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XVII.
A tu per tu.
15 settembre 18...
“Scrivo giorno per giorno tutto quello che mi accade, nel mio memoriale.„ Ah sì, davvero, me ne sono vantato a tempo, colla signorina Wilson. Ecco qua diciassette giorni che il memoriale non riceve nessuna delle mie confidenze. Pure, la materia c’era, e come! Ne sono ancora tutto intronato; me ne dolgono tutte le giunture; la penna mi sta male tra le dita. Ma voglio, comunque sia, ripigliare. È necessario; farò come potrò; quando la mano ricuserà l’uffizio, mi fermerò, per ricominciare più tardi.
Ecco intanto la letteraccia. Non ne avevo tenuto copia, scrivendo confusamente tutto quello che mi veniva alla mente, e dalla mente alla penna. Ma è qui l’originale, che Filippo Ferri non ha voluto conservare, e che mi ha restituito in malo modo, mostrando per giunta di non essere un appassionato raccoglitore d’autografi:
- “Amico, nemico, qual più mi vorrai,
“Non ti maravigliare di questo cominciamento, nè di quello che verrà dopo. È del savio non maravigliarsi di nulla. Batti ma ascolta, disse Temistocle ad Euribiade, se crediamo a Plutarco; leggi e poi fa quel che ti pare, dirò io a te. Mi hai messo l’inferno nell’anima: non ne posso più; ho bisogno di sfogarmi, e mi sfogo. Tu sei venuto per mia disgrazia in Corsenna: sotto veste d’amico eri un traditore, e non saprei che altro dirti di peggio. Così si viene a turbar la pace della gente? a profanar l’amicizia?
“Intendi già che io voglio parlare delle tue idee stravaganti, intollerabili, a proposito della signorina Wilson. Non ti ho detto iersera quello che ti meritavi, tanto mi avevi fatto trasecolare colla tua alzata d’ingegno. Io parlare in tuo favore alla mamma di Lei? chiederle la mano di sua figlia per te, io che la voglio per me, ed ho, per volerla, il diritto di precedenza? Lèvati di testa il pensiero che io possa dare un passo per utile tuo; lèvati di testa quell’altro che ella possa mai esser tua. La signorina Wilson l’amo io, e da un pezzo. Chiederai perchè non te l’ho detto prima. Per due ragioni, ti rispondo; la prima è che non ho l’uso di confidare i miei segreti a nessuno; la seconda è che io mi fidavo di veder volgere ad altra parte il tuo cuore infiammato e i tuoi omaggi cavallereschi. È stato un errore di giudizio, il mio; un altro errore il tuo; ma gli errori si voglion correggere, e non è bello che li lasciamo durare.
“Senti, ora; io non so che effetto ti farà questa lettera. Pazza, ti farà ridere di compassione; amara, ti farà torcer la bocca. Amara o pazza che sia, non posso ritenermi di scriverla. Andiamo diritti al fine. Non mi conviene questa tua aria di padronanza in Corsenna. Ti avevo pregato di venirci, per darmi una mano, come mio futuro padrino possibile. L’occasione si è dileguata, ed io dovevo prevedere che non fosse neanche per nascere, avendo da fare con una triade di sciocchi. È stato un altro errore; ma tu vuoi farmelo pagar troppo caro. Non mi conviene, ti ripeto, non mi conviene.
“Ora, io non ho che una cosa a fare; ringraziarti delle tue cure fraterne, e pregarti di andartene. Sei sunctus munere. Ti è duro il latino? Hai adempito l’ufficio, e non c’è più bisogno dell’opera tua. Il discorso non ti parrà da ospite, e non è certamente; per contro, è da uomo che non gradisce di sentirsi vogare sul remo. Quella fanciulla è mia, capisci? mia; l’ho sposata io, con un atto della mia volontà, davanti all’altare del mio cuore, dov’io son parroco e scaccino, in un municipio dove son io il sindaco, il segretario e l’usciere; non la sposerà altri fino a tanto che io viva, fino a tanto che io possa far riconoscere l’autenticità de’ miei atti. Pel tuo meglio, va, e non se ne parli più.
“Ho fatto un sogno; che tu iersera avessi parlato per celia. Brutta celia, in verità, e che mi ha fatto perdere quel po’ di cervello che ancora mi rimaneva. Ma se è così, vieni a dirmelo, e mi parrà di rinascere. Se non puoi darmi questa notizia consolante, se metti il tuo amor proprio in luogo dell’antica amicizia, sai quello che ti resta a fare. Io sarò a tua disposizione. E bada, non per giuocare il possesso di una bella mano su d’un colpo di spada o di pistola. Questo io l’ho fatto una volta sola in vita mia; ma non per la donna, che, poveraccia, poteva forse valere di più, come di meno, ma per la mia dignità, che doveva e voleva avere il di sopra. Qui non mi giuoco nulla, perchè è la mia passione in causa; fino all’ultimo soffio di vita difenderò quello che mi appartiene.
“Pensaci. Se ami quella donna come l’amo io, son sicuro di quello che avverrà. Se non l’ami come l’amo io, non far questione d’amor proprio; vattene.
“Rinaldo.„
Inutile raccontar qui la mia notte; nè, volendo, potrei. Facevo e disfacevo continuamente peripezie e catastrofi, intrecci e scioglimenti di una sola tragedia. Mi addormentai, seguitando ad almanaccare nel sogno; mi destai la mattina scontento di me, ma niente pentito di aver scritta la mia letteraccia. Su quel punto ero fermo, e più inviperito che mai.
Erano le otto, ed io stavo misurando per la centesima volta i nove palmi di spazio libero della mia camera da letto, quando mi venne davanti Filippo. Grave nell’aspetto, ma tranquillo, il mio corazziere; certamente più padrone di sè, che io non fossi di me. Aveva in mano la mia lettera; me la fece vedere, e mi chiese:
— Sei tu che hai scritto ciò?
— Io; — risposi. — Non conosci più il mio carattere?
— Lo conosco ancora; — replicò; — ma non ci ho veduto il tuo senno.
Questa lettera; mi pare d’un matto.
— Se credi di offendermi!...
— No, dico quello che ne penso, secondo il mio costume. E dirò ancora che per la forma non sarà da mettere tra gli esempi di bello scrivere.
— Certo.... non credo che sia da annoverarsi tra le mie cose migliori.
Ma è così, e non si muta.
— Vuol dunque essere una lettera insolente?
— Se tu vuoi sposare la signorina Wilson, sì, vuol essere insolentissima. —
Filippo Ferri si buttò a sedere sulla mia poltrona, e ci rimase un tratto in silenzio, ruotando gli occhi, tormentandosi i baffi.
— Oh, perdio! — -esclamò finalmente. — Non la vuoi capire, che questo è uno sciocco litigio, e mi secca?
— E tu, — replicai, — non la vuoi capire che c’è una donna di mezzo, e che su questo capitolo non si scherza e non si transige? Toccami qui, e sarò una bestia feroce. L’antico uomo non muore.
— Complimenti all’atavismo! Ma io, per tua norma, non dò il passo agl’istinti, e per ragion di donne non mi sono battuto mai.
— Bene! Se ti sentisse quella!...
— E vorrei che mi sentisse; darebbe ragione a me e torto a te. Alle donne, rispetto ed ossequio in ogni occasione; non è ossequio nè rispetto tirarle in questi balli sanguinosi, dove non c’è altro guadagno per loro che di scivolare. Ti rammenti ch’io abbia mai dato indietro d’un passo, e davanti a chicchessia? Sei stato tre volte padrino mio in questioni d’onore; sai che in simili giostre ho toccata la dozzina.
— Non ti dispiaccia troppo di passare al brutto numero; — diss’io di rimando. — E non mi fare il saccente, volendo dimostrarmi il non si può e il non si deve di certe cose, dove ognuno vede e si governa a suo modo. Del resto, senti; con poca letteratura, anzi con nessuna, ti ripeto da amico: lasciala stare.
— Non posso.
— Ah, vedi?
— E se potessi, — ripigliò Filippo, — ti direi ancora: non voglio; tanto m’offende il modo di domandarmi un sacrifizio.
— Ti offende! — esclamai. — Ti offende, e stai qui a disputare? Ma io da nemico ti dirò: voglio il tuo sangue, e non patisco rivali.
— Il che significa, — diss’egli, — che non hai sicurezza dell’amore di lei.
— Non l’ho, e tu me ne darai soddisfazione. —
Filippo si alzò da sedere. Rideva, gli lampeggiavano gli occhi, ed io mi avvidi d’aver commesso un errore.
— Ah! — gridò egli. — E proprio dopo questa tua confessione dovrei far le valigie? Sarei un bel cavaliere, se mi appigliassi al partito della viltà; e per i tuoi belli occhi, ancora! Va là, Rinaldo, va là! Tu hai ancora da studiare un pochino il cuore umano, prima di rimetterti al tuo Don Giovanni. Per intanto, ti consiglierei di far colazione, e di meditare un po’ meglio su questa faccenda, che non va trattata con leggerezza. Pensaci; me ne riparlerai dopo mezzogiorno.
— Una proroga!
— Di poche ore.
— E che cosa ne speri?
— Che tu verrai dopo mezzogiorno a dirmi: Filippo, amico mio, avevo fatta ieri una cattiva digestione; ho dimenticata l’amicizia, l’ospitalità, ogni cosa. Ero diventato matto; che ci vuoi fare? Alla passione non sempre si può comandare. Ma ora ho pensato meglio; ho avuto un lucido intervallo, ed ho capito che non è in noi di voltar sempre le cose a nostro beneplacito, quando da noi non dipendono, quando ci sono delle sacre volontà da rispettare. Lasciamo dunque che la signorina abbia la sua volontà e ne usi liberamente. Sceglierà lei, e chi sarà il disgraziato chinerà da galantuomo la testa.
— Non ti dirò queste cose, stanne certo.
— Sarà un error di giudizio e un difetto di cavalleria. Ma io voglio ad ogni modo queste poche ore di tregua, per non aver rimorsi da parte mia.
— Voglio! Ma sai che è una bella pretesa? In casa mia!...
— L’osservazione è crudele; — rispose Filippo. — Io sarei già alloggiato alla prima ed unica osteria di Corsenna, se non fosse stato il timore di uno scandalo.... prima del tempo. Anche questa ti perdono, mettendola sul conto della tua follìa. A mezzogiorno, dunque, ci si rivede. —
Così dicendo fece una girata sui tacchi, e se ne andò, lasciandomi solo, con la mia letteraccia, che aveva gittata sul letto. La levai di là e la deposi sulla scrivania, per restituirgliela più tardi. Ma neanche più tardi l’ha voluta riprendere, quando ci siamo riveduti dopo mezzogiorno, e dopo esserci ritrovati dello stesso umore di prima.
— Se è per l’insolenza, non dubitare, l’ho avuta e me la tengo; — diss’egli. — Ma il documento non mi è necessario; in mano mia potrebbe smarrirsi, e nuocere alla tua riputazione letteraria.
— Lo scherzo è rancido, oramai.
— Allora abbi del nuovo; e non sia più uno scherzo, ma un rimprovero.
Non posso, nè voglio tener io, e forse smarrire una lettera come quella, dove si nomina una persona.... la quale non ci ha dato il diritto di servirci del suo cognome con tanta libertà. —
Era una bottata diritta; la ricevevo in pieno petto, e avendola meritata. Però chinai la testa, senza rispondere.
— Che arma vuoi scegliere? — gli dissi.
— Non ho preferenze.
— Ma sei l’offeso.
— Io!
— Sì, tu; non ti ho scritta la lettera, che ti è dispiaciuta?
— Ebbene, che importa? Tu hai voluto offendermi, ed io non mi sento offeso al punto di volerne vendetta. Io rido, per tua norma; rido verde, giallo, pavonazzo, turchino, ma rido. Se vuoi ad ogni costo una lezione, son uomo da dartela, hai capito? Ma non scelgo io l’arma, non la scelgo, non la scelgo.
— Chetati, la scelgo io. La nera, ti va?
— Sia pure la nera: ma in questo caso bisognerà andar lontano sui monti, o tra i monti, ed essendo ben sicuri di non aver gente sulla linea del tiro.
— Non è necessario di andar lontano; — risposi. — Qui nel giardino, è più presto fatto.
— Non è possibile.
— Perchè? se ci si tira al bersaglio, mi pare....
— Sicuro, — disse Filippo, — ci si tira al bersaglio, perchè c’è spazio sufficiente, dalla casa al muro di cinta. Il tuo giardinetto è una tabacchiera, mio caro. Ma qui, nel caso nostro, non sarebbe più un bersaglio; sarebbero due bersagli, uno dalla casa al muro, l’altro dal muro alla casa, col rischio, per colui che fosse dalla parte del muro, di uccidere Argia, la tua cuoca, o Pilade, il tuo servitore; due persone che non ti han fatto niente, ch’io sappia.
— Ebbene, alla spada; — conchiusi io, adattandomi ad un ragionamento che non faceva una grinza.
— Alla spada; — rispose Filippo.
Andai subito a cercare le spade, che avevamo lasciate con le altre armi nel salottino, e postele in croce ne offersi le due impugnature al mio avversario. Egli ne prese una, ed io l’altra, muovendo tosto verso il giardino. Ma egli non pensava a seguirmi; teneva la spada in mano come una croce, ne guardava l’impugnatura e metteva un sospiro.
— Che? — gridai stupefatto. — Ti dispiace?
— Eh sì! pensando che le ho portate io.... È dura, sai!
— Rinunzia.... a lei.
— No; — proruppe egli, dandomi un’occhiata che pareva volesse passarmi fuor fuori.
— Perchè, no? finalmente, che speranze hai?
— E tu?
— Capisco, — ripigliai, — che potremmo leticare così fino al giorno del giudizio.
— All’infinito, dunque; — commentò Filippo. — A te non verrà mai, il giudizio. —
Gli risposi con una spallata, e gli feci cenno di passare in giardino.
— Per che fare? — mi domandò.
— Per cominciare. Io butterò la mia giacca, tu butterai la tua, e saremo subito in arnese di combattimento.
— Capisco. Ma i padrini?
— Che padrini d’Egitto!
— Uno, almeno; e si può averlo in mezz’ora. Ti va lo Spazzòli? Son sicuro che non vorrà ricusarci il favore; almeno per la stranezza del caso.
— Non voglio nessuno; — risposi.
— Ma tu sei più matto che io non credessi; — gridò Filippo spazientito. — Va a fartela mettere da altri, la camicia di forza. Un assassinio? Perchè un duello senza testimoni è un assassinio, mi capisci? Se io fossi sicuro che tu assassinassi me, non protesterei; ma perchè tra due rischi c’è quello ch’io ammazzi te, non intendo di andare in corte d’assise e alla reclusione, per te e per le tue follie. O un testimonio, o niente duello.
— Ma io di quei di laggiù non ne voglio.
— Ed io ti potrei dire che ci sono soltanto quei di laggiù capaci di renderci il servizio, in Corsenna. Ma non voglio parerti desideroso di salvarmi con un sotterfugio dai lampi della tua terribile spada. Mi hai mortalmente seccato, e non vedo l’ora di farla finita. C’è Pilade, in casa? Venga lui ad assisterci; gli diremo in pochi salti e brutti il nostro bisogno, e sotto i suoi occhi c’infilzeremo come due ranocchi. Ti va?
— Mi va. Ohè, Pilade! —
Pilade non indugiò a comparirci davanti.
— Sei stato soldato, non è vero? — gli dissi.
— Tre anni, nei bersaglieri; — rispose, mettendosi involontariamente sull’attenti.
— Bene; e non hai paura?
— No, signor padrone; neanche di tre che scappino —
Filippo ride; ma non rido io, invelenito come sono.
— Benissimo; — ripiglio, e veramente poco in tuono colla risposta di Pilade. — Tu ora ci vedi qui, il signor Ferri e me, desiderosi di sbudellarci. Sì, e non c’è che ridire. Ci siamo offesi; nessuno di noi vuol cedere d’un punto; decidano dunque le armi. Tu resterai qui testimone, per poter dire al bisogno che tutto è passato d’amore e d’accordo tra noi. —
Pilade balena un istante, ed ammicca. Il mio discorso non finisce di piacergli.
— D’accordo, sia, non dico di no; ma d’amore.... signor padrone....
— Eh, intendi per discrezione. Voglio dire che siamo rimasti così tra noi due, e che il duello si fa in piena regola. —
Un momento di riposo sarà necessario. La mano trema; le povere dita intormentite portano la, penna fuori di riga. E poi, si avvicina l’ora di andar laggiù.... anzi no, lassù; bisogna proprio dire lassù.... dove gli angeli stanno di casa.