< Galatea (Barrili)
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XVII XIX

XVIII.

Teste rotte.

16 settembre 18...

Ripiglio il racconto, lasciato ieri in tronco per cagione di queste povere dita. Pilade era rimasto sbalordito, o fingeva. Sì, credo proprio che fingesse. Quello è un ragazzo che non si sbigottisce di nulla, e fa qualche volta il minchione per non pagar gabella; ma è un furbo trincato. Egli dunque stette un poco sopra di sè, a bocca aperta, come un vero baggeo; poi disse:

— Che discorsi son questi?

— Discorsi da matti; — risposi io.

— E noi siamo due matti; — rincalzò Filippo. — Che ci vuoi fare?

— Scusino; — riprese Pilade, ammiccando; — ma allora... L’ho a dire?

— Parla; hai libertà di parola.

— Allora... perchè non vanno al manicomio?

— Perchè... — risposi io, sconcertato. — Perchè i matti non ci vanno mai colle lor gambe. E tu assisti frattanto al nostro duello.

— Duello! — esclamò Pilade, facendo bocca da ridere, da quello scimunito che voleva parere. — Con quelle spade?

— E con che? con un par di stecchini?

— Eh, a tavola, per esempio... dopo aver ben lavorato di forchetta, perchè no? Ma io volevo dire... volevo proporre... Oh, infine, sentano, poichè m’hanno data libertà di parola... Io sarò un asino, ma ho sempre sentito dire che un asino vivo val più d’un dottore morto...

ed anche, se lor signori s’infilzano, di due. Io dunque domando e dico; se hanno delle bizze da sfogare, c’è egli bisogno di spiedi? Se hanno da cavarsi il ruzzo dal capo, a che servono? Per rompersi la testa serviranno meglio i bastoni. Dico a Lei, sor padrone, che na fa uso così spesso e volentieri, di quei così lunghi lunghi; che fanno stupire, ed anche, diciamo tutto, anche rider la gente. Ne taglia Lei, ne taglio io per farle piacere; ce n’è una collezione, in saletta....

— Che dici? — esclama Filippo. — Continua. —

Ma l’altro non approfitta della licenza; si è mosso dal posto, andando via come un lampo e sparendo dall’uscio vicino; come un lampo è ritornato all’aperto, con una bracciatella di bastoni di nocciuolo, ruvidi, rugosi, alti un metro e sessanta; tutti i miei bastoni babilonesi, che a detta di Pilade fanno rider la gente. E rida la gente; quando avrà ben riso schiatterà.

— Mi assaggino un po’ questi; — dice il servitore, ammiccando da capo. — Sodi, robusti, maneggevoli, cedono quanto basta, rimbalzano bene, e dove toccano lasciano il segno. Con questi alla mano si sfoghino, se ne diano quante vogliono, fino a tanto che potranno star ritti. Io assisterò, e vedrò di contar giusto.

— È un’idea; — grida Filippo, inuzzolito.

— Le piace?

— A me sì; è semplice e pratica. Ma chiedine piuttosto al tuo padrone; io non comando.

— Piace anche a me; — rispondo allora, incominciando a levarmi di dosso la giacca.

Filippo si affretta ad imitarmi. Levata la sottoveste, deposti gli orologi sopra un sedile, ci troviamo tutt’e due in maniche di camicia, l’uno di fronte all’altro.

Qui poi bisogna veder Pilade, con la sua aria di papa Sisto dopo che ebbe gittata la gruccia; bisogna vederlo raggiante, misurare i bastoni, trovarne due di pari lunghezza, che non ci sia la differenza d’un millimetro, offrirceli con un gesto largo, prenderne un terzo per sè, levarlo in alto e piantarsi davanti a noi come maestro di combattimento.

— Così, come in caserma; — dice egli. — Ma scusino la libertà grande; con tutta la loro arte di scherma, penso che non faranno prodigi. Il bastone è l’arma per eccellenza; lo diceva il nostro professore al battaglione; ma è pure un’arma molto difficile.

Mastro Raffae’, non te ne incaricare; — gli rispondo io. — Vedrai che in caserma non si è mai fatto meglio di qui; e vorrai, spero, esserci largo della tua alta approvazione. —

Volendo dimostrargli che la scherma del bastone non è poi l’arca santa per noi, ci mettiamo in posizione, gli facciamo sotto il naso un mulinello in piena regola; poi caschiamo in guardia, io di terza e Filippo di quarta, invitandoci l’un l’altro coi soliti inganni all’attacco di primo appetito. Ma nessuno dei due si lascia cogliere alla lustra; vogliamo persuader Pilade che non siamo al bastone quei novellini che egli s’immaginava, e procediamo per via di finte, tastandoci, attaccando guardinghi e parando, scaldandoci a grado a grado nel giuoco, accennando alla testa, alla faccia, sui fianchi, facendo insomma tutto quello che è necessario tra schermitori provetti. Intanto, a quel nuovo bisogno di associar le due mani in un solo lavoro, si sciolgono i polsi, brillano i muscoli, guizzano, si stendono e si contraggono i tendini, fulminando imperiosi ogni moto che gli occhi vigilanti avvertano necessario alle membra in orgasmo. Eccoci al punto buono; si colpisce strisciando qua e là, si para un po’ meno e si risponde di più, si picchia e si ripicchia, ora alternamente ed ora all’unisono, come due battitori indefessi, quando menano il correggiato sull’aia, e volano i colpi, rombano in alto, calano impetuosi i randelli, nè l’occhio discerne più il manfanile dalla vetta, non vedendo più neanche la gòmbina.

Quello che non si vede, qualche volta si sente; e come! In quella cieca tempesta di bastonate, me n’è calata una sulle nocche delle dita, che mi fa vedere, se non altro, le stelle. Inferocisco; mi caccio sotto al mio avversario, ho la fortuna di guadagnar mezzo tempo e di assestargliene una di sotto in su, che gli fa sgusciar di mano il bastone. Ma non c’è da cantar vittoria; il mio avversario si china rapidamente, abbranca il bastone, sguizza via prima che io passi dal montante al fendente, torna all’assalto più infellonito che mai. Egli a me ed io a lui, si picchia così sodo e così lungo, che i poveri bastoni non ne possono più, gemono, si sfibrano, si sfasciano, a guisa di canne peste.

— Ne hanno abbastanza? — chiede il maestro di combattimento.

— No; — brontolo io.

— No; — rugghia Filippo.

E vorremmo proseguire; ma Pilade ha posto in mezzo il suo bastone di comando.

— Si fermino dunque un minuto secondo; dice egli, a mo’ di — conclusione; — e prendano due bastoni nuovi. Questi li hanno — finiti. —

Si buttano i due avanzi miserevoli, si afferrano le due vette nuove che Pilade ci porge con nobilissimo gesto, e giù da capo la gragnuola. Pare che i bastoni nuovi ci abbiano rinnovate le forze. Sicuramente hanno migliore la presa, e i colpi ci vengono più aggiustati. Vedo io doppio come un toro infuriato, o Filippo è gravemente ferito? Certo, è toccato alla guancia, tra l’occhio e l’orecchio destro, e il sangue gli spiccia da uno strappo che mi pare assai lungo. Vorrei fermarmi, e faccio intanto un gesto d’angoscia.

— Niente, niente; — grida egli, che ha capito a volo. — È una graffiatura. Questi bastoni son troppo sottili, cedono troppo, e la parata non serve sempre a sviare la botta. —

La grandinata ripiglia, e spesseggia. Ne busco la parte mia; ma niente paura, son quasi tutte sulle braccia, e i muscoli enfiati le rifiutano. Mi fischiano gli orecchi, dal sangue che mi corre veloce alle tempia; sento confusamente una voce di donna che strilla, e Pilade che grida più alto di lei:

— Tornate alle vostre cazzaruole; qui non è luogo per voi. —

Capisco, è Argia che ha sentito il frastuono ed è accorsa sbigottita sull’uscio. Ma si è subito ritirata, obbedendo alla voce di Pilade, che è per un momento il vero padrone di casa; e là, in un angolo della cucina, pregherà il Signore e la Vergine benedetta per una coppia di matti furiosi. Pilade si è chetato, e bada a noi colla sua solita flemma; io non odo più altro che il respiro affannoso dei miei polmoni e di quelli del mio avversario, in cadenza colla rovina dei colpi. E a poco a poco mi mutan colore le cose; incomincio a veder rosso, sempre più rosso nell’aria, e in mezzo a quel balenio di randellate che paiono tante linee intrecciate nell’aria, gli occhi spalancati di Filippo Ferri, che mi sembrano quelli di un grosso ragno appiattato tra le fila concentriche della sua tela insidiosa. Sento e non sento il suo bastone toccar me; sento e non sento il mio toccar lui. Che importa oramai contare i colpi? Ai lividi si riscontreranno i conti, e si aggiusteran le partite. Non è più un combattimento, è un battibuglio, come alle nozze di Pulcinella. Ah sì, io che amo tanto le legnate dei burattini, ho qui il fatto mio. E ancora io addosso a lui, e lui a me, come due cani rabbiosi, che non ismettono per morsi che tocchino, per brandelli di carne che perdano. Quando siamo troppo sotto misura, balziamo indietro, o io, o lui, per saltarci addosso da capo; nessuno vuol cedere, nessuno si guarda più tanto o quanto; si fa a cozzare per cozzare, a colpire per la voluttà di colpire; vanno dove le vanno, e chi le tocca son sue; è l’inferno scatenato, è il finimondo, è l’ira di Dio. Poi... poi buio pesto e silenzio di tomba; non ho più visto, non ho sentito più nulla.

Quando riebbi coscienza di me, ero nella mia camera, lungo disteso nel mio letto. Mi guardai dattorno istupidito, non sapendo darmi ragione di niente. Adagino adagino, quasi volessi vedere se ero io e non un altro in quella postura, provai a muover la testa, e mi venne fatto; le braccia, e mi sentii dolere dalle spalle alle mani; le gambe, e non mi parve che rispondessero affatto.

Pilade era là, seduto in un angolo, ed io non lo avevo veduto. Si alzò, al primo gesto ch’io feci, e venne a raccomandarmi di star cheto.

— Ma che cos’è? — gli dissi, maravigliandomi un poco di sentir la mia voce. — Perchè sono in letto?

— Oh, c’è da un pezzo, signor padrone. Non si rammenta di sei giorni fa?

— Sei giorni!... Ah, sì, sono dunque passati sei giorni? Dove avevo la testa?

— Nel ghiaccio, signor padrone, nel ghiaccio pesto, e grazie a Dio ce ne siam fatti fuori.

— Bene... — mormorai; — bene! e... il signor Ferri?

— Anche lui, anche lui. Vadano là, se ne son date di buone. Mamma mia! Pareva la gragnuola che avesse dato in un campo di zucche.

— Ti ringrazio....

— Scusi, dicevo così per dire. È il primo paragone che m’è venuto in mente. Ma basta, non si stanchi a parlare, per la prima volta che le è tornato il giudizio.

— Credi?

— Volevo dire il raziocinio, il sentimento, il che so io. —

Lascio correre l’annaspìo del signor Pilade, mio padron riverito, che è dopo tutto un buon ragazzo, e che in questi giorni ha dato prove di aver più giudizio di me. Mi cheto, come egli raccomanda, ed anche mi addormento, dopo aver bevuto un sorso della pozione che mi offre, senza sapermi dire che cosa ci sia. Due o tre ore dopo arriva il dottore, che riconosco benissimo, e che è lieto di sentirmi parlare.

— Animo, via, le cose vanno benissimo.

— Se lo dice Lei.... Ma ci ho dolori da per tutto.

— Si contenti, si contenti. Quelli passeranno in due o tre giorni. Era la testa, la testa, quella che mi teneva in pensiero; ma ora, sia lode al cielo, sono tranquillo. Se lo lasci dire, signor Morelli, Lei ha un cranio a tutta botta.

— E il signor Ferri, come sta?

— Discretamente, dal canto suo.

— Mi par di ricordare che n’avesse toccato una in testa anche lui.

— Dica pure due, con lacerazione cutanea, e non contiamo le ammaccature. Ma non c’è niente di grave. Il suo amico si duole assai più d’un colpo al ginocchio; dice, anzi, che non è stato di buona guerra.

— Ed io, dottore? Che cosa dovrei dir io, che non posso muover le gambe, tanto le ho peste?

— Oh, gliel’ho detto, non dubiti, ed ha dovuto convenire di aver torto. Son colpi alla testa, ha osservato lui molto giudiziosamente, colpi alla testa, ma che non hanno trovato il bersaglio, e son calati giù a battere dove hanno potuto. Ma che pazzie, signori miei belli, che pazzie!

— Ha ragione, dottore; ma almeno ci siamo sfogati. S’era fatta una scommessa; ci eravamo dette delle male parole; capirà....

— Capisco, sì, capisco che hanno la gioventù nel sangue; ed anche, aiutando il caldo della stagione, sono montati in furore. Ma non lo facciano più; è insalubre. —

Ci son voluti dieci giorni a rimettermi in gambe, quanto bastava per scender da letto. Filippo è venuto al settimo giorno in camera mia. Evidentemente io ho avuta la peggio, se egli ha potuto alzarsi tre giorni prima di me. Ma io, con una lacerazione al cuoio capelluto, non ho segni in faccia; egli porta uno sfregio alla guancia destra, fra l’orecchio e lo zigomo, con una sfumatura di livido. Deve essere stata una brutta legnata, e ne porterà per un po’ di tempo l’insegna.

Gli ho offerta la mano, ed egli l’ha stretta, ma subito pentendosi d’aver fatto troppo forte. Infatti, mi ha veduto torcer le labbra, per trattenere un grido di dolore. Queste povere dita, ancor oggi mi dolgono, e fanno molto a tenere la penna. Il mio scritto è raspatura di gallina.

Non sì è parlato di niente, come se niente fosse avvenuto tra noi. Perchè tornare sul passato? Non è storia da dover tramandare ai posteri, ed è già troppo che l’abbiano a ricordare i presenti. Soltanto al decimo giorno, quando ho cominciato a muovermi per casa, gli ho chiesto:

— Ebbene, che cosa si dice in Corsenna?

— Capirai, — mi ha risposto, — sono rimasti tutti un po’ male; specie per il fatto di non saperne abbastanza. Tutti domandano, prendono lingua dove possono. Io ho inventato qualche cosa, che bastasse ad appagare la curiosità dei più discreti; quanto agli indiscreti, vadano a farsi impiccare. Pilade, da quell’uomo di giudizio che è, aveva incominciato a creare la leggenda d’un nostro alterco, nato da una questione di scherma; ed io, felicissimo della trovata, ho abbondato in quel senso. Per tua norma, tu sei partigiano della scuola lombarda, ed io della napoletana; ci sono queste due scuole, infatti, per la sciabola, come per il mandolino, e tutt’e due la pretendono ad insegnarci il miglior modo di romper la testa al prossimo. Cosicchè, caro mio, se tu anteponi la napoletana alla lombarda, abbi oramai la compiacenza di tenerti in corpo la tua opinione, perchè sarebbe tardi, e mi faresti bugiardo senza alcun sugo. T’avverto ancora che non s’è parlato di bastoni, chè tutt’e due ci saremmo diventati ridicoli, e questo poi, senza rimedio. Ci siamo invece picchiati ed ammaccati colle sciabole da sala, nella furia dell’alterco, ed anche un po’ per ismargiassata, non mettendo la maschera. Con questo ho giustificata la mia graffiatura; quella che si vede, naturalmente. L’altra, che “interessa il cuoio capelluto„, come dice il dottore, è fortunatamente nascosta, e il mio cuoio capelluto non ha nessun interesse a metterla in piazza.

— Sei dunque uscito? — gli ho chiesto.

— Sì, ho fatto le mie visite, e per me e per te. Non mi crederai mica un egoista! —

Sorrido e ringrazio; ma non ardisco chiedergli altro. Frattanto si affaccia Pilade sull’uscio, e gli fa cenno.

— Che vuoi? — dice Filippo. — Ah, sì, ho capito; vengo subito.

— Segreti? — domando io.

— No, si tratta di una commissione. Vado e ritorno. —

Così dicendo, Filippo esce, e si richiude l’uscio dietro. Potrei andare ancor io; ma non sono curioso, e rimango. Per altro, il Giardinetto non è una caserma; è una palazzina di due piani; una persona di più dell’ordinario si fa sentire, non può passare inavvertita; ed io odo una voce d’uomo, voce nuova ed insolita, che si alterna con quella di Filippo. Chi sarà mai? Mi affaccio alla finestra, e la voce mi vien più distinta all’orecchio. “Si degni di venir fuori, discorreremo più comodamente„ ha detto Filippo; ed esce infatti, e un signore lo segue borbottando. Chi sarà mai? torno a dire; chi sarà mai? e che necessità di condurlo fuori?

Chiamo il servitore, e lo interrogo. Voglio sapere chi sia quel signore, che è venuto a cercare il mio ospite, ed è uscito da casa mia brontolando.

— Non faccia caso; — risponde Pilade;-è il suo fare, e credo che non possa parlare altrimenti. Par sempre di sentire un rumor di tuono in lontananza, quando sembra che voglia far burrasca, e la burrasca non si decide. Quello è il signor conte Quarneri. Ma per carità, sor padrone, non mi tradisca; se no, il suo amico mi accarezza la schiena col bastone. Specie ora che gli ho insegnato a maneggiare quest’arma!

— Il conte Quarneri! il marito della contessa? Che cosa vuole egli da noi?

— Che ne so io? Dev’essere un altro che ha i nervi.

— È venuto altre volte?

— Sì, a cercare di Lei, e gli ha risposto il signor Filippo che Lei era ammalato, perciò volesse parlare con lui, che faceva lo stesso; tanto erano amici. Non gli è parso che fosse la medesima cosa, e se n’è andato borbottando. Oggi è tornato, ha borbottato dell’altro, e il signor Filippo lo ha condotto fuori facendo gli occhiacci. Se quell’altro ha delle idee, se le levi di testa, perchè non mi par uomo da stargli a petto, no davvero. —

Il conte Quarneri! Che cosa viene a borbottare da noi? che cosa voleva da me? E sopra tutto, perchè è capitato in Corsenna? Richiamo il servitore, che era già tornato alle sue faccende.

— Dimmi, Pilade; son venute signore al Giardinetto, dacchè ci siamo picchiati?

— Sì, sor padrone. La prima è stata la chioccia con tutta la sua covata; voglio dire la signora Berti, con le tre pollastrine e i due galletti. Poi le signore inglesi, come dicono, quantunque la mamma sia fiorentina, e la figliuola di non so dove, ma certamente italiana.

— Ah, c’era anche la figliuola? E com’era?... com’erano?... dolenti?

— Eh, si può figurare! dolentissime. —

Non ardisco domandare di più, intorno a questo argomento. Chi sa? forse sarà stata dolentissima.... per Filippo.

— Poi, ogni giorno, — continua Pilade, — hanno mandato a cercar notizie il ragazzo della villa, che viene in paese per la spesa. Naturalmente, io e l’Argia le abbiamo date sempre buonissime.

— E la contessa è venuta?

— Sì, due volte; la prima volta da sola, e pareva la statua dell’Addolorata; la seconda volta con quattro signori. A proposito, quei lì hanno lasciati i loro biglietti di visita. Vuole che vada a prenderli?

— Non occorre; Spazzòli, Dal Ciotto, Cerinelli, Martorana; li ho tutti in testa. Fa conto che io li abbia anche in tasca. —

Su queste notizie di Pilade incomincio ad almanaccare, ma senza riuscire a nulla che mi contenti. Perchè il marito della contessa in Corsenna? Perchè in casa mia? Che mi faccia l’onore di esser geloso di me? Ma in che modo gli è venuto il baco? Ah, se fosse com’io incomincio a sospettare.... No, no; è impossibile; una viltà come questa, non s’impresta neanche al peggior dei nemici. Frattanto passa un’ora, ne passano due, e Filippo non ritorna. Che diamine sarà avvenuto? L’impazienza mi prende, e scendo per uscire. Pilade vorrebbe almeno accompagnarmi. Ma è inutile; ecco Filippo che ritorna finalmente, franco, ardito, e, salvo il suo frinzello sulla guancia, fresco come una rosa.

— Bravo! — mi grida. — Fai la passeggiata di prova?

— Sì, come vedi, e volevo venirti incontro nel viale. Anzi, poichè ci sei, e Pilade dovrà andare ad apparecchiare la tavola, puoi vigilarmi un po’ tu. Ed ora dimmi; — ripigliai, dopo che il servitore si fu allontanato, — che cosa vuole il conte Quarneri?

— Come sai? Pilade ti ha detto?...

— No, niente Pilade; l’ho veduto io, il conte; dalla finestra, quando usciva con te, brontolando.

— Come l’hai conosciuto, se viene per la prima volta in Corsenna?

— Oh, lo conosco benissimo; figurati.... che la contessa Adriana me lo ha fatto ammirare in effigie. —

È una bugia; ma m’è venuta bene, e Filippo si persuade.

— Poichè lo sai, — dice egli, stringendosi nelle spalle — eccoti il resto dell’avventura. Il signor conte è capitato in Corsenna, chiamato da una lettera cieca; la solita lettera cieca che vuol ridar la vista degli occhi a chi l’avesse perduta. È venuto a cercarti.... Perchè poi te, e non me, lo saprà chi ha scritto la lettera.... È venuto a cercarti tre giorni fa, e gli han detto che eri a letto ammalato; è ripassato ieri, e l’ho ricevuto io, dicendogli la medesima cosa; soggiungendogli per altro che poteva parlare con me, che ero un altro te stesso. Ho da parlare con lui; mi ha risposto. E allora aspetterà per un pezzo, gli ho ribattuto; l’amico mio è appena convalescente, e non può dare udienza a nessuno. Se n’è andato; credevo che si fosse persuaso; ma no; rieccolo quest’oggi, e quest’oggi si contenta di parlare con me, per guadagnar tempo, come s’è degnato di dirmi. E mi ha mostrata la lettera, in cui gli si dava l’avvertimento salutare, di guardar bene casa sua, di mettere al dovere certi cacciatori troppo invaghiti del Roccolo, eccetera, eccetera. Senta, gli ho detto, i cacciatori son parecchi; sono del bel numero anch’io. Il signor Morelli, contro cui Le hanno scritto, ci andava per insegnare certi versi, da recitare in un concerto di beneficenza; non c’era niente di male, e se non ci ho trovato niente di male io, che cosa vorrebbe trovarci Lei da ridire, Lei che non c’era?

— E lui? che ti ha risposto?

— Ah, se tu lo avessi veduto, che muso! Come? mi ha gridato, fermandosi sui due piedi. E chi è Lei, per darmi di queste lezioni? Sono, gli ho risposto, un gentiluomo che rende giustizia ai meriti della contessa, e Le confesserò candidamente di esser rimasto preso all’incanto delle sue grazie. — Lei scherza; ed io non son uomo da scherzi. — Nemmen io, sa? E non mi rompa la testa per una lettera cieca che ha ricevuta. Se avesse senno, prenderebbe per un orecchio, l’un dopo l’altro, tutti coloro che Le vengono per casa, e li metterebbe inesorabilmente fuori dell’uscio. Inoltre, poichè Le ha dato noia l’acqua tiepida, non dovrebbe aspettare la calda, e dovunque Le piacesse di andare a curar la salute, dovrebbe condurre la sua signora con sè. In coscienza, quando si ha nel giardino una vite moscadella come la sua, non si lasciano andare e venire comodamente le vespe. — Ella mi renderà conto della sua impertinenza. — Nossignore, nessun conto. Sappia che per ragion di donne non mi batto. Alle donne rispetto ed ossequio, non mai colpi di spada o di pistola per esse, col rischio certo di offendere la loro riputazione. Se queste cose non le capisce un marito, le capisco io, che morrò scapolo. Vuol leticare ad ogni costo con me? Mi passi accanto, mi pesti un piede, sperando che io ci abbia un callo.... — Se lo facessi ora? — Ora o poi, vedrebbe.... Anzi no, sentirebbe che pedata; e da farla tornare in fretta a San Pellegrino. Son uomo da dargliela, sa? ed anche da stiacciarla con un pugno; non mi tenti, non mi stuzzichi, perchè son latino. — Ella abusa della forza fisica. — Ma sì, caro signore, e ringrazio il cielo di avermela data per levarmi di torno i noiosi. Del resto, non l’ho usata ancora con Lei, che chiama al soccorso prima del tempo. Ma badi, qualunque cosa Ella tenti di fare contro me o contro amici miei, La stronco, com’è vero Dio, La stronco con queste due mani. Le ha viste? Ora mi si levi da’ piedi.

— Filippo! Filippo! Tu sei un eroe; ma ci hai pur troppo il difetto di tutti gli eroi.

— Quale?

— Di non veder che te stesso. E non hai pensato che c’ero io in ballo, e che non sono un vecchio, nè un fanciullo, nè altrimenti una povera creatura che debba esser protetta da nessun cavaliere errante. Ti ringrazio della generosa intenzione; ma non posso approfittare della tua cortesia. E poichè il conte Quarneri cercava me, avendola con me, andrò io a mettermi a sua disposizione.

— Caro, non ti ho detto tutto; — riprese Filippo. — Io posso avere esagerato; è il mio costume, in un cert’ordine di cose. Ma comunque sia, il mio bravo conte è diventato un agnellino; s’è intenerito; ha preso a ragionare più pacatamente; si è persuaso della tua e perfino della mia innocenza; ha capito donde venisse il colpo della lettera cieca; non ti chiederà più nulla; non chiederà nulla a nessuno; metterà perfino i satelliti alla porta.... ma con una leggera variante al primitivo disegno che avevo osato sottoporgli, cioè chiudendo il Roccolo e portando la signora con sè. Sicuramente, — conchiuse Filippo, — voleva partire col treno delle quattro e venti. Sono ora le cinque; sicchè.... tira le somme.

— Ah! tu sei un gran prepotente; — esclamai.

— Ma che? volevi che per una scioccheria simile lasciassi andar te sul terreno?

— E ci saresti andato tu?

— Certamente; se non si fosse potuto farne di meno.

— Lasciando supporre Dio sa quali ragioni?... — ripigliai. — E che ne avrebbe detto Galatea?

— Che Galatea?

— Perdonami; ho ancora il cervello intronato da una delle tue bastonate.

— Ed io niente, assassino? Ma tu volevi dire....

— Volevo dire la signorina Wilson. —

Filippo Ferri trasse un profondo sospiro dall’ampio torace.

— Eh, caro mio, — mi rispose, — l’ho detto dianzi a quel conte, che io morrò scapolo. Credo bene che la gentile fanciulla pensi a me, come alla prima bambola a cui avrà rotta la testa. E se tu avessi tenuto con me un altro modo, scambio di scrivermi quella tua letteraccia, scambio di ostinarti, come hai fatto, a volermi morto se non m’inchinavo ai tuoi olimpici voleri, non ci saremmo rotte, da veri bamboccioni, le nostre. —

Ho abbracciato Filippo Ferri (era il meno che potessi fare) e pianto come una vite tagliata.

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