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Nell’atto di accompagnare all’Inquisitore di Firenze il proemio, "ma con libertà dell’autore di mutarlo e fiorirlo quanto alle parole come si osservi la sostanza del contenuto", era espressamente notato: "nel fine si dovrà fare la perorazione delle opere in conseguenza di questa prefazione, aggiungendo il Sig. Galileo le ragioni della divina onnipotenza dettegli da Nostro Signore, le quali devono quietar l’intelletto, ancorchè da gl’argomenti Pitagorici non se ne potesse uscire".
Tali ragioni erano state suggerite dal Papa, mentr’era ancor cardinale, a Galileo, presente Agostino Oregio, che ne conservò memoria in una sua opera teologica; ora nel Dialogo gli interlocutori sono tre; Salviati e Sagredo, nei quali l’autore volle immortalare due suoi amici carissimi, ed il terzo, Simplicio, personaggio immaginario che col suo nome ricorda il famoso interprete degli scritti Aristotelici, è il rappresentante della scienza conservatrice, che pone il suo fondamento nell’autorità degli scrittori e che non riconosce altri argomenti se non quelli che dalle opere loro possono desumersi; e proprio nella bocca di questo, che nella discussione accampa obiezioni per lo più inconcludenti e vuote sottigliezze scolastiche, e le cui argomentazioni sono bene spesso volte in ridicolo dagli arguti suoi oppositori, Galileo ebbe la disgraziatissima idea di porre sulla fine dell’opera le ragioni che dal Pontefice gli erano state suggerite. Non fu difficile pertanto ai nemici, che egli aveva in quest’opera battuti a sangue, persuadere il vanitoso e fierissimo Urbano VIII che in quel ridevole personaggio il temerario autore aveva voluto raffigurare lui medesimo; e questa circostanza, fatta valere in aggiunta all’altra che balzava agli occhi di tutti, cioè che soltanto in apparenza erano nel libro proposte indeterminatamente le ragioni filosofiche tanto in favore dell’uno che dell’altro sistema, ma che la mente dell’autore era stata quella di dimostrare la incontestabile verità di quello copernicano, bastò perchè da amico e protettore gli si mutasse ad un tratto in nemico implacabile e s’inducesse a credere ed a dire che quel libro, sono queste le sue stesse parole, era più esecrando e pernicioso a Santa Chiesa che le scritture di Lutero e di Calvino.
Al tipografo Landini si intima di sospendere la vendita e la diffusione del libro, e l’autore di esso non viene immediatamente deferito al Sant’Ufficio soltanto in grazia delle raccomandazioni del Granduca e delle insistenze del suo ambasciatore: il Dialogo però viene sottoposto all’esame d’una Congregazione particolare ed appena ricevutone il parere conforme alla sua volontà, il Papa fa intimare a Galileo col mezzo dell’Inquisitore di Firenze di presentarsi entro un mese al Commissario del Sant’Uffizio in Roma. Nessuna preghiera, nessuna mediazione, nessuna ragione valgono a calmare l’irato Pontefice: in un attestato medico il quale dichiarava che ogni piccola causa esterna avrebbe potuto apportare evidente pericolo di vita all’infelice scienziato, egli sospetta un pretesto per eludere i suoi ordini e perentoriamente manda all’Inquisitore di Firenze che il Sant’Uffizio avrebbe inviato a spese di Galileo un commissario e dei medici, i quali se l’avessero trovato in istato di mettersi in viaggio, lo avrebbero fatto carcerare e legare con catene, e così legato l’avrebbero tradotto a Roma. Non vale che dalla Corte stessa si scriva in conferma delle asserite gravissime condizioni; l’ambasciatore toscano avendo fatto sapere che il Papa minacciava qualche stravaganza, il Granduca non osa più resistere e fa intendere a Galileo che gli è giuocoforza ubbidire. E nel più crudo dell’inverno, fra i pericoli della morìa che dilagava per tutta Italia, di quella stessa della quale è eternata la memoria nelle pagine immortali dei Promessi Sposi, Galileo, fatto prima testamento, muovendo da Arcetri, dove s’era ridotto per trovarsi più vicino alle figliole monache, parte per Roma. Urbano VIII lo ha finalmente a propria discrezione.
Rinunciamo a seguire passo a passo lo sventurato filosofo lungo la via dolorosa di questo secondo processo, impostato principalmente sulla mancanza al precetto col quale il primo era stato conchiuso.
Dopo tre interrogatorii, nell’ultimo dei quali Galileo, stremato di forze, invoca la clemenza dei giudici e la compassione per la cadente sua età ed il miserando stato di salute nel quale era ridotto, il Pontefice ordina che sia interrogato sopra l’intenzione, anche minacciandogli la tortura: e se si terrà fermo, previa l’abiuria de vehementi da farsi in piena Congregazione del Sant’Uffizio, si condanni al carcere ad arbitrio della Sacra Congregazione; che gli si ingiunga di più non trattare nè per iscritto, nè a voce, nè in qualsiasi maniera, della mobilità della terra e della stabilità del sole, sotto pena di recidività; che il libro incriminato sia posto all’Indice, e che copie della sentenza si mandino a tutti i Nunzii Apostolici ed agli Inquisitori ed in particolare a quello di Firenze, il quale legga quella sentenza in piena congregazione e alla presenza del maggior numero di professori di matematica.
Ammonito dall’ambasciatore toscano, che lo voleva salvo ad ogni costo, ad abbandonare la sua linea di difesa ed a sottomettersi a quello che da lui si pretendeva, costretto a rinnegare, almeno in apparenza, la sua fede di scienziato, cade in tale avvilimento da far temere della sua vita, e quando egli si presenta a subire l’ultimo interrogatorio non è più che l’ombra di un uomo. Ma nemmeno della sua sottomissione completa si appagano i giudici, i quali vogliono da lui la dichiarazione che abbia parvenza di giustificare la già decretata condanna. Alla intimazione che se non si risolve a confessare la verità, si addiverrà contro di lui agli opportuni rimedii di diritto e di fatto, risponde: "io non tengo, nè ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla: del resto son qua nelle lor mani, faccino quello che gli piace". A questa arrendevolezza non si placano i giudici, più duramente e senza circonlocuzioni imponendogli che dica la verità "alias devenietur ad torturam", a cui l’infelice risponde: "io son qua per far l’obbedienza, e non ho tenuta questa opinione dopo la determinazione fatta, come ho detto".
Scarse troppo sono le lettere che in questo dolorosissimo frangente scrisse e potè scrivere Galileo, e nemmeno una è infino a noi pervenuta delle molte ch’egli indirizzò alla prediletta sua primogenita; ma sulle risposte frequentissime con le quali essa lo visitava, e che sono tra le gemme più preziose di tutta la letteratura femminile, possiamo con piena sicurezza affermare che mai egli ebbe attraversata la mente dal timore d’un conflitto che nell’animo della figlia amorosissima avesse potuto sorgere fra i suoi doveri verso il Padre che stava per essere condannato e quelli verso la religione in nome della quale lo si condannava. Questo supremo strazio di sentirsi minacciato nel più puro affetto della sua vita fu certamente risparmiato a Galileo, talmente egli aveva modellato lo spirito di Suor Maria Celeste ad immagine del proprio, e così sinceramente e ad onta di tutto egli aveva saputo serbare intatta la sua fede di cristiano e di cattolico di fronte ai tormenti che la Chiesa infliggeva alla sua coscienza di scienziato.
Nella gran sala dei Domenicani alla Minerva si svolge l’ultima scena. Letta la sentenza che proibiva il suo libro, Galileo, dovette abiurare la dottrina copernicana e "con cuor sincero e fede non finta" dichiarare di maledirla e di detestarla.
Onde giustamente fu scritto che, contro violenza così contraria alla dignità umana e all’assoluto dominio che compete alla verità, protestò nel secolo seguente la coscienza popolare, giudicando e condannando a sua volta i teologi con quel motto sublime: Eppur si muove!