balenare Dio sa quali ipoteche; radiate, speriamo, radiate oramai.

I vecchi son giovani, viva la faccia loro; ma chi sarà vecchio, se non ci si mettono i giovani? Ecco appunto Terenzio Spazzòli, che tiene nobilmente il suo posto di vecchio, senza averne l’età; Terenzio Spazzòli, senz’altri titoli, nè personali, nè ereditarii. Ma quello ha l’aria d’esser tutto; indispensabile in società, gran velocipedista nel cospetto delle tribune, gran guidatore di cotillons nelle feste, gran mastro di campo in tutte le giostre, socio nato di tutti i clubs che Dio misericordioso permette, di tutte le brigate “sportive„ che sanno architettare e favorire le donne, queste graziose emulatrici della onnipotenza divina. Severo nel vestire, inappuntabile, inimitabile, impareggiabile, come lo ha battezzato la signorina Wilson; angoloso, bislungo e magro, ma adatto come un attaccapanni a tutte le mode; parco di parole e di gesti; un po’ can barbone all’aspetto. Ha intera la barba, di fatti, ma rada, corta intorno alle guance, solamente più lunga e appuntata alla spagnuola sul mento; barba nera, aggiungo, che dà risalto ai denti bianchissimi, spesso e volentieri in mostra, come quelli di Buci. Anch’egli ha questo modo di ridere, a denti stretti, senza sonorità, senza spruzzi, manco male; e di ciò gli va data gran lode.

Mi fanno tutti di gran cortesie, non c’è che dire. La signora Berti e la signora Wilson, due mamme, mi prendono in mezzo, dopo che tutti gli altri mi hanno salutato; il commendator Matteini, con benevolenza tranquilla di capo d’ufficio in vacanza; Terenzio Spazzòli con gravità contegnosa, che potrebb’essere timidezza ed è forse degnazione; i tre satelliti della contessa Quarneri con pronta ed eguale affabilità, dopo che l’astro luminoso m’ha involto benignamente in un effluvio di pelle di Spagna, in una musica di paroline soavi, in un barbaglio di raggi e di sorrisi. Bravi, ragazzi; così va bene, senza dissonanze tra voi e senza sospetti per me. Ma dove mi sono imbarcato! Non vedo neanche il mio Buci, buon amico personale, e diciamo pure politico.

— Gliel’avevo fatto sperare; — trovò modo di dirmi la signorina Wilson, che pareva indovinare la causa della mia tristezza. — Ma il suo padrone è venuto iersera a ridomandarlo. Povero cane! non voleva spiccarsi da noi, temendo forse di buscarle. Ho ottenuto dal suo padrone che non lo bastonasse; quanto a lui, l’ho fatto andar più contento, promettendogli tutti gli avanzi della grande giornata. —

Gli avanzi promettono d’esser vistosi, perchè gli apparecchi son molti. C’è tutta una batteria di ceste, di canestri, di sporte, a cui bastano appena due muli e un somarello, fissati da Terenzio Spazzòli, nostro duca e signore. Come sempre avviene, l’asino è il più carico; del che non si duole. Con quei suoi passi corti e veloci, mossi a contrattempo, va sempre avanti a tutti, povero ciuco, e le sue grandi orecchie tese danno il buon esempio ai membruti compagni. Saltellano intanto le some; si sentono tintinnire le latte delle conserve, acciottolar le stoviglie, sgrigiolare gl’involti del pane, delle carni arrostite, lesse, salate. Fortuna che le bottiglie sono diligentemente impagliate, e i fiaschi bene affondati in grandi ceste di fieno. C’è un canestro che Terenzio Spazzòli ha fatto caricare con maggior cura; e non si sa che cosa ci sia dentro, e tutti muoiono dal desiderio di saperlo; ma l’inflessibile condottiero non si lascia smuovere da domande nè da supplicazioni; mostra i denti con una autorità inesorabile. Non vuole nemmeno che si parli di un altro carico misterioso, che dovrebb’essere la sua improvvisata più grande. È il più voluminoso, di fatti.

La mia mazza babilonese, tagliata in un ramo diritto di nocciuolo, ha destata la maraviglia delle signore. Ho dovuto spiegare perchè sia così lunga, e la signora Berti se n’è sbigottita. Ci son dunque molte serpi, in montagna? No, su per giù quante ce ne sono in pianura, e inoffensive, se mai, cioè non velenose; ma bisogna potersi guardare, e in questi casi un bastone lungo, pieghevole e rustico, val sempre meglio d’una corta e pulita mazza cittadinesca. Terenzio Spazzòli mi ha dato ragione, osservando giudiziosamente che male servirebbe in questi luoghi l’alpenstock, tanto di moda oggidì, ed anche fatto di bambù; vero arnese di parata, che nei passi difficili serve poco a sostenere, e nei brutti incontri, dovendo assestare due o tre colpi, si spezza, o alla men trista si sciupa; mentre un buon bastone egualmente lungo, di nocciuolo o di fràssino, sarebbe in ogni caso il più adatto.

Abiti convenienti per una gita in montagna sono stati messi fuori dalla contessa Quarneri, dalle signorine Berti e dalle due Wilson, madre e figliuola: cappellini semplici, senza sfoggio di nastri e di pennacchi, giacche alla marinara e gonne corte, che lasciano vedere i borzacchini di pelle chiara, allacciati sopra la noce del piede. Anche gli uomini tiroleggiano (concediamoci il gaudio d’un verbo nuovo), col fondo dei calzoni chiuso dentro le ghette, o dentro il collo delle scarpe da caccia; le giacche di panno bigio, tagliate a camiciotto e la cintura cucita addosso, per accoglierle in artistiche piegoline attorno alla vita. Il commendator Matteini è un poema; ha perfino la penna di pavone e il fiore stellato dell’edelweiss sulla testiera del suo cappello verde.

Nella prima ora del nostro viaggio eravamo tutti uniti in un solo drappello. A poco a poco, salendo la strada a ritroso del fiume, ci troviamo divisi in manipoli, secondo che hanno portato i capricci della conversazione, gli umori diversi e la maggiore o minore sveltezza delle gambe. Senza volerlo, io sono rimasto degli ultimi, colla Berti madre, che è la mia conoscenza più vecchia, e rappresenta del resto il maggior volume della brigata. La buona signora mi parla con arguta sincerità dei suoi ottantanove chilogrammi di peso, che non sono sempre piacevoli a portare: ma si consola pensando che erano già stati novantaquattro; ond’ella si è già liberata di cinque, e più spera di lasciarne in istrada, facendo continuamente del moto. Iddio l’esaudisca; ma per intanto ella viene ultima da per tutto.

E si sale ancora, si sale sempre su per la valle lunga; traversando paeselli e casolari; prendendo alcuni, un po’ per chiasso, un po’ per comodità, l’aiuto dei carri di contadini che si combinano per via; riunendosi qualche volta i manipoli sparsi, e separandosi da capo; ridendo tutti, chiacchierando, vociando, ammirando qua e là, facendo le maraviglie d’ogni più piccola cosa, e giurando che mai e poi mai si è fatta una più bella scampagnata. Così abbiamo passato l’ultimo ceppo di case, un mulino e una ferriera, dove la valle si fa più stretta e più fosca, e la via diventa un sentiero, tra macchie di ontàni, di querci e di fràssini, tra ciuffi d’eriche, di felci, di rovi, tra rumori continui di acque zampillanti, sussurranti, gorgoglianti d’ogni parte. La natura è qui d’una bellezza orrida, che piace assai, come tutti i contrasti. Il fiume, più ristretto d’alveo, si fa anche più capriccioso. Spesso il suo letto è quasi interamente attraversato da grossi petroni, impedito da balze e scogliere, ingombrato da massi tondeggianti come palle di bombarde spettacolose, non mai più viste, non mai più fabbricate. La signorina Wilson vuol sapere perchè quei massi rotondi, rugosi, di color rossastro si trovino là. Pietre cadute dai monti, risponde il commendator Matteini. Passi pei petroni, pei lastroni, per le falde e i macigni di calcare, che si vedono qua e là lungo il cammino, ancor male arrotondati dalle acque e dagli attriti del viaggio; ma quei massi tondeggianti appariscono più compatti e più antichi; son di granito, o di quarzo; centinaia di secoli li han visti così, e non sempre a quel posto. Io qui metto fuori la teorica dei massi erratici, lavorati e trasportati dagli immensi ghiacciai dell’epoca terziaria. Ciò mi solleva di qualche cubito nell’estimazione dei miei uditori; ci divento il geologo, lo scienziato della spedizione. A buon patto, non è vero? Ma io non ne abuso, e mi chiudo tosto in un prudente riserbo. Troppo vorrebbero saper ora da me le graziose signore, specie in materia di botanica, e più che io non mi ricordi d’averne imparato a pezzi e bocconi.

Seguendo i capricci del sentiero, si passa l’acqua almeno una dozzina di volte; si beve a tutti gli zampilli delle balze circostanti; si assaggiano tutti i frutti che offre la macchia. Abbondano le bagole, piccoli chicchi d’uva nera, che nascono dai ramicelli d’una specie di mirto, tanto graditi nell’autunno agli uccelli di passo; si trovano perfino le nespole selvatiche, piccine, ma più fresche al palato e più gustose delle domestiche. La signorina Wilson fruga per tutte le siepi, e ad ogni frutto che vede, domanda a me se può metterci il dente. “Mangi pure, signorina; queste bacche dal colore dell’indaco son le prune selvatiche, le madri delle nostre susine; asprigne, ma di gusto piacevole. Non ne abusi, per altro; si attacchi piuttosto alle fragole montanine, ai lamponi.„ Così ragionando, assaggiando di qua e di là il pasto degli uccelli, si sale, si sale ancora, fino al borro dove ha le sue sorgenti il fiume, diventato una cosa da nulla, e donde, chiuso il cammino dalla gran parete del monte, bisogna inerpicarsi da un lato sulla ripida costiera, per un sentiero a sghembi, che a vederlo di lì si direbbe un passo da capre. Ma ardito ci si arrampica il ciuco, e lo seguono i muli; ci arrampichiamo allegramente anche noi. La signora Berti è rimasta più ultima che mai; la regge e governa un fiero alpinista, il commendator Matteini. La contessa Quarneri ci ha i suoi tre satelliti; la segretaria comunale, la signora Wilson e le tre Berti, carine adolescenti, obbediscono ai cenni di Terenzio Spazzòli, sempre severo in ogni cosa che faccia, sempre sicuro di sè. I ragazzi trottano come puledri, ficcandosi tra i piedi dei grandi, inciampando, ruzzolando, saltellando e facendo il diavolo a quattro. Io prendo le mie vendette d’un troppo lungo restare in serrafila; sono in testa di colonna, e la signorina Wilson mi segue.

Gran montanara, gran camminatrice nel cospetto di Dio! E non suda, o non pare, mentre io grondo come una fonte. Ma è questo il mio solito; e non mi sento men forte, per ciò, meno voglioso di muovermi. In questo essa è come me; sente il piacere di andare in alto, sente come me il piacere di guardarsi indietro. Questo, poi, diciamo pure che può esserle venuto dalla moglie di Lot. Per fortuna non ci resta di sale. Quantunque, ad un certo punto della nostra salita, e in una delle nostre più belle fermate, la gran diavola fu per rimanermi di stucco. Contemplavamo la valle, così larga e così pittoresca davanti a noi, con tanti casolari sospesi come nidi sui fianchi verdi dei monti, con quella linea della strada che biancheggiava a tratti nel fondo, da qualche radura della frappa, allorquando la mia compagna diede un grido di maraviglia.

— Il lupo, signor Morelli, il lupo! Oh che bella cosa!

— Non tanto, signorina; — risposi. — Ma dove?

— Laggiù, veda; guardando diritto a quella sporgenza della montagna; più sotto, di qua dal grande albero....

— Ci sono, ci sono. Ma non è un lupo, quello; sarà un suo parente; voglio dire un cane.

— Già; e lo pensavo ancor io; ma volevo vedere che atteggiamento mi prendeva Lei, colla sua mazza babilonese. Proprio un cane; e come corre!

— Se non sapessi che è sotto chiave, — soggiunsi, — direi....

— Lo dica; abbia fede, signor Morelli, lo dica. È lui, il nostro Buci. —

Il nostro Buci! Questo suonava più grato dell’accenno alla mia mazza babilonese e all’atteggiamento che la signorina Wilson si riprometteva da me per far fronte al pericolo. Ed anche, diciamo pur tutto, poteva far piacere l’idea di posseder qualche cosa in società con una bella ragazza; fosse pure un cane di villa.

Era lui, povero cane; era lui veramente, che aveva delusa la vigilanza del padrone, ed era corso sull’orma dei suoi protettori. Quanta strada aveva dovuto fare, per raggiungerci! Ma n’era finalmente venuto a capo; ed arrivando a noi, ansante, trafelato, con un palmo di lingua fuori, faceva ancora una mezza dozzina di salti buffi, mugolando ed alzando le froge per mostrarci tutti i suoi denti in un riso. Terenzio Spazzòli non sarebbe più stato solo a rider così.

Vorremmo concedere qualche minuto di riposo a Buci; ma egli non mostra di averne voglia; perciò ripigliamo la salita, restando d’un bel tratto i primi della comitiva. Sull’ultimo scaglione del monte ci fermiamo ad aspettarla.

— Che bellezza! — gridai, dando un’occhiata in giro a tutta quella gloria di vette, digradanti di prospettiva e di colore.

— Bravo! e Lei che non voleva venirci!

— Ma no, signorina. Ho accettato, appena me lo ha detto Lei.

— Con qualche restrizione. I suoi posteri, per esempio, che non lo avrebbero creduto....

— È vero; ma quando Lei mi ha soggiunto che non lo avrebbero saputo....

— A proposito, signor Morelli.... I posteri, voglio sperare, sapranno il suo nome di battesimo, mentre io, sua contemporanea, non ho ancora questa fortuna.

— Fortuna! Vogliamo dire? Mi chiamo Rinaldo.

— Rinaldo! — ripetè ella. — Un nome di paladino.

— Che non sarà mai esistito, se Dio vuole. E Lei? Sentiamo il suo, ora.

— Un brutto nome; sicuro, ne giudichi; Caterina.

— Bellissimo, anzi. E se ne possono cavare anche parecchi vezzeggiativi.

— Cominciando da Càtera, non è vero?

— No, lasciamo Càtera a Mercato Vecchio, C’è Rina, non Le garba?

— Ah! — esclamò essa ridendo. — Lei vuole accostarmi a Rinaldo.

— Senza sforzo, se mai; ed è il vezzeggiativo più signorile di Caterina. Ci sono poi le forme esotiche; le inglesi, prima di tutto, poichè Lei ha già inglese il casato. Kathleen, che è così dolce; Kate, che è così fine; Kitty, che è così birichino....

— Si fermi, e levi l’epiteto. Così per l’appunto mi chiamano in famiglia. Del resto, ci ho parecchi altri nomi, a registro; Frances, Evelyn, Dorothea. —

Il mio pensiero volò a Galatea e all’ode d’Orazio che il giorno innanzi le era caduta sott’occhio. Volevo ripigliare; ma in quel punto si affacciavano dalla salita le signorine Berti, e la nostra conversazione s’interruppe di schianto. Ed altri seguivano per l’erta, tutti affrettando il passo, a mala pena ebbero veduto noi, con quella furia montanina che è così naturale alla vista del luogo dove si farà la fermata. Là, poi, tutti si voltarono ad ammirare la valle, e si diè tempo di arrivare anche agli ottantanove chilogrammi della signora Berti, guardati, conservati e ipotecati per allora dal giubilato e giubilante commendator Matteini. Per la coppia ultima venuta bisognava allungare la stazione; e la signorina Kitty volle approfittare dell’indugio, correndo più in là a visitare una grande e folta piantata di faggi; vecchi faggi secolari, come se ne vedono più pochi sulle nostre montagne, poichè il bisogno e l’ingordigia hanno appiccicata all’umanità sprecona la malattia del far assi a tutto spiano. E si contentasse ancora di ciò! Dove ho letto io l’altro giorno che si pensa ad usare come forza motrice la cascata delle Marmore, cantata dal Byron? e che in Francia si pensa a fare il somigliante delle “chiare, fresche e dolci acque„ di Valchiusa? Gli uomini son vandali su tutta la faccia della terra; e un giorno, ne ho fede, verrà un altro diluvio per castigarli. Spoglino per intanto le montagne, e vedranno.

Corsi dietro alla signorina Kitty, per trattenerla.

— Non vada laggiù; ci son buche e tradimenti.

— Come! tra i faggi?

— Per l’appunto, tra i faggi vecchi. Cascano i più vecchi e marciscono sotto le nevi; tra rami, foglie, licheni e borraccina, si forma su quell’intreccio di tronchi uno strato che inganna; par di andare sul sodo, e ad un tratto cricche, ci si può lasciare una gamba. Ha capito?

Le proibisco di andare. —

La signorina Kitty abbassò il capo, alzando le pupille a guardarmi di traverso.

— Come comanda bene! — mormorava frattanto.

— Ho piacere che l’osservi; — risposi. — E Lei obbedisca bene. —

Mi fece il muso lungo lungo; poi scoppiò in una risata, che fece ridere anche me. Gran diavola e buona compagnona!

Si ripigliò la strada, costeggiando il bosco dei faggi, così nero sotto il denso fogliame, che alle nove del mattino si distinguevano appena le prime cinque o sei file di tronchi, e tutto l’altro era sepolto nell’ombra. Mezz’ora dopo, si afferrava la vetta; non la più alta del San Donato, ma uno dei suoi sproni, e il più prossimo, tra il quale e la cima del monte si stendeva una lunghissima prateria, tutta liscia e verde di smeraldo. Dall’orlo di questa, affacciandosi verso mezzodì, si offriva ai nostri occhi una scena stupenda. “Thalatta! Thalatta!„ avrei gridato io, se fossi stato certo che i miei compagni gradissero il greco. “Il mare! il mare!„ gridarono essi, tutti accorrendo, perfino la signora Berti, che prese un’ipoteca temporanea sul braccio del commendator Matteini.

Scena stupenda, per verità, incantevole, divina, come una di quelle che immaginiamo qualche volta essere arrise nei luoghi eccelsi alle albe del genere umano. Gran verde ai nostri piedi; poi subito un gran vano, come un abisso spalancato, profondo, buio alla prima vista, ma pieno di cose e di colori indistinti; di là dall’abisso un lungo disordine, ma severo e solenne, di dorsi montuosi, di picchi e di guglie rocciose; di là ancora, oltre una riva non vista, l’ampia infinita distesa del mare, calma superficie tra turchiniccia e verdognola, solcata per lungo da liste di bianco, sfumata qua e là da chiazze irregolari di grigio; e tutto fremente, tutto sfavillante d’una luce vaporosa, come sotto un mobile polviscolo d’argento e d’oro. Immobili a fior d’acqua, come ninfe marine, apparivano le prime isole del Tirreno: la Gorgona e la Capraia, minuscole, quasi burchielli arrovesciati sui flutti; l’Elba, più vasta, in forma d’un lungo scudo sannitico; e laggiù, a destra, sull’orizzonte, bianca scogliera rilucente al sole, la punta settentrionale della Corsica.

Bellissimo! bellissimo! E non si sapeva dir altro. Bellissimo, infatti, com’è sempre il bello, quando si vede da lontano, e lascia modo a pensarci, a fantasticarlo secondo i nostri desiderii.

Ho sonno; finirò domani.

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