< Galatea (Barrili)
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V VII

VI.

In alto, e in basso.

18 luglio 18...

Le signore hanno protestato di non voler salire più oltre. L’ultima punta del San Donato è alta ancora un centinaio di metri; ma che cosa si potrà vedere di lassù, che non si veda dall’orlo del prato? la Sardegna, forse? o la costa d’Africa? Dunque, fermi lì, dove si sta così bene. Terenzio Spazzòli è interrogato da una quindicina di sguardi, più o meno supplichevoli; Terenzio Spazzòli si arrende al desiderio dei popoli, ma con la dignità di un re, che sembra dire coll’atto: era questo il parer mio per l’appunto. E subito comanda ai serventi di portare le provvigioni di bocca in un vicino boschetto di faggi, che già aveva adocchiato arrivando.

— Non là; — disse la signorina Kitty, gittando verso di me un’occhiata maliziosa. — Ci saranno delle buche, tra i faggi.

— Non c’è pericolo; rispose l’esperienza paesana, per bocca di uno dei mulattieri. — È una faggeta di pochi anni, e c’è sodo come sulla strada battuta. —

Si va a vedere, seguendo le nostre salmerie. Il luogo è adatto e grazioso; una selvetta che par pettinata mezz’ora prima dalla madre natura, tutta a masse ben distribuite, tutta viali, sentieri, redole, andirivieni, che paion tracciati a disegno. Fatti un cento di passi, ecco una bella radura, con una fontana nel fondo, certamente più alta di tutte quelle che danno origine al fiume. Sgorga l’acqua da un fiorellino, tra ciuffi di felci e capelveneri; zampilla, gorgoglia, sussurra per un po’ di cammino fra i sassi, andando a far lago in una buca di forse due metri, che s’è scavata nella zolla del prato; donde poi straripa e scivola a valle, immollando per un buon tratto il terreno. Acqua limpida e fredda, dove la signorina Wilson è già corsa a tuffar le mani con gioia infantile, io l’amo e la venero come tutte le fonti, in ciò sentendomi veramente pagano. Terenzio Spazzòli si affretta a profanarla, ficcandoci dentro non meno di trentasei bottiglie, fra segni non dubbi di approvazione e di ammirazione da parte dei saggi. A che altro, di grazia, dovrebbero servire le fonti, se non a tenere in fresco il vino, specie quando le bottiglie, mal difese dal tessuto delle ceste, si sono scaldate al sole in tre ore di marcia?

Terenzio Spazzòli è l’uomo sapiente che nessuna cosa vale a turbare, o solamente a commuovere. Potrà essere uno sciocco; ma è certamente un personaggio destinato al comando, solo che altri lo tenga da ciò, riconoscendo la mediocrità di lui quanto bisogna per non sentirne invidia; donde ha origine un bel moto dell’anima, e la voglia matta di spingerlo in alto. Egli frattanto può raccomandarsi benissimo all’attenzione de’ suoi simili, rendendosi utile e tenendosi abbastanza prezioso. È a buon conto uno di quegli uomini che fanno di tutto: non eccessivamente bene, capisco; ma ogni eccesso non è forse difetto? Gran gente, i mediocri, quando sono operosi, attenti e pacati. Non hanno scatti di pensieri, di affetti, di risoluzioni; fanno quel che possono e sanno, magari quel che non sanno, ma con tanta buona volontà! Chi crede di far meglio si faccia avanti; essi hanno data la loro misura, non facendosi pregar troppo, non ispaventandosi di nessuna malleveria. E riescono, il più delle volte; se non riescono, sarà ancora un bel merito aver provato di fare. Sono utili, così; diventano necessarii; chi ne rideva da principio, si avvezza a loro, non vede che loro, non sa passarsi più dell’opera loro e della loro persona. Mediocri, io vi saluto; se stèsse in me, vi adoprerei tutti al governo.

Si fanno grandi apparecchi intorno alla fontana; ed anche poco distante, tra i faggi, dove sono state condotte e scaricate le bestie da soma. I serventi son tutti in faccende, obbedendo agli ordini di Terenzio Spazzòli. Hanno perfino improvvisato un focolare, di cui sentiamo crepitare la stipa. Che cosa vorrà essere la nostra refezione all’aperto? Terenzio viene modestamente a consigliarsi con le signore; propone un pasto che sia colazione e desinare ad un tempo, osservando che due pasti separati da troppo breve intervallo si guasterebbero l’un l’altro. La sua osservazione è giudiziosa, quasi profonda, come tutto ciò che gli esce di bocca. Terenzio bocca d’oro! E niente insuperbito dell’approvazione universale, si volge a me, domandando come si potrebbe chiamare il pasto consigliato da lui. A me? certo, ed anche naturalmente: non son io, per decreto delle signore, lo scienziato della spedizione? Propongo di chiamarlo “colazione desinatoria„, corroborando la mia proposta con la “coulassion disnoira„ dei Piemontesi e col “dèjeuner dinatoire„ dei Francesi. La necessità di copiare è evidente; se c’è la cosa, perchè dovrà mancar la parola? e se degli italiani l’han trovata in dialetto, perchè non si dovrebbe farla passare nella lingua?

Accettata la parola, o le parole, si aspetta con desiderio la cosa. La camminata lunga e l’aria montanina hanno recati i loro effetti maravigliosi; gli stomachi vuoti rimordono, come altrettante coscienze aggravate. Ma bisogna aver pazienza un momentino; quel tal momentino che diventa un quarto d’ora per via. Non è molto, poi; ed anche è bene speso quel po’ di tempo, perchè sono arrivate le scodelle e distribuite sui tovagliuoli, davanti ai commensali, adagiati sull’erba; e dietro le scodelle arrivano parecchie latte di brodo fumante. “Questo ristora„ osserva Terenzio Spazzòli, facendosi attorno col cucchiaione, per servir le signore. I fabbricatori di conserve alimentari hanno fatto il miracolo; il fuoco l’ha compiuto, dando una scaldata alle latte; nondimeno, si dà merito di tutto a Terenzio Spazzòli. Infatti, è giusto; l’idea di ristorare gli stomachi, prima di nutrirli con le vivande fredde, l’ha avuta lui, e gliene va data la lode. Notate ancora: arrivato il brodo, a parecchi viene l’idea di far la zuppa del cane, rompendoci dentro una mezza pagnottina. Ma no, non c’è bisogno di questo; Terenzio Spazzòli ha pensato egualmente ai piccoli dadi di pane tostato nel burro. Sarà la zuppa del viaggiatore, se mai; zuppa da persone di garbo, che vogliono dare la sua parte anche all’occhio. E sia pure zuppa del cane anche questa, ma solo quando ne avrà assaggiato il povero Buci, che va trottolando, scodinzolando, mugolando, fiutando, dalla fontana alla cucina, dalla cucina alla fontana; certo, all’apparenza, il più affaccendato di tutti.

Il brodo caldo ha ristorati gli stomachi: ora vengono i freddi: prosciutto, mortadelle, polli arrosto, galantine, gelatine, burro, sardelle di Nantes, bottarghe e via discorrendo; tutta roba che dà buon bere agli uomini. Ed anche le signore non canzonano; è bello vederle all’opera, sgranocchiare allegramente d’ogni cosa, rinunziando volentieri alle forchette e ai coltelli, dove possono bastare le mani, non badando ad ungersi un pochino le dita, e magari gli angoli della bocca. Ai miei tempi sono stato romantico anch’io, e poco mi piacevano le donne in atto di mangiare; cresciuto negli anni, nella esperienza e nel sentimento della vita, amo vederle a tavola, occupate graziosamente a morsicchiar petti di pollo e pasticcini di Strasburgo; senza contare che la tavola meglio imbandita, dov’esse manchino, è triste. Per passare la musoneria, lo so bene, ci si beve di più; ma allora, peggio che andar di notte, corrono i discorsacci, volano i motti pungenti e si risica di finire come alle nozze di Pulcinella, che le furon legnate. Colle donne a tavola, c’è sempre in ogni piatto il condimento della grazia, che vi farebbe parer buona anche una frittata senz’ova; c’è l’allegria contenuta, la celia garbata, il desiderio di piacere, la cura di non esser noiosi; tutte le buone qualità dell’uomo sono in mostra, e le cattive abilmente dissimulate; sicchè par proprio di ritrovarsi fra gente civile.

Così pensano i classicisti, che oramai tengono il campo. Ma ecco, mentre clan volta i romantici, venir fuori un’altra razza di guastamestieri, gli uomini politici e i politicanti, coi loro banchetti mascolini a un tanto a testa, colla minestra cotta stracotta e raffreddata per via, colle salse andate a male, col pesce passato, col servizio fatto a casaccio; e tutto ciò per il maledetto gusto di sorbirsi alle frutta un bicchiere di vinello che la pretende a Sciampagna, e una tantafera sconclusionata che la pretende a discorso. Ma ne sono quasi sempre puniti; perchè, se il bicchiere è uno, son due i discorsi, tre, cinque, sette; e qualche volta, data la gravità del fallo, s’aggiunge il castigo di Dio d’un sonetto, improvvisato per l’occasione la sera innanzi, o quell’altro del personaggio cupo che si leva ultimo, incominciando: “Signori, io non sono oratore...„ e cava dalla tasca del soprabito uno scartafaccio enorme.

Sono di cattivo umore, io. E non erano così, l’altro ieri, i miei compagni di San Donato. Alle frutta non si fecero discorsi, quantunque fossero molto bene snodate le lingue. Venne e fu aperto sotto i nostri occhi il vaso di Pandora; voglio dire il canestro misterioso, per cui si erano fatte tante ciarle e tante supposizioni durante il viaggio. Ne uscirono fuori chicchere, piattini, cucchiaini, caffettiera, zuccheriera, tutto un servizio da caffè. Dio degli Dei! e già dalla cucina nascosta tra i faggi si spandeva, giungendo fino a noi, l’aroma della bevanda celestiale, che staccava il bollore nel bricco.

Terenzio Spazzòli fu proclamato ad unanimi voti un grand’uomo. Lo avremmo levato sugli scudi, se non ci fossero mancati gli arnesi da ciò, e se non fosse stato necessario levarci noi da sedere. Il nostro condottiero accolse con tacita compiacenza le lodi, e attese egli stesso al servizio, presentando la chicchera fumante alle dame. Lo aiutava la signorina Wilson, presentando la chicchera ai cavalieri; gran degnazione in lei, nuovo pregio che si aggiungeva alla cosa, e per cui Galatea si tramutava in Ebe. La seconda immagine non è mia; è del commendator Matteini, giubilato come conservator d’ipoteche, ma non ancora come conservatore delle buone tradizioni letterarie. Ed era graziosa, quell’Ebe; ma forse un po’ troppo gloriosa, avendo l’aria d’essere stata a parte del segreto. Anzi, diciamo tutto, ad un certo punto se lo lasciò sfuggire di bocca. “Ma sì, volevamo fare una improvvisata.„ Ahi, questo non è bene. Dunque la signorina Kitty ci ha l’uso delle partecipazioni? Infatti, può dire a me: “il nostro Buci„; a Terenzio Spazzòli: “il nostro caffè.„

La signorina Kitty conosce anche il segreto della cesta? Ma sì, figuriamoci se non ne ha la sua parte! Non ho ancora digerito il caffè, e già mi danno l’assenzio. Il taciturno condottiero ha lasciata la compagnia, sottraendosi al coro dei suoi lodatori. Ed anche lei si muove, andando tra i faggi, verso il deposito delle provvigioni. C’è del nuovo, per aria, e si sente. Quando ritorna, con la sua aria birichina e col suo risolino malizioso, va a discorrere sottovoce colla contessa Quarneri. Non afferro che questa frase, con cui ella finisce: “ci sta Lei?„

— Ma sì, — risponde la luminosa contessa, è un’idea stupenda. A mille — metri sopra il livello del mare! Non potranno vantarsene molti.

— Che c’è? — domandano le signore, poichè la contessa ha parlato a voce alta, e non vuol far mistero di nulla. — Un’altra improvvisata?

— E come! un lawn-tennis su quella prateria, che par fatta a bella posta. —

Un lawn-tennis! Le ragazze Berti saltano dalla gioia. La mamma loro non farà certamente quell’esercizio ginnastico; ma in fondo non le dispiace, dopo desinare, godersi un po’ di spettacolo. La signora Wilson madre non può sgradire un divertimento della sua patria d’adozione. La signora segretaria comunale non lo conosce ancora da vicino; sarà felice di essere ai primi posti, per assistere ad una delle tante inezie della moda. I tre satelliti della contessa amano tutto ciò che ama il loro astro dominatore. Il commendator Matteini non ha opinioni in proposito; rammenta d’essere stato ai suoi tempi un dilettante di pallone; si adatterà volentieri a veder giuocare alla palla; condizione di spettatore tranquillo, che può pensare intanto a tutt’altro, magari alla “città dell’anima„ Quanto a me, dovevo immaginarmelo, questo tiro mancino. Abomino il lawn-tennis, più ch’io non faccia i miei peccati di gioventù, pensieri, opere ed ommissioni; e proprio a me doveva toccare questa delizia, a mille metri, anzi a mille e diciannove, sul livello del mare.

Ho fatto di necessità virtù, accompagnando la brigata sulla prateria destinata. Avrei fatta anche la fatica di andare attorno, in cerca di petroni, per far sedili alle signore. Ma c’erano i ripieghini, utili e maneschi sederini di tela, coi due staggi mastiettati a iccase, che venivano a fare l’ufficio loro in buon punto. Il saggio Terenzio Spazzòli aveva proprio pensato a tutto, perfino agli ottantanove chilogrammi della signora Berti.

E già, in quella sua breve assenza dalla fontana, aveva fatto prodigi.

Aiutato dai serventi che gli tenevano le cordicelle tese, e dai due piccoli Berti che gli portavano il gesso, aveva segnate le doppie linee parallele del campo di giuoco; poi, piantati i piuoli, aveva rizzata nel mezzo la rete, che fa nel lawn-tenis l’uffizio del cordino nel giuoco del pallone, e che bisogna sempre trapassare con la palla, perchè il giuoco sia buono. Le racchette erano a posto sulle due estremità del campo; a posto sulla battuta le palle di guttaperca, in numero di sei, per averne sempre una in pronto, se un’altra si crepasse, e un’altra o parecchie volassero di qua o di là fuor del confine. Per quelle, poi, vigilavano i ragazzi, sempre vogliosi di correre. Così tutte disposte le cose, in mezzo a due file di spettatori si distribuirono le coppie dei giuocatori e le mute rispettive. Primi a giuocare furono da una parte la contessa Quarneri con Terenzio Spazzòli, dall’altra la signorina Wilson col primo (è poi veramente il primo?) dei famosi satelliti. Anche a me fecero cortesia, invitandomi a giuocare. Mi sono scusato, confessando d’essere ad ogni giuoco una sbercia.

Non è meno sbercia (sia detto con tutto l’ossequio dovuto a tanti pregi fisici e intellettuali) non è meno sbercia di me la contessa Quarneri, che con una sequela di falli conduce in perdizione il suo compagno di giuoco e sè stessa. Pure, aveva contrario uno dei fidi satelliti, che lavorava con ogni suo potere a farla guadagnare, non azzeccandone mai una. Ma vegliava accanto a lui la signorina Kitty, che le imbroccava tutte, e che, com’ebbe visto far cilecca il compagno, prese a levargli la mano, muovendosi lei, leggera come una ninfa, e sopramano e sottomano, come le veniva fatto, rimandando la palla; ma, da furba, non mai dalla parte di Terenzio Spazzòli.

Ho detto che le imbroccava tutte, e non mi disdico, sebbene due le uscissero dalle righe. Ma quelle due le aveva gettate a bella posta fuori del giuoco. Scambio di rimandarle alla parte avversaria, con un abile giro di racchetta le scagliava verso di me, una facendone ruzzolare fino a’ miei piedi, e l’altra, poi, accoccandomela senza misericordia sul mio cappello di sparto; senza averne l’aria, si capisce, mentre io stavo discorrendo colla contessa Quarneri, che si era stancata alle prime partite, e uscita di giuoco e surrogata dalla maggiore delle Berti, era venuta a sedersi presso di me, rimasto a caso in disparte. Non più Ebe, no davvero, Galatea da capo; e non già quella di Orazio, che si metteva in viaggio; non già quella di Teocrito, che tradiva Polifemo per Aci; la Virgiliana, dico, della quale cantò Darneta nella terza delle Bucoliche:

Malo me Galatea, petit, lasciva puella,
Et fugit ad salices et se cupit ante videri.

Ad un certo punto, approfittando della distrazione di uno dei ragazzi, viene a raccogliere una palla a poca distanza da me. Avrei dovuto alzarmi io a raccoglierla; ma mi tratteneva nel dialogo una battuta un po’ lunga della contessa Quarneri. Passando leggera davanti a noi, la signorina Wilson mi gitta poche parole, che rompono a mezzo il discorsetto della mia interlocutrice.

— Non è vero, signor Rinaldo, che è bello il lawn-tennis?

Le rispondo che è bellissimo; ma ella è già trascorsa veloce, sorridente, graziosa; si curva sulla vita, raccoglie la palla, e fugge al suo posto di combattimento. Gran diavola di ninfa! Non offre all’occhio che belle linee flessuose, elegantissime nella loro mobilità: ogni atto, in lei, ogni gesto, ogni movenza, è un prodigio di grazia. Ci ha parte sicuramente il lawn-tennis, con tanta varietà di movimenti che richiede; ed è forse per questo che le signorine giuocano volentieri al lawn-tennis.

Ma ogni bel giuoco dura poco, anche quando pare una gran novità, a mille diciannove metri sul livello del mare. La signora Wilson e la signora Berti, madri, ed arbitro del campo, hanno guardato l’orologio e fatto un gesto a Terenzio Spazzòli. La signora Berti è anche un po’ di cattivo umore. Perchè? Immagino che le dia noia la luminosa bionda che ha tre serventi, mentre le sue figliuole non ne hanno nessuno. Eppure son tanto carine! Ma che mania, scusi, è la sua, di condurle da per tutto in mostra, a far numero tra le donne di sboccio, tra quelle, io vo’ dire, che stanno sulle mode e sugli spassi, che son vaghe di conversazioni, di teatri e di feste da ballo? Giuro, anzi scommetto, che a far così non troveranno marito. Uno che abbia la vocazione di prender moglie, o cerca una dote vistosa, o si appiglia a qualità più modeste. Le sue care figliuole hanno tutte le mode ultimissime, scorrazzano su tutti i marciapiedi, si fanno vedere a tutte le prime rappresentazioni, a tutte le feste, a tutti i ricevimenti solenni. È una cattiva strada, quella che prende la signora Berti degnissima. E ci ha, dopo tutto, un cuor d’eroina: per il suo nobile errore si adatta ad ogni fatica più improba; corre di qua e di là senza posa, naviga e pesca in ogni acqua, povero vascello a tre ponti, e si scusa dicendo che fa tutto ciò per ragion di salute.

Se almeno uno dei tre satelliti lasciasse un po’ la Quarneri! Ma no, niente; son fermi al posto, e si direbbe quasi che si facciano la guardia l’un l’altro. Dove uno va, si cacciano gli altri due. Garbati, silenziosi, sospettosi, non sanno neanche marciare in fila; vanno sempre di fronte. Quando uno ha l’ombrellino della signora da tenere, l’altro porta il ventaglio, e il terzo i guanti. La contessa li tratta tutti egualmente, con languida benevolenza imperatoria. Con altrettanta benevolenza ha chiesto dei versi a me, pel suo albo. “Gli amici miei ci son tutti,„ mi ha detto, “e non altri che amici.„ Dio, quanti ce ne debbono essere! È molto bella, e d’una bellezza che attrae: carnagione di madreperla, con toni rosei; capelli biondi, ma d’un biondo strano che tira all’amaranto, con vene e riflessi d’oro di zecchino; occhi un po’ grigi, ma fosforescenti; bellezza luminosa, ho già detto, e non c’è altro da aggiungere.

Gli arnesi del giuoco sono raccolti nella cesta; raccolta e caricata la batteria degli impicci, delle provvigioni avanzate, delle stoviglie, e via discorrendo. Si dà un’occhiata stracca alla gran scena del mare, che ci aveva tanto commossi all’arrivo, e si riprende il sentiero della valle. Laggiù, a due terzi di strada, dove si era notato un luogo assai pittoresco in vicinanza del mulino, si farà una lunga fermata ed anche una merenda. Così decreta Terenzio Spazzòli. Le signore protestano che non toccheranno più cibo; ma egli, sicuro del fatto suo, sentenzia che giunte laggiù sentiranno ancora gli stimoli dell’appetito, e non vorranno poi lasciar soli a macinare i compagni del sesso forte, che sentiranno gli strazii della fame. Si ride, si salta, si canta e si scende.

La signorina Wilson è venuta al mio fianco, a caso, e per non rimanerci a lungo.

— Di che cosa le parlava con tanto ardore la signora Quarneri? — mi chiede.

— Di poeti, in genere; — rispondo. — Ma più del Leopardi. Ne va matta.

— Sì? — esclama lei, torcendo le labbra. — Oh cara! —

Qui fa una pausa, e poi parla d’altro; finalmente, disponendosi a lasciarmi per andar colla Berti, mi scaglia la frecciata del Parto fuggente.

— Ho osservato che Lei diventerà un discreto giuocatore di lawn-tennis.

— Io? e perchè?

— Perchè si adatta così bene a fare il quarto —

Assassina! Vorrei chiederle conto della sua frase, ritenendola oscura: ma lei è già lontana, e chiama Buci ad alta voce. Buci arriva, ma a piccole giornate; non salta più, trova appena il tempo di ridere, avendo fatta una scorpacciata da vicario foraneo.

Lascio la signorina Kitty al suo Buci. Ed ella non sa che potrei farla ridere con più gusto e più rumorosamente di Buci. Basterebbe che io le riferissi un brano di discorso della signora Quarneri.

— Quanto l’amo, quel caro Leopardi! E dica, è sempre laggiù confinato nella sua Recanati? —

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